Gli effetti del Divorzio
La pronuncia di divorzio determina, a decorrere dalla sua emanazione, la fine
dello status coniugale, con tutti i conseguenti effetti, di ordine sia
personale sia patrimoniale, comportandosi alla stregua della risoluzione di un
rapporto contrattuale.
Sul piano personale il divorzio comporta che la moglie non possa più usare il
cognome del marito, salvo autorizzazione del Tribunale, sempre modificabile
quando sussistano motivi di particolare gravità, se ella dimostra che esiste un
interesse meritevole di tutela suo o dei figli in tal senso (magari perché il
cognome individua la donna nell’esercizio dell’attività artistica o perché esso
è stato usato, d’intesa con il marito, in ambito commerciale), ai sensi
dell’art. 5, commi 2, 3 e 4, L. D. Peraltro la Suprema Corte ha statuito al
riguardo che, in caso di violazione da parte della moglie divorziata del
divieto di uso del cognome del marito, quest’ultimo può invocare la tutela di
cui all’art. 7 c. c., chiedendo la cessazione del fatto lesivo ed il
risarcimento del danno, ex art. 2043 c. c., qualora riesca a dimostrare i
pregiudizi che possono derivargli da tale uso illegittimo (Cass. sent. n. 8081
del 1994).
Inoltre forse il principale effetto di natura personale scaturente dalla
sentenza di divorzio è il recupero dello stato libero, necessario per contrarre
nuovo matrimonio, anche se, qualora non si abbia vero e proprio scioglimento
del matrimonio, ma mera cessazione dei suoi effetti civili, tale recupero non è
riconosciuto dall’ordinamento canonico.
Sul piano patrimoniale, con la sentenza il Tribunale, tenuto conto delle
condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale
ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ognuno o comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i
suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone
l’obbligo per un coniuge di corrispondere periodicamente all’altro un assegno
fino a quando costui muoia o si risposi. Interessanti risultano al riguardo due
pronunce recenti della Cassazione, in cui l’obbligo dell’assegno è stato negato
a causa della mancata instaurazione di una effettiva comunione materiale e
spirituale tra i coniugi, ad esempio in caso di matrimonio durato tre mesi e
non consumato per volontà della moglie che poi chiede l’assegno o di unione
durata un anno ma basata esclusivamente su ragioni utilitaristiche (cfr. Cass.
sent. n. 8233 del 2000 e n. 12547 del 2000).
In primo luogo è evidente come l’assegno divorziale non possa essere assimilato
all’assegno di mantenimento conseguente alla pronuncia di separazione, posto
che quest’ultimo si riferisce ad una fase transitoria, destinata a concludersi
con la riconciliazione o con la sentenza di divorzio, mentre il divorzio
scioglie il matrimonio.
L’art. 5, comma 6, L. D., così come riformato nel 1987, prevede che l’assegno
vada somministrato al coniuge solo quando quest’ultimo non abbia mezzi
adeguati, considerati anche quelli di cui si possa disporre liberamente a
seguito di convivenza more uxorio, se le elargizioni sono continuative e
protratte nel tempo, o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive,
vale a dire quando non possa lavorare per motivi di salute (anche se le
menomazioni siano l’esito di un tentativo di suicidio: Cass. sent. n. 12034 del
1991) o per le condizioni offerte dal mercato del lavoro, tenuto conto della
qualificazione personale e della posizione sociale. Da tale quadro emerge
dunque la natura prevalentemente assistenziale dell’assegno. Tuttavia,
esaminando meglio i criteri di cui il giudice, in base al disposto del
richiamato sesto comma dell’art. 5, deve tener conto nello stabilire il
quantum, ossia la misura, di detto assegno, si può osservare come assumano
rilievo anche altre componenti. In particolare, il riferimento alle ragioni
della decisione allude alle cause del divorzio e quindi all’eventuale
responsabilità di uno dei coniugi nel fallimento del rapporto matrimoniale:
tali considerazioni consentono di ravvisare anche un criterio risarcitorio
nella determinazione dell’assegno divorziale. Ancora, dovendosi tenere conto,
tra l’altro, del contributo personale e patrimoniale dato da ciascun coniuge
alla conduzione della vita matrimoniale, emerge la rilevanza di un ulteriore
criterio, di natura compensativa, con cui graduare l’assegno divorziale,
volendo in qualche modo premiare il coniuge più debole. Tale assegno, dunque,
pur appartenendo in senso lato ala categoria degli assegni alimentari, ex artt.
