Dichiarazione giudiziale di paternità naturale.
SENTENZA
N. 50
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Annibale
MARINI Presidente
- Franco
BILE Giudice
- Giovanni
Maria FLICK "
- Francesco
AMIRANTE "
- Ugo
DE SIERVO "
- Romano
VACCARELLA "
- Paolo
MADDALENA "
- Alfio
FINOCCHIARO "
- Alfonso
QUARANTA "
- Franco
GALLO "
- Luigi
MAZZELLA "
- Gaetano
SILVESTRI "
- Sabino
CASSESE "
- Maria
Rita SAULLE "
- Giuseppe
TESAURO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 274 del
codice civile, promosso con ordinanza del 26 novembre 2004 dalla Corte di
cassazione, nel procedimento civile vertente tra Ivan Barbara e Minuto Rizzo
Emanuela ed altri, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 2005 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 8, prima serie speciale,
dell'anno 2005.
Visti gli atti di costituzione di Ivan Barbara e
di Minuto Rizzo Alessandro ed Emanuela;
udito nell'udienza pubblica del 10 gennaio 2006
il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;
uditi gli avvocati Mario Loria per Ivan Barbara
e l'avvocato Antonio D'Alessio per Minuto Rizzo Alessandro ed Emanuela.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza depositata il 26 novembre 2004, la Corte di cassazione – nel
corso di un giudizio avverso una sentenza della Corte d'appello di Venezia che
aveva dichiarato improponibile l'azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità naturale per la carenza della previa dichiarazione di ammissibilità
dell'azione – ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 30 e 111 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 274 del codice
civile «nella parte in cui subordina al previo esperimento di una procedura
delibatoria di ammissibilità l'esercizio dell'azione di riconoscimento di
paternità naturale promossa da un soggetto maggiorenne ai sensi del precedente
art. 269 c.c.».
Premette la
Corte rimettente di avere sollevato analoga (ma non identica)
questione, nel corso del medesimo processo, con ordinanza del 3 luglio 2003,
nella quale il dubbio di legittimità della suddetta disposizione era
diffusamente argomentato con riferimento a quattro distinti profili: a)
la sopravvenuta irragionevolezza intrinseca della norma, con riguardo alla sua
originaria ratio di tutela del convenuto a fronte di avverse iniziative
pretestuose o temerarie; b) il suo carattere discriminatorio nei
confronti dei figli naturali, non essendo analogo procedimento delibatorio
previsto per la corrispondente azione di accertamento della filiazione legittima;
c) il carattere obiettivamente ostativo della procedura rispetto alla
tutela dei diritti fondamentali dei figli naturali, attinenti al loro status
ed alla loro identità biologica; d) la dubbia compatibilità del
procedimento di ammissibilità, quale modellato dal diritto vivente, con il
canone della ragionevole durata del processo, a sua volta coessenziale al
giusto processo.
Detta questione è stata dichiarata manifestamente
inammissibile, con ordinanza n. 169 del 2004, in ragione di una duplice carenza
di motivazione: da un lato, in punto di rilevanza, quanto all'eccezione,
formulata nel giudizio a quo dai convenuti, di intervenuto giudicato
sulla inammissibilità della domanda; dall'altro, in punto di non manifesta
infondatezza, per l'omessa considerazione, da parte della Corte rimettente,
della concorrente finalità di tutela del minore assegnata al procedimento
delibativo sub art. 274 cod. civ. dalla sentenza n. 341 del 1990 e
ribadita dalla successiva pronuncia n. 216 del 1997.
Tutto ciò premesso, osserva il giudice rimettente che la
riproposizione della questione – previa integrazione della motivazione –
costituisce a questo punto «atto istituzionalmente dovuto», stante la
persistenza del dubbio di legittimità costituzionale ed essendo d'altro canto
pacifica, nella giurisprudenza costituzionale, la emendabilità delle carenze
motivazionali che abbiano condotto alla declaratoria di inammissibilità della
questione.
