I casi di scioglimento del matrimonio
Il codice civile non prevede il c. d. divorzio consensuale, essendo in ogni
caso necessaria una sentenza che accerti la sussistenza delle condizioni
previste dalla legge, su ricorso del coniuge interessato.
L’art. 149 c. c., infatti, si limita a sancire che il matrimonio si scioglie
con la morte di uno dei coniugi e negli altri casi prescritti dalla legge. La
disposizione quindi prosegue, stabilendo che anche la cessazione degli effetti
civili del matrimonio celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto
avviene con la morte di uno dei coniugi, nonché negli altri casi previsti dalla
legge.
Con la L. 898/70 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) il
legislatore ha previsto che, qualora venga meno la comunione materiale (di beni
ed intenti) e spirituale (l’elezione del coniuge a proprio compagno di vita e
di procreazione), il tribunale possa, su richiesta di uno o di entrambi i
coniugi, pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione
degli effetti civili del matrimonio religioso.
Con la L. 6 marzo 1987 n. 74 intervenuta a rivedere l’istituto introdotto dal
legislatore del ’70, ha apportato sensibili modifiche alla disciplina dello
scioglimento del matrimonio, snellendola in tema di procedimento, anche in
armonia con l’ampliamento delle cause di scioglimento dalla previsione di un
procedimento per “direttissima” allorquando la domanda di divorzio sia
inoltrata di comune accordo dalle parti: in tal caso, la legge prevede il rito
camerale e così le parti compariranno innanzi al tribunale in camera di
consiglio per la prima (e unica) udienza.
Innanzitutto gli articoli 1 e 2 della Legge n. 898/70 indicano il primo
accertamento che deve essere compiuto dal giudice in ordine all’impossibilità
di mantenere o ricostituire la comunione spirituale e materiale tra i coniugi
per una delle cause individuate dal successivo art. 3. La dichiarazione di
divorzio, dunque, non consegue automaticamente alla constatazione della
presenza di una delle cause che andremo ora ad analizzare, ma presuppone in
ogni caso l’accertamento da parte del giudice dell’esistenza della concreta
impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto
della definitività della rottura dell’unione spirituale e materiale tra i
coniugi. Tale convincimento dovrà essere desunto da elementi quali il lungo
periodo di separazione, la litigiosità tra loro esistente, e la mancata
comparizione di uno di essi all’udienza fissata per l’espletamento del
tentativo di conciliazione.
Ciò premesso, accertata la fine della comunione coniugale, il giudice deve
verificare che ricorra una di queste tassative cause obiettive, ai sensi
dell’art. 3 della legge in commento:
1) la condanna dell’altro coniuge, dopo la celebrazione del matrimonio, con
sentenza definitiva, anche per fatti commessi in precedenza, all’ergastolo o ad
una pena detentiva superiore ai quindici anni per uno o più delitti non colposi
o a qualsiasi pena detentiva per incesto, violenza carnale, induzione,
costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione ovvero per
omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno del coniuge o
del figlio o, ancora, a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i
delitti di lesione, di circonvenzione di incapace, di omessa assistenza
familiare e di maltrattamenti commessi in danno del coniuge o del figlio;
2) l’assoluzione dell’altro coniuge dall’aver commesso uno dei delitti di cui
al precedente n. 1 per vizio totale di mente o per estinzione del reato ed il
giudice del divorzio accerti, rispettivamente, l’inidoneità del coniuge a
mantenere o a ricostituire la convivenza familiare o che nei fatti commessi
sussistono gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti
stessi;
3) la sentenza di proscioglimento o di assoluzione dal reato di incesto, in
quanto non punibile per mancanza di scandalo;
4) la pronuncia della separazione personale dei coniugi con sentenza passata in
giudicato in caso di separazione giudiziale o con decreto di omologazione in
caso di separazione consensuale, quando siano trascorsi almeno tre anni
dall’avvenuta comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale
nella procedura di separazione personale. Peraltro, in caso di separazione
giudiziale, è sufficiente anche una sentenza parziale rispetto alle eventuali
domande di addebito o patrimoniali consequenziali alla pronuncia di separazione
(es, capo relativo all’assegnazione della casa familiare) (in tal senso, da
ultimo, Cass. sent. n. 416 del 2000);
5) la separazione di fatto dei coniugi, intesa come effettiva cessazione della
convivenza, purché iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970, data di
entrata in vigore della Legge Divorziale, e protratta per almeno tre anni;
6) divorzio o annullamento del matrimonio ottenuto all’estero dall’altro
coniuge straniero o altro matrimonio parimenti contratto all’estero dal coniuge
stesso;
7) matrimonio rato (cioè celebrato) ma non consumato, a prescindere
dall’ignoranza dell’eventuale impossibilità di congiunzione carnale;
8) passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di
sesso, a norma della Legge n. 164 del 1982 (c. d. transessualismo).
Per quanto concerne il motivo di cui al n. 4 sopra illustrato, indubbiamente il
più frequente nella prassi, occorre precisare che la cessazione di uno stato di
separazione giudiziale o consensuale omologata dei coniugi, per effetto di
riconciliazione, richiede la ricostituzione, concreta e durevole, del consorzio
familiare nell’insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali e, pertanto,
non può discendere dalla mera ripresa della coabitazione (si vedano, da ultimo,
Cass. sent. n. 1227 e sent. n. 3323 del 2000).