433 e seguenti c. c., dal momento che presuppone lo stato di bisogno del
coniuge avente diritto, mantiene tuttavia una propria autonomia per il concorso
dei criteri risarcitorio e compensativo.
Il diritto all’assegno divorziale in capo al coniuge beneficiario si configura
dunque come un diritto di credito nei confronti dell’altro coniuge, che
tuttavia presenta delle peculiarità, trattandosi innanzitutto di un diritto
indisponibile, il cui titolare non può rinunciarvi, e che gode di una tutela
privilegiata. Già si è detto, in materia di separazione, che l’assegno di
mantenimento può essere pagato anche da terze persone debitrici di somme di
denaro nei confronti del coniuge obbligato. Tuttavia, in materia di divorzio,
l’art. 8 L. D., come modificato nel 1987, delinea una procedura semplificata in
base alla quale l’avente diritto, senza dover adire l’autorità giudiziaria, può
richiedere direttamente al datore di lavoro del coniuge onerato non oltre la
metà di quanto spetta, esibendo il provvedimento che dispone l’assegno ed
invitando a pagare, secondo un contemperamento degli interessi del lavoratore e
del coniuge beneficiario. Inoltre a favore di questi è prevista un’azione
esecutiva diretta nei confronti del terzo (gen. datore di lavoro) che non
adempia. Il giudice può comunque sempre stabilire diverse e ulteriori forme di
garanzia del pagamento, quale, ad esempio, l’iscrizione di un’ipoteca. Su
accordo delle parti, inoltre, la corresponsione dell’assegno può avvenire in
unica soluzione, anche mediante trasferimento di un bene, se ritenuta equa dal
Tribunale, cosicché in tal caso non può essere proposta alcuna domanda
successiva di contenuto economico, ai sensi dell’art. 5, comma 8, L. D. (si
veda Cass. sent. n. 7365 del 1998).
Sul piano successorio, i coniugi divorziati, in linea generale, perdono ogni
reciproco diritto, come conseguenza della perdita del loro status. La legge,
tuttavia, ha previsto taluni diritti che l’ex coniuge superstite, titolare
dell’assegno divorziale, può vantare in occasione della morte dell’altro. Se
dunque un soggetto muore senza lasciare un coniuge superstite, la pensione di
reversibilità spetta all’ex coniuge, purché titolare dell’assegno divorziale
per sentenza del giudice. Se invece vi è un coniuge superstite, il Tribunale
attribuisce all’ex coniuge, purché creditore dell’assegno, una quota della
pensione e degli altri assegni, non tenendo esclusivamente conto della durata
del rispettivo rapporto, ma anche altri fattori, come lo stato di bisogno.
L’ex coniuge titolare dell’assegno, sempre che non sia passato a nuove nozze,
ha inoltre diritto ad una percentuale di indennità di fine rapporto percepita
dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se
l’indennità matura dopo la sentenza, ma non prima della domanda introduttiva
del giudizio di divorzio. Tale percentuale, ai sensi dell’art. 12bis L. D., è
pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il
rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio, rimanendo irrilevante il
periodo di separazione (in tal senso si è pronunciata la Corte Costituzionale
con sent. n. 23 del 1991, e successivamente anche la Cassazione, con sent. n.
1222 del 2000).
L’art. 6 L. D. regola quindi i rapporti tra genitori divorziati e figli,
affermando innanzitutto la permanenza degli obblighi di cui agli artt. 147 e
148 c. c., quanto a mantenimento, istruzione ed educazione, anche se uno o
entrambi i genitori passino a nuove nozze.
Per quel che riguarda l’affidamento della prole e la contribuzione al
mantenimento di essa, si ribadisce quanto già illustrato in tema di
separazione.
Infine ai sensi dell’art. 6, comma 6, L. D., l’abitazione nella casa familiare
spetta di preferenza al genitore affidatario della prole minorenne o a quello
con cui i figli convivono oltre la maggiore età, perché non ancora provvisti,
senza loro colpa, di sufficienti redditi propri. Peraltro la norma in oggetto
stabilisce altresì che, ai fini dell’assegnazione, il giudice deve valutare in
ogni caso le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione,
favorendo il coniuge più debole. Questa ultima parte della disposizione è però
disapplicata dalla giurisprudenza, secondo cui in nessun caso può assegnarsi la
casa familiare al coniuge che non vanti alcun diritto reale o personale
sull’immobile e che non sia affidatario o convivente con figli maggiorenni non
autosufficienti (in tal senso, da ultimo, Cass. sent. n. 11696 del 2001).