Ai fini, dunque, dell'integrazione della motivazione sulla
rilevanza, precisa la Corte
di cassazione che non è ravvisabile alcun giudicato nella sentenza della stessa
Corte n. 8342 del 1999, che ebbe a cassare l'ordinanza di sospensione del
giudizio di merito in pendenza del procedimento delibatorio. Con quella
sentenza, infatti, la Corte
demandò al giudice di primo grado «di decidere egli (né evidentemente
avrebbe potuto farlo essa nella sede del regolamento di competenza ex
art. 42, nuovo testo, del codice di procedura civile), sulla questione
della proponibilità dell'azione di riconoscimento nella carenza attuale di un
provvedimento definitivo di autorizzazione ex art. 274 c.c.», cosicché
quella sentenza null'altro configura che un giudicato sulla competenza a
procedere del giudice adito, che aveva erroneamente sospeso il processo. Con la
conseguenza, dunque, che è stato solo il Tribunale, adito con l'azione di
dichiarazione giudiziale, ad escluderne l'ammissibilità, per difetto del
presupposto processuale di cui all'art. 274 cod. civ., con sentenza confermata
dalla Corte di appello, avverso la cui pronuncia è stato proposto il ricorso
per cassazione di cui si tratta.
Quanto, poi, alla «più compiuta individuazione del contenuto
della norma denunciata», ai fini della motivazione in punto di non manifesta
infondatezza, precisa la Corte
rimettente che la questione sollevata non può che investire la sola ipotesi
(che viene in considerazione nella fattispecie) di azione proposta ai sensi
dell'art. 269 cod. civ. da soggetto maggiorenne, senza in alcun modo
coinvolgere il procedimento, additivamente rimodellato dalle sentenze n. 341
del 1990 e n. 216 del 1997, relativo ai minori.
Osserva quindi il rimettente che la stessa Corte
costituzionale, nella citata sentenza n. 216 del 1997, ha precisato che, ai
fini della ammissibilità della domanda formulata dal maggiorenne, «è
sufficiente l'esistenza di elementi anche di tipo presuntivo idonei a far
apparire l'azione verosimile, tanto che la pronuncia di ammissibilità può
essere fondata anche sulle sole affermazioni della parte ricorrente».
Il procedimento ex art. 274 cod. civ., così inteso,
risulterebbe all'evidenza non più idoneo ad assolvere la finalità, per la quale
era stato introdotto, di tutela del preteso genitore da istanze vessatorie o
ricattatorie, tanto più che – nella assai infrequente ipotesi di diniego della
autorizzazione all'azione – la domanda è reiterabile sulla base di nuove
allegazioni senza alcun limite temporale.
I connotati di segretezza della procedura, inoltre,
risulterebbero fortemente attenuati nella fase di gravame, per effetto della progressiva
accentuazione del carattere contenzioso della procedura stessa, e del tutto
azzerati in sede di ricorso per cassazione, stante la necessaria pubblicità del
giudizio di legittimità.
In definitiva, la fase di delibazione avrebbe perso, in
riferimento all'ipotesi di domanda proposta da soggetti maggiorenni, ogni
ragione giustificativa ed addirittura si presterebbe ad essere strumentalizzata
in danno del convenuto – alla cui tutela era originariamente preposta – proprio
in considerazione della reiterabilità senza limiti temporali della domanda.
Di qui il dubbio di legittimità costituzionale della norma in
riferimento all'art. 3, secondo comma, Cost., per la sua intrinseca
irragionevolezza; in riferimento all'art. 3, primo comma, Cost., per la disparità
di trattamento che ne deriverebbe tra figli legittimi e figli naturali in tema
di riconoscimento della paternità; in riferimento agli artt. 2, 30 e 24 Cost.,
per il vulnus alla effettività di tutela di diritti fondamentali,
attinenti allo status ed alla identità biologica, «che la coscienza
sociale avverte come essenziali allo sviluppo della persona».
Sarebbe infine «di particolare delicatezza», ad avviso della
Corte rimettente, il profilo di contrasto con l'art. 111 Cost., derivante dalla
dubbia compatibilità del procedimento in questione con il precetto della
ragionevole durata del processo, anche in relazione all'art. 6, paragrafo 1,
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Un iter procedurale
defatigatorio, «ove pur tale per accentuazione di garanzie», sarebbe, infatti,
per definizione, non conforme al parametro del giusto processo, il cui rispetto
comporta la necessità di ricondurre a ragionevolezza i tempi del processo,
anche, eventualmente, attraverso lo scrutinio di costituzionalità.
2. – Si è costituita in giudizio Barbara Ivan, attrice nel
giudizio a quo, concludendo per l'accoglimento della questione
sulla scorta di considerazioni non dissimili da quelle svolte dal giudice
rimettente.
3. – Si sono altresì costituiti in giudizio, con ampia
memoria, Alessandro ed Emanuela Minuto Rizzo, convenuti nel procedimento per
dichiarazione giudiziale di paternità quali eredi degli eredi del presunto
padre.
In via preliminare, le parti suddette, considerato che è
ormai imminente l'approvazione di una modifica dell'art. 274 cod. civ. (art. 69
del disegno di legge n. 2430 del Senato della Repubblica) che, pur confermando
«la giusta cautela preventiva dell'ammissibilità», rimodellerebbe il
procedimento in modo tale da superare i dubbi di legittimità costituzionale
prospettati dal rimettente, chiedono un differimento della pubblica udienza in
attesa della nuova normativa.
In subordine, le medesime parti concludono per la
declaratoria di inammissibilità o, in via gradata, di infondatezza della
questione, ovvero, in via di ulteriore subordine, in caso di accoglimento, per
la declaratoria di decorrenza degli effetti dalla data della sentenza.
La questione sarebbe innanzi tutto priva di rilevanza a causa
del giudicato sulla inammissibilità dell'azione derivante non solo dalla
sentenza n. 8342 del 1999, emessa in sede di regolamento di competenza, ma
anche dalla sentenza n. 9033 del 1997, con la quale la Corte dichiarò la nullità,
per difetto di contraddittorio, del decreto di ammissibilità dell'azione a suo
tempo emesso dal Tribunale di Treviso.
La questione stessa sarebbe, poi, non adeguatamente motivata
quanto alla non manifesta infondatezza e, comunque, non fondata, tenuto conto
della finalità squisitamente patrimoniale dell'azione per la dichiarazione
giudiziale di paternità promossa da un maggiorenne e della conseguente
«necessità logica» di un filtro che garantisca il convenuto da azioni temerarie
o vessatorie, tanto più quando l'azione sia proposta – come nella specie – nei
confronti degli eredi degli eredi del preteso padre, del tutto all'oscuro dei
fatti di causa e nell'impossibilità di ricorrere alla prova del DNA a seguito
della intervenuta cremazione del loro dante causa.
Un siffatto filtro preventivo non rappresenterebbe d'altro
canto un unicum nel panorama legislativo, analogo giudizio di
ammissibilità preventivo essendo previsto, ad esempio, dall'art. 5 della legge
n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati.
L'esigenza di una fase preliminare di ammissibilità si
porrebbe del resto con particolare evidenza ove si consideri che, per pacifica
giurisprudenza, l'azione per il riconoscimento giudiziale di paternità naturale
può essere proposta unitamente a quella di petizione ereditaria, la cui
trascrivibilità è suscettibile di provocare danni irreparabili alla famiglia
legittima del preteso padre.
4. – Nella imminenza della data fissata per la udienza
pubblica, la difesa dei convenuti Alessandro ed Emanuela Minuto Rizzo ha
presentato una memoria, con la quale ha ribadito le conclusioni già rassegnate,
con riferimento, in particolare, al rilievo di difetto di motivazione sulla
rilevanza della questione sollevata, per la presenza dei due giudicati di cui
alle sentenze n. 9033 del 1997 e n. 8342 del 1999 della Corte di cassazione.
Nella memoria si eccepisce un ulteriore profilo di
irrilevanza per il fatto che la
Cassazione, dopo aver affermato un principio di diritto
vincolante, ed avere, pertanto, almeno implicitamente, vagliato la
costituzionalità della norma sulla quale esso era fondato, ha sollevato, su
richiesta della parte soccombente, questione di legittimità costituzionale di
quella stessa norma sulla quale era stato definito in precedenza, dal medesimo
giudice, detto principio di diritto, tanto più che la I^ sezione civile della stessa
Cassazione ha riproposto la questione di legittimità costituzionale dell'art.
274 cod. civ. – dopo che essa era stata dichiarata manifestamente inammissibile
con ordinanza della Corte costituzionale n. 169 del 2004 – senza colmare la
lacuna motivazionale evidenziata dalla predetta ordinanza, ma limitandosi a
circoscrivere il sospetto di incostituzionalità a quella parte della norma
concernente il giudizio di ammissibilità dell'azione per la dichiarazione
giudiziale di paternità e maternità naturale di maggiorenne.
La difesa della parte privata ha dedotto, inoltre, la non
rilevanza della questione sollevata perché non influente sul giudizio a quo,
improponibile nei confronti degli eredi indiretti, per mancanza di
legittimazione passiva degli stessi, a seguito della sentenza delle Sezioni
unite della Corte di cassazione n. 21287 del 2005; ed, ancora, la nullità del
giudizio principale in quanto promosso innanzi ad un giudice incompetente,
rilevando che esso era stato incardinato innanzi al Tribunale di Treviso – precedentemente
alla sentenza della Corte di cassazione n. 2016 del 2001, con la quale, in sede
di regolamento di competenza, era stata dichiarata la competenza del Tribunale
di Roma – e, poi, era proseguito innanzi alla Corte di appello di Venezia, e,
quindi, in Cassazione, nonostante la esplicita eccezione di incompetenza
sollevata dai convenuti in seguito alla citata sentenza n. 2016 del 2001.
Nella memoria si fa, infine, presente che, essendo passata in
giudicato, per effetto della sentenza della Corte di cassazione n. 16531 del
2005, la dichiarazione di ammissibilità dell'azione di cui si tratta, richiesta
sempre dalla signora Ivan, costei potrà nuovamente esperire l'azione di merito
presso il Tribunale di Roma.
Nel merito, si conclude per la manifesta infondatezza della
questione, e, qualora la Corte
decida di accoglierla con riferimento all'art. 111 della Costituzione, sotto il
profilo della violazione del principio della ragionevole durata del processo,
si chiede che gli effetti di detta decisione siano fatti decorrere dalla data
di entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1999.
Considerato in diritto
1. – La Corte
di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 274 del codice
civile, in quanto la norma impugnata, prevedendo una preliminare delibazione di
ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di
maternità naturale promossa da un soggetto maggiorenne ai sensi dell'art. 269
cod. civ., violerebbe l'art. 3, secondo comma, della Costituzione, sotto il
profilo dell'«eccesso di potere legislativo», a causa della contraddizione
intrinseca tra l'attuale disciplina del procedimento – non più caratterizzato
da segretezza dell'indagine, quanto meno nella fase di legittimità, e
suscettibile di reiterazione, sulla base di elementi ulteriori, senza alcun
limite temporale – e la ratio originaria della norma, intesa a tutelare
il convenuto da azioni temerarie o infondate; l'art. 3, primo comma, Cost., per
la disparità di trattamento, quanto alle condizioni per l'accertamento dei
rispettivi status, tra i figli di genitori coniugati e non coniugati;
gli artt. 2, 30 e 24 Cost., per l'obiettivo effetto di ostacolo alla tutela di
diritti fondamentali dei figli naturali che siffatto procedimento
determinerebbe; nonché l'art. 111 Cost., sotto il profilo della irragionevole
durata del processo.
2. – Questione analoga a quella all'odierno esame era già
stata sottoposta nel corso della medesima controversia all'esame di questa
Corte, la quale l'aveva dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza
n. 169 del 2004.
I rilievi che avevano dato luogo alla pronuncia di manifesta
inammissibilità riguardavano, per un verso, l'avere omesso il giudice a quo
ogni motivazione in ordine alla circostanza che nel corso del giudizio principale
fosse già intervenuto un giudicato in punto di ammissibilità della domanda per
effetto dell'avvenuta cassazione (Cass. n. 8342 del 1999) della ordinanza di
sospensione del giudizio di merito, con conseguente, possibile irrilevanza
della questione proposta; per l'altro, una carenza di motivazione, in punto di
non manifesta infondatezza della questione, per la omessa considerazione della
concorrente finalità della norma impugnata di tutela del minore, affidata al
procedimento delibativo di cui all'art. 274 cod. civ. dalla sentenza della
Corte n. 341 del 1990, e ribadita dalla successiva sentenza n. 216 del 1997,
con conseguente censura al rimettente di non aver individuato compiutamente la
norma denunciata e le ragioni che la ispirano.
Tali rilievi sono superati dalla nuova ordinanza.
Infatti, la stessa precisa, quanto al primo aspetto, con
motivazione non implausibile, che nessun giudicato è ravvisabile sulla
ammissibilità dell'azione alla stregua della citata sentenza della Corte di
cassazione n. 8342 del 1999, avuto riguardo al fatto che, con detta pronuncia,
fu demandato al giudice di decidere egli stesso sulla proponibilità
dell'azione, e che, pertanto, quella decisione configura solo un giudicato
sulla competenza del giudice adito.
Quanto all'altro profilo di inammissibilità cui fa
riferimento la ordinanza di questa Corte n. 169 del 2004, relativo alla non
compiuta individuazione della norma denunziata, la nuova ordinanza di
rimessione precisa che la questione, sorta nel corso di un giudizio promosso ai
sensi dell'art. 269 cod. civ., investe solo la domanda proposta da maggiorenne.
3. – In via preliminare vanno esaminati i profili di
inammissibilità evidenziati dai convenuti nel giudizio principale, costituitisi
nel giudizio innanzi alla Corte.
3.1. – L'eccezione di giudicato sulla inammissibilità
dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, ravvisabile, secondo
i predetti, nella sentenza della Corte di cassazione n. 9033 del 1997, con la
quale fu dichiarata la nullità, per difetto di contraddittorio, del decreto di
ammissibilità emesso dal Tribunale di Treviso, è infondata, in quanto detta
sentenza – come, del resto, rilevato dal rimettente già nella prima ordinanza
di rimessione – non ebbe affatto a rendere definitiva una statuizione di
inammissibilità, essendosi, invece, limitata a rinviare al primo giudice, che
già aveva ritenuto l'ammissibilità dell'azione, per la integrazione del
contraddittorio.
3.2. – Parimenti infondata risulta la eccezione di inadeguata
motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, dal momento che tale
motivazione, al contrario, è particolarmente articolata, con riguardo alla
inidoneità del filtro apprestato dalla procedura di cui all'art. 274 cod. civ.
e alle finalità per le quali era stato introdotto.
3.3. – Né appare meritevole di accoglimento la eccezione di
irrilevanza della questione con riferimento alla circostanza che la Corte di cassazione, nella
citata sentenza n. 8342 del 1999 – con la quale, nel decidere sul regolamento
di competenza cui si è fatto riferimento, aveva affermato il principio che la
parte istante, prima della pronuncia definitiva sull'ammissibilità, è priva del
potere di chiedere l'accertamento giudiziale della filiazione naturale e che la
domanda proposta deve essere dichiarata improponibile dal giudice della fase di
merito – avrebbe già, nell'effettuare tale interpretazione dell'art. 274 cod.
civ., almeno implicitamente, compiuto un esame della conformità a Costituzione
della stessa norma.
Al riguardo va osservato che nel nostro sistema di garanzie
costituzionali non è assolutamente ipotizzabile un giudicato sulla legittimità
costituzionale di una norma.
E ciò prescinde dalla valenza di principio vincolante
dell'affermazione di cui si tratta nel caso di specie, in cui questa era stata
compiuta con riguardo alla individuazione del giudice competente alla
valutazione dell'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità, in un caso in cui, per una complessa vicenda processuale, il
giudizio di merito era iniziato prima del giudizio definitivo
sull'ammissibilità e la
Cassazione ne aveva ritenuto erronea la disposta sospensione.
3.4. – Si deduce, inoltre, la inammissibilità per irrilevanza
della questione in considerazione della sopravvenuta sentenza delle Sezioni
unite n. 21287 del 2005, con la quale, in sede di composizione di contrasto di
giurisprudenza, si è esclusa la legittimazione passiva, nel giudizio per la
dichiarazione giudiziale di paternità, degli eredi degli eredi del preteso
padre naturale.
Anche questa eccezione è infondata: la valutazione della
mancanza di siffatta legittimazione in capo ai convenuti nel giudizio
principale per effetto di una decisione del giudice della legittimità, adottata
in altro giudizio, non rende ictu oculi inammissibile la questione
proposta e, comunque, non assume alcun rilievo nella sede attuale.
3.5. – Parimenti irrilevante in questa sede è l'eccezione –
sollevata con la memoria depositata nell'imminenza dell'udienza – di nullità
del giudizio principale in quanto promosso innanzi ad un giudice incompetente,
sollevata sulla base della considerazione che esso era stato incardinato
innanzi al Tribunale di Treviso precedentemente alla sentenza della Corte di
cassazione n. 2016 del 2001, con la quale, in sede di regolamento di
competenza, era stata dichiarata la competenza del Tribunale di Roma, e, poi,
era proseguito innanzi alla Corte di appello di Venezia, e, quindi, in
Cassazione, nonostante la esplicita eccezione di incompetenza sollevata dai
convenuti in seguito alla citata sentenza n. 2016 del 2001.
La decisione da ultimo richiamata, emessa nel giudizio di
ammissibilità dell'azione ex art. 274 cod. civ., non ha alcuna efficacia
nel diverso giudizio di merito ex art. 269 cod. civ., attesa l'autonomia
fra gli stessi e tenuto conto che la questione non risulta dedotta nel giudizio
di cassazione, nel cui corso è stata prospettata la questione di
costituzionalità oggi in discussione.
3.6. – Né, infine, rileva la circostanza che, successivamente
all'ordinanza di rimessione, la Corte
di cassazione, con la sentenza n. 16531 del 2005, abbia dichiarato ammissibile
l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale proposta fra le
stesse parti, non solo perchè la vicenda del giudizio incidentale di
legittimità costituzionale non può essere influenzata da eventi successivi che
potrebbero incidere sul procedimento principale (v., tra le altre, ordinanze n.
270 del 2003, n. 383 del 2002, n. 110 del 2000), ma anche, e soprattutto,
perché oggetto del giudizio a quo è la proponibilità del giudizio di
merito in assenza di un giudicato sulla ammissibilità della domanda: oggetto
sul quale non può in alcun modo incidere il sopravvenire del giudicato in
questione.
4. – Passando all'esame del merito, la questione è fondata.
Il codice civile del 1942 – come risulta dalla Relazione del
Guardasigilli al Progetto definitivo – allo scopo di scoraggiare iniziative con
finalità solo ricattatorie, introdusse, con l'art. 274 cod. civ., la previsione
di un preventivo giudizio di delibazione in ordine all'ammissibilità
dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale,
nel corso del quale, con indagine sommaria e segreta, si potesse valutare
l'esistenza, o meno, di indizi tali da far apparire giustificata detta azione.
Tale giudizio doveva svolgersi in camera di consiglio;
l'inchiesta sommaria doveva avere luogo senza alcuna pubblicità, ed essere
mantenuta segreta, e il decreto con cui si dichiarava ammissibile o
inammissibile l'azione non era reclamabile.
Successivamente, questa Corte dichiarò la illegittimità
costituzionale dell'art. 274, secondo comma, cod. civ. nella parte in cui
disponeva che la decisione avesse luogo con decreto non motivato e non soggetto
a reclamo, nonché per la parte in cui escludeva la necessità del
contraddittorio e dell'assistenza dei difensori, per violazione dell'art. 24,
secondo comma, Cost., relativo al diritto inviolabile della difesa, nonché,
sempre in riferimento allo stesso principio, la illegittimità costituzionale
del terzo comma dell'art. 274, per la parte in cui disponeva la segretezza
dell'inchiesta anche nei confronti delle parti (sentenza n. 70 del 1965).
Con la stessa pronuncia la Corte, con riguardo all'art. 30 Cost., rilevò
testualmente: «è chiaro che la ricerca della paternità viene così considerata
come una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del
matrimonio, e, come tale, è fatta oggetto di garanzia costituzionale» ed
aggiunse: «la stessa norma costituzionale, però, stabilisce che la legge
ordinaria pone i limiti per la detta ricerca: limiti che potranno derivare
dalla esigenza, affermata nel comma 3, di far sì che la tutela dei figli nati
fuori del matrimonio sia compatibile con i diritti della famiglia legittima e
dall'esigenza di salvaguardare, in materia tanto delicata, i fondamentali
diritti della persona, tutelati anch'essi dalla Costituzione, dai pericoli di
una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria».
A seguito di questa pronuncia fu approvata la legge 23
novembre 1971, n. 1047 (Proroga dei termini per la dichiarazione di paternità e
modificazione dell'art. 274 del codice civile), contenente all'art. 2 una nuova
disciplina del giudizio di ammissibilità dell'azione, la quale stabilì
l'obbligo di motivazione del decreto e la sua reclamabilità alla corte
d'appello, confermando peraltro la non pubblicità dell'inchiesta sommaria
compiuta dal tribunale e l'obbligo di mantenerla segreta.
Dal carattere contenzioso del procedimento la Corte di cassazione ha
desunto la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 della Cost.,
avverso il decreto della corte d'appello.
Il contemperamento operato, con le sentenze in precedenza
richiamate, del carattere sommario del procedimento con la salvaguardia del
diritto di difesa, attraverso la previsione dell'obbligo di contraddittorio tra
gli interessati, l'obbligo di motivazione del decreto sulla domanda di
ammissibilità e il reclamo alla corte d'appello, nonché la riconosciuta
ammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., finiscono
per escludere quel carattere di segretezza posto a difesa del preteso padre.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha lasciato poi
immutata la struttura del procedimento, limitandosi a sostituire le «specifiche
circostanze» agli «indizi» di cui al testo originario dell'art. 274 cod. civ.,
quali elementi la cui sussistenza è richiesta ai fini del giudizio di
ammissibilità di cui si tratta.
Questa Corte ha successivamente dichiarato la illegittimità
costituzionale dell'art. 274 cod. civ. nella parte in cui, se si tratta di
minore infrasedicenne, non prevede che l'azione promossa dal genitore esercente
la potestà sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente
all'interesse del minore (sentenza n. 341 del 1990), ma ha ritenuto sufficiente,
ai fini dell'ammissibilità dell'azione, l'esistenza di elementi anche di tipo
presuntivo idonei a far apparire l'azione verosimile, precisando che «il
procedimento in esame è ispirato pertanto a due finalità concorrenti e non in
contrasto fra loro, essendo posto a tutela non solo del convenuto contro il
pericolo di azioni temerarie e ricattatorie, ma anche e soprattutto del minore,
il cui interesse sta nell'affermazione di un rapporto di filiazione veridico,
che non pregiudichi la formazione e lo sviluppo della propria personalità»
(sentenza n. 216 del 1997).
A ciò bisogna poi aggiungere che la costante giurisprudenza
della Corte di cassazione ha valutato le «specifiche circostanze» cui fa
riferimento l'art. 274 cod. civ. alla stregua di criteri di verosimiglianza e
non di certezza, ritenendo sufficiente che la dichiarazione della madre sia
supportata da un fumus boni iuris (Cass., sentenze n. 151 del 1998, n.
2346 del 1994, n. 7742 del 1995), rinviando al giudizio di merito l'esame delle
contestazioni sollevate dal convenuto e limitandosi a conoscere delle eccezioni
di improponibilità dell'azione (per decadenza, giudicato, transazione) in via
meramente delibativa al solo fine di emettere la decisione sull'ammissibilità
dell'azione instauranda (Cass. n. 2979 del 1976). In tal modo la stessa Corte
di cassazione ha fornito conferma alla opinione di quanti avevano definito il
giudizio di ammissibilità di cui si tratta un “ramo secco” dell'ordinamento che
limita il diritto dei figli all'accertamento della paternità senza più
salvaguardare le esigenze del preteso genitore. In definitiva, detto giudizio
può ormai considerarsi un inutile duplicato idoneo solo a favorire istanze
dilatorie.
Ed, infatti, la descritta evoluzione della disciplina
procedimentale del giudizio di ammissibilità ha totalmente vanificato la
funzione in vista della quale tale giudizio era stato originariamente previsto
dal legislatore, e cioè la protezione del convenuto da iniziative «temerarie e
vessatorie» perseguita attraverso la sommarietà e la segretezza della
cognizione, devoluta in questa fase all'organo giudicante; con la conseguenza
che il giudice è abilitato dalla norma attualmente in vigore a dare alla sua
cognizione l'estensione ritenuta più opportuna e pertanto tale da spaziare, come
ha statuito la giurisprudenza di legittimità, dalla ammissione di accertamenti
tecnici idonei a definire il giudizio di merito, senza che ciò incida sulla
necessità della sua successiva proposizione, fino alla sufficienza delle sole
affermazioni della parte ricorrente.
Peraltro, il meccanismo processuale di cui alla norma
impugnata – in palese contraddizione con la sua funzione “preventiva”– si
presta, come è stato esattamente rilevato nell'ordinanza di rimessione, ad
incentivare, per la sua stessa struttura, strumentalizzazioni, oltre che da
parte del convenuto, anche da parte dello stesso attore che, attraverso una
accurata programmazione della produzione probatoria, è in grado di assicurarsi
– non essendo il provvedimento di inammissibilità suscettibile di passare in
giudicato – una reiterabilità, a tempo indeterminato, della istanza di
riconoscimento, con la conseguenza che, proprio a fronte di iniziative
effettivamente vessatorie, il convenuto potrebbe non esserne mai
definitivamente al riparo.
L'intrinseca, manifesta irragionevolezza della norma (art. 3
Cost.) fa sì che il giudizio di ammissibilità ex art. 274 cod. civ. si risolva
in un grave ostacolo all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24
Cost., e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti
fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica; così
come da tale manifesta irragionevolezza discende la violazione del precetto
(art. 111, secondo comma, Cost.) sulla ragionevole durata del processo, gravato
di una autonoma fase, articolata in più gradi di giudizio, prodromica al
giudizio di merito, e tuttavia priva di qualsiasi funzione Né può tacersi che
l'evoluzione della tecnica consente ormai di pervenire alla decisione di
merito, in termini di pressoché assoluta certezza, in tempi estremamente
concentrati.
Da quanto precede deriva l'incostituzionalità dell'art. 274
cod. civ. per violazione degli articoli 3, secondo comma, 24 e 111 della
Costituzione, senza che sia di ostacolo alla relativa pronuncia la limitazione
del petitum, contenuta nella ordinanza di rimessione, nella quale
si fa riferimento al solo giudizio di ammissibilità promosso da maggiorenni.
La definizione dei termini della questione, adottata dal
rimettente sotto il vincolo che allo stesso si impone in funzione della sua
rilevanza nel giudizio principale, non limita le valutazioni di questa Corte
sul procedimento regolato dalla disposizione impugnata, ove affetta dai
denunciati vizi nella sua complessiva e generale applicazione ad ogni ipotesi
di delibazione di ammissibilità dell'azione.
Infatti, in presenza di una incostituzionalità che, come si è
appena visto, coinvolge detto procedimento nella sua struttura e funzione, la
circostanza che lo stesso abbia anche lo scopo di accertare l'interesse del
minore non fa venire meno l'incostituzionalità stessa, né giustifica la
permanenza nell'ordinamento del giudizio di ammissibilità con questo solo
scopo.
L'esigenza, infatti, che l'azione di dichiarazione giudiziale
della paternità o maternità naturale risponda all'interesse del minore non
viene certamente meno con la soppressione del giudizio di cui all'art. 274 del
codice civile, ma potrà essere eventualmente delibata prima dell'accertamento
della fondatezza dell'azione di merito.
Per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'articolo 274 del codice civile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta il 6 febbraio 2006.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
Alfio FINOCCHIARO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2006.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA