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SENTENZE SULL’ANATOCISMO BANCARIO

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE 1 CIVILE

SENTENZA DEL 14 MAGGIO 2005, N. 10127

Fallimento di spa - contratti bancari di apertura di credito - saldo debitore - applicazione dell'anatocismo - nullita' dei contratti - restituzione importi risultanti dalla capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori - clausole uso piazza - validita' - limiti

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dai Sigg. Magistrati:

Dott. Giammarco Cappuccio - Presidente

Dott. Giuseppe Marziale - Consigliere

Dott. Giuseppe Vito Magno - Consigliere

Dott. Carlo Piccininni - Consigliere Relatore

Dott. Sergio Del Core - Consigliere

ha pronunziato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Banca del Sa. S.p.A. in persona del Presidente, elettivamente domiciliato in Ro., Via Co. 91, presso l'Avvocato Sa. Fo., che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale autenticata per atto del Notaio Ro. Ma. in data 20.12.2001, rep. n. 7415;

ricorrente

contro

Fallimento Gr. Co. S.r.l. in persona del curatore, elettivamente domiciliato in Ro., Via Un. 5, presso l'Avvocato Al. Di Sa., rappresentato dall'Avvocato An. Ta. per delega a margine del controricorso;

controricorrente e ricorrente incidentale

Lu. Ch. e En. Ca., elettivamente domiciliati in Ro., Via Un. 5, presso l'Avvocato Al. Di Sa. rappresentati dall'Avv. Br. In., che li rappresenta per procura speciale rilasciata con atto Notaio Ro. Ma. di Le., n. 258973, in data 11.3.2002;

controricorrenti e ricorrenti incidentali;

avverso la sentenza n. 598/2001 emessa dalla Corte di Appello di Lecce in data 22.10.2001;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza dal Consigliere Relatore Dott. Carlo Piccininni;

sentito l'Avvocato Sa. Fo. per il ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale, il rigetto di quello incidentale del fallimento, l'inammissibilità di quello incidentale di Lu. Ch. e En. Ca.;

sentito l'Avvocato An. Ta. per il fallimento, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento di quello incidentale;

sentito l'Avvocato Br. In. per Lu. Ch. e En. Ca., che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento di quello incidentale;

sentito il Procuratore Generale in persona del Dott. Umberto Apice, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale del fallimento, per l'inammissibilità del ricorso incidentale di Lu. Ch. e En. Ca. e per l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato del ricorrente principale.

Con atto di citazione del 25.3.1996 la Gr. Co. S.r.l., titolare di conto corrente presso la Banca del Sa. S.p.A., Lu. Ch. ed En. Ca. quali fideiussori, avendo rilevato che dall'ultimo estratto conto bancario risultava un saldo debitore di £ 457.369.987, convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Lecce la detta banca, per sentir dichiarare la nullità dei diversi contratti di apertura di credito e delle obbligazioni accessorie, e sentir quindi condannare la banca, previo ricalcolo delle somme a credito e a debito di entrambe le parti, al pagamento della somma di £ 335.950.583.

La Banca del Sa. S.p.A., costituitasi, rivendicava la legittimità del proprio comportamento, osservando in particolare che il tasso di interesse era stato determinato per relationem con criteri oggettivi, che l'anatocismo era stato correttamente applicato, trattandosi di uso normativo, che il computo degli interessi sugli assegni con decorrenza dal giorno della loro emissione risultava in sintonia con l'art. 7 del contratto, e proponeva inoltre domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento di £ 457.369.987, oltre accessori, somma corrispondente a quella riconosciuta in sede di ammissione alla procedura di amministrazione controllata da parte della società debitrice.

Il Tribunale di Lecce emetteva dapprima sentenza non definitiva, con la quale dichiarava che gli interessi dovuti in relazione a contratto di conto corrente erano quelli legali; che gli interessi composti dovuti, capitalizzati secondo contratto, erano quelli legali e avevano decorrenza fino al 29.9.1993, data di chiusura del conto;

che nulla era dovuto per commissione di massimo scoperto;

che il calcolo della decorrenza degli interessi sugli assegni risultava corretto.

Disposta la prosecuzione del giudizio per le relative quantificazioni, emetteva poi sentenza definitiva, con la quale venivano rigettate, perché non provate, le domande rispettivamente proposte dalle parti.

Entrambe le sentenze venivano impugnate, in via principale dalla Banca del Sa. S.p.A., ed in via incidentale sia dalla società, nel frattempo dichiarata fallita, che dai fideiussori.

La Corte di Appello di Lecce, pronunciando sulle due cause riunite, condannava la banca al pagamento in favore del fallimento della somma di £ 376.375.436, oltre interessi legali dalla domanda, dichiarava inoltre che nulla era dovuto dai fideiussori, rigettava infine la domanda riconvenzionale della Banca.

In particolare la Corte disattendeva innanzitutto l'eccezione di improcedibilità della domanda, proposta in ragione dell'intervenuta ammissione al passivo del fallimento del credito vantato dalla banca, e ciò in ragione del fatto che il credito in questione sarebbe risultato da sentenza non definitiva e quindi, una volta esercitata da parte degli organi fallimentari l'opzione per l'impugnazione ai sensi dell'art. 95, comma 3, L.F., il processo avrebbe dovuto necessariamente proseguire davanti al giudice naturale dell'impugnazione, privando in tal modo il giudice delegato del potere di decidere al riguardo, tanto che il provvedimento di ammissione da lui emesso sarebbe "nella parte in cui contempla il credito della Banca del Sa. S.p.A. tamquam non esset, in quanto emesso in assoluta carenza di potere".

Rilevava inoltre, nel merito, l'infondatezza della censura concernente il tasso di interesse applicabile nella specie, osservando innanzitutto come fosse insussistente il denunciato vizio di ultrapetizione, atteso che gli attori avrebbero indicato la ragione della nullità della clausola relativa agli interessi fin dall'atto di citazione; fosse priva di pregio l'intervenuta approvazione degli estratti conto, essendo nella specie in contestazione la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali erano conseguentemente derivate le annotazioni;

non fosse ravvisabile l'eccepita prescrizione, la cui decorrenza sarebbe da far risalire alla chiusura del rapporto, avvenuta il 29.9.1993, mentre l'azione era stata esercitata il 5.3.1996;

fosse viziata per genericità la clausola determinativa degli interessi con riferimento al c. d. uso piazza, né avessero rilevanza in senso contrario le ulteriori considerazioni svolte dalla banca circa la sua posizione di arbitratore, la ricorrenza di usi, la mancata contestazione del credito della banca prima del giudizio, il riconoscimento nei bilanci di esercizio e nel ricorso per l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata, il richiamo all'art. 1825 c. c., rispettivamente in quanto: la banca avrebbe rivestito la qualità di parte e non di terzo, sarebbe indimostrata l'esistenza degli usi invocati al riguardo, la mancata contestazione non precluderebbe il successivo esercizio del diritto, il riconoscimento del debito, funzionale all'ammissione alla procedura, non avrebbe efficacia novativa dell'obbligazione e non potrebbe perciò dar luogo alla caducazione del diritto di sollevare eventuali eccezioni in proposito, l'art. 1825 sarebbe applicabile per il conto corrente ordinario e non anche per quello bancario.

 

Ugualmente infondate sarebbero poi: la censura dell'appellante principale relativamente al capo concernente la capitalizzazione trimestrale, esclusa per il periodo successivo alla chiusura del conto (mentre fondata sarebbe invece quella degli appellanti incidentali in relazione all'affermata legittimità della detta capitalizzazione durante il periodo di vitalità del rapporto), dovendosi ritenere esistente sul punto, a dire della Corte di merito, un uso negoziale e non normativo, inidoneo in quanto tale ad escludere l'applicazione del divieto dettato dall'art. 1283 c. c. ;

 

quella - sempre dell'appellante principale - attinente al mancato riconoscimento della Commissione di massimo scoperto, che correttamente sarebbe stata negata "in quanto non prevista in contratto";

 

quella - dedotta dagli appellanti incidentali - avente ad oggetto il rigetto della domanda di nullità della clausola sull'addebito delle valute, essendovi in proposito previsione contrattuale, certamente valida pur in assenza di uso normativo, non contrastata da alcuna disposizione di legge.

 

Avverso la detta decisione proponeva ricorso per cassazione la Banca del Sa. S.p.A., che con sei motivi, articolati in più profili, denunciava violazione di legge e vizio di motivazione, rilevando in particolare: l'impugnazione sarebbe improcedibile perché l'accertamento del credito vantato da esso istituto di credito sarebbe demandato al giudice delegato del fallimento e vi sarebbe un nesso inscindibile fra domanda principale e riconvenzionale, come più volte affermato da questa Corte di legittimità in sede di interpretazione del combinato disposto degli artt. 43 e 52 L.F.

 

Inoltre non vi sarebbe carenza di potere da parte del giudice delegato nel disporre l'ammissione del credito al passivo del fallimento, ma sarebbe al contrario in proposito ravvisabile, come conseguenza, una preclusione da giudicato, e l'ammissione del credito avrebbe dovuto per di più essere interpretata come rinuncia all'impugnazione. Infine la sentenza definitiva sarebbe intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento, circostanza questa che escluderebbe l'applicabilità sotto tale profilo dell'art. 95, comma 3, L.F.;

 

sarebbe errata la pronuncia relativa alla clausola "uso piazza" sotto diversi aspetti, e cioè perché sarebbe riscontrabile vizio di ultrapetizione posto che la citazione sarebbe priva di riferimenti alla violazione dell'art. 1284 c. c., troverebbe applicazione la disciplina dell'art. 1349, per la quale la banca avrebbe potuto legittimamente integrare l'elemento indeterminato con giudizio eventualmente modificabile a seguito di contestazione giudiziale, irragionevolmente sarebbe stata esclusa l'applicabilità al caso di specie dell'art. 1825 c. c. dettato in tema di conto corrente ordinario, considerata l'analogia esistente fra le due distinte figure contrattuali (conto corrente ordinario e bancario);

 

ugualmente censurabile sarebbe l'intervenuta declaratoria di nullità della clausola contrattuale che disciplina la capitalizzazione degli interessi dovuti, e ciò sotto il triplice riflesso che l' art. 1283 c. c. non sarebbe applicabile "al fenomeno dell'annotazione in conto corrente degli interessi scaduti", la disposizione non avrebbe natura imperativa, e gli usi avrebbero carattere normativo;

 

a torto la Corte di merito avrebbe ritenuto non prevista dal contratto la commissione di massimo scoperto per due concorrenti ragioni, vale a dire per il fatto che nell'accordo si sarebbe fatto riferimento all'obbligo per il correntista di far fronte alle commissioni, e per effetto delle clausole d'uso, evocabili ai sensi dell'art. 1340 c. c., che per l'appunto deporrebbero in tal senso;

 

contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, l'eccezione di prescrizione sarebbe fondata, perché il termine iniziale di decorrenza sarebbe quello della data di ciascun pagamento indebito e non quello della chiusura del rapporto contrattuale; la Corte di merito avrebbe infine errato nel rigettare la domanda riconvenzionale di esso istituto di credito e nel compensare le spese processuali.

 

Resistevano con controricorso sia il Fallimento Gr. Co. S.r.l. che Lu. Ch. e En. Ca., i quali proponevano anche ricorso incidentale, con cui il primo denunciava violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione attinente al computo della valuta (che per effetto del parametro adottato si tradurrebbe "in ultima analisi in un addebito di interessi passivi ultralegali"), alla decorrenza degli interessi legali, il cui termine iniziale avrebbe dovuto essere individuato dalla data di maturazione del credito anziché dal momento di proposizione della domanda, come era stato stabilito, alla disposta compensazione delle spese di giudizio; i secondi, analogamente, lamentavano l'erroneità della decisione in relazione ai primi due punti sopra considerati, attinenti rispettivamente al computo della valuta ed alla decorrenza degli interessi legali, che avrebbe dovuto essere diversamente calcolata in ragione dell'asserita mala fede della banca.

 

Resisteva con controricorso al ricorso incidentale dei resistenti la Banca del Sa. S.p.A., che rilevava l'inammissibilità di quello dei fideiussori, in quanto vittoriosi nel giudizio di merito con riguardo al capo concernente il computo delle valute ed estranei alla statuizione attinente agli interessi; l'inammissibilità di quello del fallimento per la decorrenza degli interessi legali sulla somma oggetto di ripetizione, trattandosi di domanda nuova; l'infondatezza nel merito delle questioni prospettate.

 

La banca proponeva inoltre con lo stesso atto ricorso incidentale condizionato, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione per l'omessa considerazione degli effetti riconducibili alla mancata impugnazione dell'estratto conto, a suo dire preclusivi della possibilità di contestazione delle operazioni materiali di accredito e di addebito.

 

Lu. Ch. e En. Ca., infine, depositavano memoria.

 

La controversia veniva quindi decisa all'esito dell'udienza pubblica del 20.01.2005.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Disposta preliminarmente la riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 335 c. p.c. e prendendo dapprima in esame quello principale, si osserva che con il primo motivo la Banca del Sa. S.p.A. ha denunciato violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all'affermata infondatezza dell'istanza formulata all'udienza del 19.05.1999, con la quale era stata sollecitata la declaratoria di improcedibilità della domanda proposta dal fallimento nei suoi confronti, in ragione del fatto che dall'avvenuta e definitiva ammissione allo stato passivo (questo, infatti, era stato dichiarato esecutivo il 10.05.1999) del medesimo credito vantato dalla Banca nel presente giudizio sarebbe derivata la dedotta improcedibilità per effetto dell'art. 52 L.F., secondo il quale ogni credito azionato nell'ambito fallimentare deve essere accertato ai sensi degli artt. 92 e segg. L.F., e cioè in sede di verificazione dello stato passivo.

 

In particolare il citato art. 52 avrebbe stabilito una competenza funzionale del giudice delegato a conoscere le ragioni di credito verso il fallito, competenza che sarebbe stata tuttavia derogabile nel caso di decisione non passata in giudicato (e ciò sia nell'ipotesi di accoglimento che in quella di rigetto della domanda), in cui il giudice delegato avrebbe il potere di avvalersi o meno della sentenza non definitiva che accerta o rigetta il credito, decidendo conseguentemente, in via alternativa, di impugnare o di ammettere il credito oggetto di contestazione.

 

Il fatto dunque che il giudice delegato aveva ammesso al passivo del fallimento il credito fatto valere dalla banca con la domanda riconvenzionale avrebbe reso priva di efficacia - e quindi inutile l'eventuale decisione della Corte territoriale sull'esistenza o meno del detto credito, mentre la necessità di una valutazione congiunta da parte del tribunale fallimentare delle due posizioni creditorie fra loro antagoniste (banca/fallimento -fallimento/banca) sarebbe discesa dalla identità del titolo delle due domande (principale e riconvenzionale) e dal conforme consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto.

 

La Corte di Appello aveva però disatteso la prospettazione dell'appellante principale Banca del Sa. S.p.A. nel presupposto che l'art. 95, comma 3, dovesse essere interpretato nel senso che, pur restando ferma la possibilità per il giudice delegato di impugnare la sentenza ovvero di ammettere il credito, tale opzione dovesse ritenersi preclusa una volta privilegiata, come nella specie, la via dell'impugnazione. In detta ipotesi infatti, secondo la Corte, il processo avrebbe dovuto proseguire davanti al giudice naturale, sicché il provvedimento di ammissione sarebbe stato adottato dal giudice delegato in assoluta carenza di potere, e sotto questo aspetto sarebbe stato da considerare “tamquam non esset”.

La decisione sul punto veniva quindi censurata dalla Banca del Sa. S.p.A. sotto diversi profili, rispettivamente individuati come segue: le due domande " trovano legittimazione in un unico titolo”, quella nei confronti del fallimento deve essere delibata dal giudice delegato, "l'intera controversia deve essere conosciuta - nella sede e secondo il rito fallimentare”, in sintonia con l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, atteso che non è consentito operare una scissione fra le due opposte pretese, ed il principio deve trovare applicazione in ogni grado di giudizio;il provvedimento di ammissione non sarebbe stato quindi emesso “in assoluta carenza di potere” ma, al contrario, la sua adozione avrebbe prodotto gli effetti processuali e sostanziali degli artt. 324 c. p.c. e 2909 c. c., trattandosi di decisione definitiva;

l'avvenuta ammissione del credito avrebbe dovuto essere interpretata come implicita rinuncia all'azione; non sarebbe applicabile la disciplina dettata dall'art. 95, comma 3, L.F., poiché nella specie si sarebbe trattato di sentenza di accertamento e non di condanna.Pur essendo condivisibili alcuni dei rilievi svolti dal ricorrente, soprattutto con riferimento all'affermata esclusività ed inderogabilità del foro fallimentare per quanto riguarda il riconoscimento dei crediti vantati nei confronti del fallito, nonché in relazione all'improprietà del richiamo alla disciplina dell'art. 93, comma 2, L.F., la decisione adottata sul punto dalla Corte di Appello deve essere modificata solo parzialmente, vale a dire limitatamente alla statuizione concernente la pretesa creditoria della banca verso il fallimento.

Ed infatti in proposito va innanzitutto premesso che l'art. 95, comma 3, L.F., che stabilisce la necessità dell'impugnazione della sentenza non passata in giudicato da cui risulti l'esistenza di un credito contro il fallimento, nel caso in cui il giudice delegato non ritenga di procedere alla sua ammissione, non appare correttamente evocato poiché nella specie la dichiarazione di fallimento era intervenuta il 10.06.1997, e quindi in epoca antecedente alla prima sentenza non definitiva emessa il 25.09.1997 con la quale non era stata pronunciata alcuna condanna, ma erano stati più semplicemente fissati gli indispensabili parametri, da adottare successivamente per la conseguente quantificazione rimessa al prosieguo.

La data di pubblicazione della sentenza in esame, la formulazione letterale dell'art. 95, comma 3, che fa riferimento a credito risultante da sentenza passata in giudicato e la stessa “ratio” della disposizione, evidentemente dettata, oltre che da esigenze di economia processuale, dalla necessità di evitare effetti preclusivi derivanti dal passaggio in giudicato della sentenza, inducono dunque a ritenere che il citato art. 95 non sia stato correttamente richiamato, dal che discende anche l'inconsistenza della statuizione concernente l'asserita incompetenza del giudice delegato in ordine all'ammissione del credito una volta interposto appello.

Fatta dunque questa premessa, si osserva che nella specie il giudizio era iniziato a seguito di domanda proposta da società (e dai fideiussori), successivamente dichiarata fallita, per ottenere il pagamento di un preteso credito, alla quale aveva quindi fatto seguito domanda riconvenzionale del convenuto nei confronti degli attori, fra i quali la Gr. Co. S.r.l. all'epoca“in bonis“, per far valere a sua volta un credito basato sullo stesso titolo.

 

Ne consegue pertanto, sulla base del chiaro disposto dell'art. 52 L.F., che per quanto riguarda la domanda della banca nei confronti della società fallita opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento del passivo ai sensi degli artt. 93 e ss. L.F., circostanza da cui discende che la stessa (e non anche quindi quella rivolta contro i fideiussori) va dichiarata improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria.

Profili di maggiore opinabilità si presentano invece con riferimento alla domanda contro i fideiussori ed a quella originariamente proposta dalla società “in bonis”, rispetto alle quali il ricorrente ha invocato una "vis attractiva" del foro fallimentare, in sintonia con un orientamento giurisprudenziale di questa Corte, per il quale le opposte pretese derivanti dal medesimo rapporto contrattuale dovrebbero essere inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice e quindi, per effetto della specialità del rito, trasferite nella sede concorsuale del procedimento di accertamento e di verificazione dello stato passivo.

Il rilievo è privo di pregio in quanto il “simultaneus processus” non può né dare luogo ad una deroga al rito fallimentare né sottrarre la domanda al giudice per essa naturalmente competente per devolverla al giudice fallimentare, così determinando un travisamento della struttura logica del sistema concorsuale (Cass. S.U. 2004/21500, Cass. S.U. 2004/21499, Cass. 2003/6475, Cass. 2003/148).

Ciò pertanto comporta che la declaratoria di improcedibilità va limitata alla sola domanda riconvenzionale della banca nei confronti del fallimento, e non anche a quella contro i fideiussori ed a quella proposta in via principale dallo stesso fallimento contro l'istituto di credito.

Né a diverse conclusioni possono indurre i due ulteriori profili di censura dedotti dal ricorrente principale, secondo i quali il giudice delegato avrebbe implicitamente rinunciato all'appello con l'ammissione del credito allo stato passivo e comunque sarebbe precluso ogni ulteriore esame sulla domanda del fallimento, per effetto del definitivo accertamento in sede fallimentare di un credito della banca derivante dallo stesso titolo azionato nel giudizio ordinario.

Quanto al primo punto, l'asserita rinuncia è stata apoditticamente prospettata, non risulta precedentemente rappresentata, presuppone la formulazione di un giudizio di merito incompatibile con il presente giudizio, contrasta con la partecipazione attiva del fallimento al giudizio di secondo grado. Sul secondo va rilevato che il provvedimento di ammissione del credito della banca ha efficacia endofallimentare in termini di partecipazione dei creditori al concorso e pertanto, indipendentemente dalla assoluta estraneità di alcune delle parti (vale a dire i fideiussori) alla relativa delibazione, lo stesso, a cognizione sommaria e avente ad oggetto l'esistenza del diritto concorsuale al riparto, è del tutto indifferente e privo di efficacia diretta nel giudizio in corso nel quale si controverte, nella pienezza del contraddittorio, sulla esistenza o meno del diritto azionato (in tal senso la consolidata giurisprudenza di questa Corte).

La limitazione della pronuncia di improcedibilità alla domanda della banca contro il fallimento comporta dunque che sono suscettibili di delibazione in questa sede le ulteriori domande proposte nel giudizio, quella cioè del fallimento e dei fideiussori contro l'istituto di credito e quella di quest'ultimo contro i fideiussori, circostanza da cui discende quindi che devono essere comunque esaminati gli altri motivi del ricorso principale, tenuto conto dell'incidenza sui fideiussori del dato relativo all'esistenza o meno di una posizione debitoria della Gr. Co. S.r.l. verso l'istituto di credito ricorrente.

Venendo dunque al secondo motivo di ricorso, si osserva che la Banca del Sa. S.p.A. ha poi denunciato violazione di legge, vizio di motivazione e nullità della sentenza per ultrapetizione sulla “clausola uso piazza", in relazione all'affermata inidoneità delle modalità di determinazione “per relationem" del saggio ultralegale a dare certezza del tasso pattuito.

Più precisamente, e innanzitutto, la Corte avrebbe erroneamente ritenuto infondata l'eccezione di extrapetizione sul punto, atteso che l'atto di citazione non avrebbe contenuto alcuno specifico riferimento alla violazione dell'art. 1284, che sarebbe stata invece denunciata solo nel prosieguo del giudizio.

Inoltre, venendo al merito, ricorrerebbero le condizioni per la riforma della decisione impugnata, essenzialmente per le seguenti concorrenti ragioni: l'esclusione di qualsiasi intervento della banca nella concreta determinazione del tasso contrasterebbe con la funzione di intermediaria ad essa assegnata; la portata reale della “clausola uso piazza” avrebbe dovuto essere ricostruita non solo sulla base del contenuto letterale dell'art. 7 delle condizioni contrattuali, ma anche del disposto dell'art. 16, che prevede una riserva in favore della banca per la modifica delle condizioni regolanti il rapporto, oltre che delle prassi comportamentali seguite dalle parti ai sensi degli artt. 1362, comma 2, 1363 c. c. ; il potere di intervento della banca nella determinazione del tasso sarebbe riconducibile all'art. 1349 c. c. nonostante la sua qualità di parte e non di terzo, poiché le relative espressioni sarebbero comunque suscettibili di sindacato da parte dell'autorità giudiziaria, ove sollecitata a tal fine; sarebbe stata erroneamente esclusa l'applicabilità al conto corrente bancario dell'art. 1825 c. c., che si riferisce al conto corrente ordinario, essendo ricavabile la regolamentazione del primo da disposizioni dettate per il secondo, attesa l'analogia fra le due figure contrattuali.

Le doglianze sono infondate, rispettivamente in quanto:

a) la questione dell'ultrapetizione era già stata oggetto di specifica attenzione nei motivi di impugnazione, e la Corte di Appello ne aveva affermato l'inconsistenza rilevando come a pagina 13 dell'originario atto di citazione gli attori avessero enunciato le ragioni di nullità della clausola concernente gli interessi ad uso piazza richiamando la disposizione a loro avviso applicabile (art. 1284, comma 3, c. c. ) ed individuando inoltre nella insufficienza del criterio “per relationem” la carenza del parametro adottato per la determinazione del tasso. Su questo punto nulla ha dedotto il ricorrente, che si è sostanzialmente limitato a richiamare, con enunciazione generica, quanto già precedentemente lamentato, per cui il profilo di censura rappresentato deve essere disatteso.

b) La pretesa contraddizione ravvisata fra la funzione di intermediaria assegnata alla banca e l'affermata impossibilità di un suo diretto intervento per la determinazione del tasso è enunciata in termini generici ed è di per sé inidonea ad individuare l'asserita erroneità dei profili argomentativi svolti sul punto dalla Corte territoriale.

c) la Corte di merito ha preso in esame gli artt. 7 e 16 del contratto, ritenendo che la previsione del combinato disposto delle due clausole non consentisse di precisare alcun elemento estrinseco di riferimento idoneo a garantire una sicura determinabilità degli interessi, per cui la diversa interpretazione suggerita avrebbe dovuto essere sorretta dalla denuncia dei canoni ermeneutici asseritamele violati, con l'indicazione dei profili di erroneità riscontrati;

d) la Corte di Appello aveva ritenuto non pertinente il richiamo della banca all'art. 1349 c. c. a sostegno della legittimità di un suo intervento finalizzato alla determinazione del tasso, sotto un duplice profilo testuale e logico; quanto al primo, perché la norma richiama la possibilità di deferire solo al terzo la determinazione della prestazione, quanto al secondo, perché la funzione equilibratrice demandata all'arbitratore presuppone la sua posizione di terzietà ed esclude che la stessa possa essere correttamente svolta da colui che è titolare di un proprio interesse in contrasto con quello dell'altro.

 

A fronte delle dette argomentazioni il ricorrente ha proposto una interpretazione alternativa dell'art. 1349, essenzialmente basata: sulla possibilità dell'adozione di correttivi in sede giudiziaria rispetto alle determinazioni dell'arbitratore - parte; sulle funzioni svolte dalla banca sul mercato; sulla necessità, per i contratti di durata, di prevedere il rinvio alle condizioni di mercato. Tuttavia non ha rappresentato né le ragioni per le quali le non condivise affermazioni della Corte territoriale configurerebbero violazioni di legge o sarebbero viziate nella motivazione, né i profili di erroneità sotto tale riflesso riscontrati.

e) la Corte territoriale ha ritenuto improprio il richiamo all'art. 1825 c. c. in ragione del fatto che la norma si riferisce al conto corrente ordinario, e non a quello di conto corrente bancario; che quest'ultimo contratto è connotato da autonomia strutturale e funzionale rispetto al primo; che nell'art. 1857 c. c., contenente disposizioni integrative alla disciplina delle operazioni bancarie in conto corrente con rinvio agli artt. 1826, 1829, 1832 c. c., non è contenuto alcun riferimento al citato art. 1825.

Si tratta di rilievi del tutto esatti e pertinenti, rispetto ai quali il ricorrente si è limitato ad invocare l'astratta possibilità del ricorso all'analogia in ragione di una pretesa comune caratteristica strutturale e funzionale dei due contratti in questione, senza indicare né i profili di erroneità in cui sarebbe incorsa la Corte, né la lacuna di disciplina normativa che, ai fini della decisione della controversia, sarebbe stato necessario colmare mediante l'utilizzazione del procedimento analogico previsto dall'art. 12 disp. prel. c. c. .

Con il terzo motivo di impugnazione la Banca del Sa. S.p.A. ha denunciato violazione di legge in relazione alla intervenuta declaratoria di nullità della clausola del conto corrente che disciplina la capitalizzazione degli interessi dovuti dal correntista Gr. Co.S.r.l..

In particolare la statuizione sul punto sarebbe viziata sotto un triplice riflesso, e cioè: a) per l'inapplicabilità della fattispecie delineata dall'art. 1283 c. c. al fenomeno dell'annotazione in conto corrente degli interessi scaduti; b) per l'affermata natura imperativa della detta disposizione, da cui sarebbe derivata la nullità delle pattuizioni ad essa contrarie; c) per la negata esistenza di usi normativi idonei a derogare alla disciplina in tema di anatocismo, ai sensi dell'art. 1283 c. c. .

La doglianza va disattesa per le seguenti considerazioni:

Sub a). L'inapplicabilità dell'art. 1283 deriverebbe dal fatto che la somma di cui il correntista può disporre ai sensi dell'art. 1852 c. c., c. d. saldo disponibile, sarebbe costituito sia dalle somme depositate che da quelle tenute a disposizione dalla Banca, sicché l'annotazione in conto corrente di qualsiasi posta costituirebbe il mezzo attraverso il quale le parti regolano le reciproche obbligazioni, delle quali rappresenterebbe una modalità di adempimento, e la stessa ravvisata fattispecie della produzione di interessi su interessi scaduti non sarebbe quindi neppure ipoteticamente configurabile.

La detta prospettazione non è tuttavia condivisibile perché gli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, quale quella in oggetto, si determinano su crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro (art. 1282 c. c. ), l'estratto conto si intende approvato se non contestato (art. 1832 richiamato dall'art. 1857 c. c. ) ed è quindi da tale data che sono computabili gli interessi sul debito esistente.

Da ciò discende pertanto l'inconsistenza, sotto il profilo normativo, della ricostruzione suggerita dal ricorrente, ricostruzione che avrebbe una valenza rilevante esclusivamente in via astratta e prescindendo dal rapporto concretamente considerato, posto che la Corte di Appello ha in punto di fatto accertato che la pretesa creditoria della banca era stata formulata con il computo degli interessi sugli interessi scaduti in violazione dell'art. 1283 e la relativa statuizione è stata oggetto di censura esclusivamente in relazione alla differente imputabilità delle somme asseritamente dovute (poiché non ascritte al debito per gli interessi), senza alcun riferimento alla pretesa erroneità dei criteri di determinazione dell'ammontare del credito.

Sub b). La Corte di Appello ha evidenziato come nella specie "pacificamente trattasi di disposizione di carattere imperativo e di natura eccezionale", in sintonia con un consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità (fra le altre si richiamano Cass. 2003/13739, Cass. 2001/5675, Cass. 2000/5286, Cass. 199/2374, Cass. 1977/1724), mentre la censura è incentrata sulla irragionevolezza di una interpretazione legittimante deroghe soltanto da parte di usi normativi anteriori al 1942, censura basata su diversa ricostruzione della normativa anziché sui profili di erroneità riscontrabili nella difforme decisione del giudice del merito.

Sub c). Gli usi nei quali troverebbe fondamento nel caso di specie la disciplina degli interessi anatocistici avrebbero natura normativa e non negoziale, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello.

La questione è stata specificamente affrontata da questa Corte che, con motivazione del tutto condivisibile alla quale pertanto più compiutamente si rinvia (Cass. S.U. 2004/ 21095, Cass. S.U. 2003/ 13739, Cass. S.U. 2003/ 12222, Cass. S.U. 2003/ 2593 ), ha ravvisato la natura pattizia delle cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall'A.B.I. al riguardo, in considerazione sia del mancato accertamento da parte della Commissione speciale permanente presso il Ministero dell'Industria dell'esistenza di un uso normativo generale di contenuto corrispondente alla clausola in questione, sia dell'impossibilità di individuare nei soggetti contraenti con le banche l'atteggiamento psicologico di spontanea adesione ad un precetto giuridico (“opinio iuris ac necessitatis“).

Ne discende dunque che non ricorrono le condizioni idonee a legittimare una deroga al dettato dell'art. 1283 c. c. e, conseguentemente, che correttamente è stata dichiarata la nullità della clausola in contestazione.

 

Con il quarto motivo la Banca del Sa. S.p.A. si è doluta dell'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la commissione di massimo scoperto non sarebbe stata contrattualmente prevista, per cui non avrebbe dovuto essere applicata. La statuizione sarebbe infatti viziata per violazione di legge e carenza di adeguata motivazione, tenuto conto del fatto che l' art. 1826 c. c. stabilisce che i detti diritti sono inclusi nel conto, salva convenzione contraria, che le clausole d'uso sono inserite nel contratto se non risulta volontà contraria delle parti, che esiste consolidata prassi contrattuale nel senso prospettato da esso ricorrente.

Il rilievo non ha pregio perché la clausola non era prevista nel contratto (p. 27 della sentenza di secondo grado), il giudice di appello ha giudicato inidonee le norme bancarie uniformi e le istruzioni della Banca d'Italia a disciplinare il rapporto in esame e la decisione non è stata censurata, non risulta sia stata data prova dell'esistenza dell'uso richiamato, la genericità del richiamo non consentirebbe di determinare esattamente l'oggetto della relativa obbligazione, con gli effetti conseguenti in ordine alla sua validità.

Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente ha sostenuto che, contrariamente alla decisione adottata sul punto dalla Corte territoriale che ha rigettato la relativa eccezione, la decorrenza del termine decennale di prescrizione per il reclamo da parte del correntista delle somme indebitamente trattenute dalla banca per interessi calcolati in misura ultralegale senza valida pattuizione dovrebbe iniziare dalla data in cui ciascun pagamento è stato effettuato, trattandosi di azione di ripetizione di tanti indebiti oggettivi quanti sono i pagamenti effettuati in esecuzione delle clausole impugnate.

L'assunto è in contrasto con la condivisa giurisprudenza di questa Corte (Cass. 2004/5720, Cass. 1998/3783, Cass. 1984/2262, Cass. 1956/2488), che ha valorizzato il legame intercorrente fra una pluralità di atti esecutivi in virtù dell'unicità del rapporto giuridico derivante da un contratto unitario, e pertanto deve essere disatteso.

Analogamente deve infine dirsi con riferimento all'ultimo motivo di ricorso, con il quale il giudice di appello ha compensato le spese del relativo giudizio, tenuto conto dell'esito negativo dell'appello principale proposto da esso ricorrente.

Passando quindi all'esame dei ricorsi incidentali, si osserva, per quanto riguarda quello dei fideiussori Lu. Ch. e En. Ca., che lo stesso è inammissibile, atteso l'esito del giudizio di appello nel quale sono risultati vittoriosi, considerato che è stata accolta la loro domanda nei confronti della Banca del Sa. S.p.A. e per l'effetto dichiarato che nulla era da essi dovuto all'istituto di credito convenuto.

In ordine invece a quello del fallimento Gr. Co. S.r.l., va rilevato che sono stati articolati tre distinti motivi, con i quali è stato innanzitutto lamentato violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla decisione di rigetto della domanda di nullità della clausola sull'addebito delle valute, che a dire dell'appellante avrebbe dovuto decorrere dalla data di emissione (o di negoziazione nel caso di postdatazione), questione cui sarebbe stata successivamente agganciata quella relativa alla data degli accrediti.

Più precisamente la detta decisione era stata adottata, con riferimento agli addebiti, per la mancanza di norme o di usi in senso contrario cui pure il ricorrente avrebbe subordinato la legittimità del computo effettuato e, in relazione agli accrediti, per la tardività della prospettazione, asseritamente non trattata con l'appello incidentale, nel quale si sarebbe dato atto dell'assenza di pattuizioni sul punto senza peraltro provvedere alla segnalazione di alcun colpevole ritardo conseguente.

La sua erroneità, secondo il ricorrente, dipenderebbe poi dal fatto che la questione delle valute sarebbe stata congruamente affrontata (pp. 3, 4, 5, 13, 14, 15 dell'atto di citazione, pp. 74, 75, 76, 77 dell'atto di appello incidentale), che non sarebbe stato tenuto debito conto delle valutazioni compiute in proposito dal consulente di parte, che non si sarebbe considerato che “il gioco delle valute” è contrario agli obiettivi della trasparenza e si tradurrebbe “in ultima analisi in un addebito di interessi passivi ultralegali”.

Le doglianze sono infondate perché la Corte di Appello ha affrontato separatamente le due diverse questioni concernenti la decorrenza degli addebiti e degli accrediti, adottando per ciascuna di esse una differente motivazione a sostegno della identica decisione di rigetto (per l'addebito la clausola negoziale non contrasterebbe con alcuna norma, né la sua validità presupporrebbe la preesistenza di un uso normativo in tal senso, per l'accredito la questione non sarebbe stata trattata con l'atto di impugnazione, nel quale l'indicazione relativa all'assenza di pattuizioni sul punto non sarebbe stata affiancata né dalla segnalazione di ritardi colpevoli nell'accreditamento da parte della banca, né comunque da alcuna conclusione al riguardo), profili che sono stati censurati soltanto con il richiamo all'irregolare computo delle valute (senza ulteriori precisazioni in ordine alle conseguenti domande asseritamente mancanti) che esso ricorrente avrebbe operato nelle diverse difese prodotte nel giudizio di merito, alle valutazioni compiute in proposito dal consulente di parte, al parallelismo tra gli effetti prodotti da tale irregolare computo e quelli derivanti dalla violazione dell'art. 1284 c. c., e quindi in modo del tutto generico rispetto alle sopra citate “rationes decidendi” sulle quali la Corte ha basato la propria determinazione sul punto.

Con il secondo motivo di ricorso il fallimento ha poi denunciato vizio di motivazione in relazione al computo degli interessi "dalla domanda al soddisfo" sulla somma di £ 376.375.436 che la banca è stata condannata a pagare in suo favore, decorrenza che viceversa a suo dire avrebbe dovuto essere indicata a far tempo dalla data di maturazione del credito, e ciò in virtù sia del dettato normativo di cui all'art. 1282 c. c., per il quale i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, che delle previsioni contrattuali, posto che ai sensi dell'art. 821 c. c., in mancanza di diversa pattuizione delle parti, gli interessi ed i frutti civili si acquistano giorno per giorno.

La Banca del Sa. S.p.A. ha rilevato l'inammissibilità del detto motivo assumendo trattarsi di domanda nuova, prospettazione che non può però essere condivisa, attesa la generica formulazione della richiesta adottata dal ricorrente incidentale in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di appello, quali desumibili dall'epigrafe della sentenza impugnata (“oltre interessi dalla maturazione al saldo").

La doglianza tuttavia va disattesa nel merito poiché, trattandosi di pagamento indebito, gli interessi sono dovuti dal giorno del pagamento soltanto se chi lo ha ricevuto era in mala fede (art. 2033 c. c. ), condizione la cui esistenza presuppone un accertamento di merito implicitamente effettuato in termini negativi dalla Corte di Appello, e comunque incompatibile con il presente giudizio di legittimità.

Con il terzo motivo, infine, il fallimento si è doluto della disposta compensazione delle spese processuali in ragione della pretesa fondatezza delle argomentazioni svolte, doglianza che va accolta tenuto conto della constatata improcedibilità della domanda proposta dalla banca nei suoi confronti.

Il rigetto del primo motivo del ricorso incidentale comporta l'assorbimento di quello incidentale condizionato articolato dalla Banca del Sa. S.p.A. con riferimento all'asserita approvazione tacita degli estratti conto, approvazione dalla quale sarebbe derivata una preclusione in ordine alle contestazioni astrattamente proponibili al riguardo.

Conclusivamente la domanda di quest'ultima nei confronti del fallimento va dichiarata improcedibile e conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata sul punto senza rinvio; il ricorso incidentale dei fideiussori va dichiarato inammissibile; il ricorso principale e quello incidentale del fallimento devono essere rigettati.

Quanto alle spese processuali, dall'improcedibilità della domanda formulata contro il fallimento e dalla spiccata rilevanza sotto il profilo quantitativo e qualitativo delle questioni - disattese - sollevate dalla banca nel presente giudizio rispetto a quelle dedotte dal fallimento discende che le stesse vanno poste a carico della Banca del Sa. S.p.A., nella misura indicata in dispositivo. Le spese devono invece essere compensate per quanto concerne il rapporto banca - fideiussori, attesa la dichiarata inammissibilità del ricorso di questi ultimi.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi.

Dichiara improcedibile la domanda della Banca del Sa. S.p.A. nei confronti del fallimento Gr. Co. S.r.l. e per l'effetto cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui pronuncia sulla detta domanda;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale dei fideiussori Lu. Ch. e En. Ca.;

rigetta il ricorso principale e quello incidentale del fallimento; condanna la Banca del Sa. S.p.A. al pagamento delle spese processuali sostenute dal fallimento nel giudizio di secondo grado e in quello in oggetto;

dichiara compensate le spese processuali nei confronti dei fideiussori.

Liquida le spese in favore del fallimento in € 7.100, di cui € 100 per esborsi, per il presente giudizio e in € 7.500, di cui € 600 per esborsi per quello di appello oltre, per entrambe le liquidazioni, accessori di legge.

 

CASS. CIV., SEZ. UN., 04/11/2004, N.21095

 

In sede di esegesi dell'art. 1283 c.c., la giurisprudenza della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente, ha enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato da successive sentenze - per cui gli "usi contrari", idoeni ex art. 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli "usi normativi" in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283 c.c.

In tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sul saldo passivo finale di conto corrente bancario, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, con cui è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 76 Cost., la norma (contenuta nell'art. 25, comma 3, D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342) di salvezza della validità e degli effetti delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, fa sì che dette clausole restino, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali non possono che essere dichiarate nulle, perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c.

La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi configurano violazione del divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., non rinvenedosi l'esistenza diusi normativi che soli potrebbero derogare al divieto imposto dalla suddettanorma, neppure nei periodi anterioriu al mutamento giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire normatività a una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente aggiunto

Dott. PAPA Enrico - Consigliere

Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere

Dott. LUPO Ernesto - Consigliere

Dott. PREDEN Roberto - Consigliere

Dott. MORELLI Mario Rosario - rel. Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere

Dott. EVANGELISTA Stefanomaria - Consigliere

Dott. PICONE Pasquale - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CREDITO ITALIANO S.P.A., SUCCEDUTO ALL'UNICREDITO ITALIANO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO DEL TEATRO VALLE 6, presso lo studio dell'avvocato STEFANO D'ERCOLE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIOVANNI MANDAS, PAOLO DALMARTELLO, GUSTAVO MINERVINI, i primi tre per procura in calce al ricorso, il quarto giusta procura speciale del Notaio Dott. Tommaso Gherardi, depositata in data 30/09/2004, in atti;

- ricorrente -

contro

STEFANA CARLINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell'avvocato ALESSANDRO DE BELVIS, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato VALERIO VALSIERATI, giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrente -

e contro

STEFANA FRANCO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 197, presso lo studio dell'avvocato MAURO MEZZETTI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANDREA CORNAGLIA, GUIDO CHESSA MIGLIOR, giusta procura speciale del Notaio Dott. Vittorio Giuia Marassi, depositata in data 15 giugno 2004, in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 19/01 della Corte d'Appello di CAGLIARI, depositata il 15/01/01;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 07/10/04 dal Consigliere Dott. Mario Rosario MORELLI;

uditi gli Avvocati GIOVANNI MANDAS, PAOLO DALMARTELLO, GUSTAVO MINERVINI, ALESSANDRO DE BELVIS, MAURO MEZZETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele che ha concluso per il rigetto del quarto motivo del ricorso, sub d)1 e d)2.

Svolgimento del processo

Il Credito Italiano S.P.A. ha impugnato per Cassazione la sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte di appello di Cagliari, in riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto la opposizione proposta da Franco e Carlino Stefana avverso il decreto ingiuntivo su sua istanza emesso nei confronti dei due predetti intimati, quali fideiussori della F.A.S. s.p.a., per l'importo complessivo di L. 1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al saldo passivo finale del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate plurime erogazioni di credito in favore della società garantita.

Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone l'odierno ricorso - la cui ammissibilità e fondatezza è contestata dagli intimati con separati controricorsi - il Credito Italiano critica in sostanza la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato: a) nel rilevare di ufficio profili di nullità del contratto da cui trae origine il debito garantito dagli attuali resistenti; b) nell'escluderne, in particolare, la validità in relazione alla clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche per il periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn. 2374 del 16 marzo, n, 3096 del 30 marzo e successive conformi che, in contrasto con la precedente giurisprudenza, hanno escluso la rispondenza di clausole siffatte ad un "uso normativo" ai sensi dell'art. 1283 c.c.; c) nel ritenere, inoltre, non operative le garanzie prestate dagli Stefana per il periodo successivo alla data (9 luglio 1992) di entrata in vigore della legge n. 154 del 1992, che ha prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità delle fideiussioni omnibus; d) nell'escludere, infine, la debenza dell'intero credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a torto) carenza di documentazione, imputabile all'istituto, che consentisse di scorporare dall'importo preteso in via monitoria quello riferibile a periodo di operatività della fideiussione e detrarre, dallo stesso, le voci relative alla capitalizzazione periodica degli interessi.

Su istanza della parte ricorrente, il Primo Presidente ha assegnato la causa alle Sezioni Unite, ravvisando, in quella sub b), questione di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione

1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, cpv, cod. proc. civ. si risolve nello stabilire se - incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario - sia o non. esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cass. 1999 n. 2374 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.

2. E', per altro, preliminare all'esame della riferita questione, quello delle eccezioni pregiudiziali - sollevate, rispettivamente, da Franco e da Carlino Stefana - di inammissibilità del ricorso "per difetto di specialità della procura alle liti" e "per intervenuto giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte di Cagliari" nel corso del giudizio a quo.

2/1. La prima eccezione - con cui il difetto di specialità, per "assenza di riferimento al giudizio per Cassazione e alla sentenza impugnanda", è (impropriamente), in particolare, riferito, non già alla procura rilasciata al difensore (che tali riferimenti puntualmente, invece, contiene), ma all'atto fonte dei poteri del soggetto che detta procura ha conferito - è infondata.

Si deduce, infatti, in sostanza, dal resistente che la procura speciale non sia nella specie riferibile - come ex art. 365 c.p.c. viceversa dovrebbe - alla parte od a chi ha il potere di rappresentarla, in quanto sottoscritta "da un dirigente e non dal legale rappresentante del Credito Italiano ricorrente".

E tale rilievo non coglie nel segno, dacchè il dirigente dell'ente - contrariamente all'avverso assunto - ha conferito il mandato alla odierna impugnazione nella veste appunto di "legale rappresentante" del Credito italiano, così (correttamente) spesa sulla base dello Statuto dell'ente che, all'art. 29, testualmente prevede che "la rappresentanza anche (e quindi: non solo) processuale della società spetta disgiuntamente al Presidente, ai Vice Presidenti...nonchè ai dirigenti...con facoltà di designare mandatari speciali per il compimento di determinate operazioni e di nominare avvocati munendoli degli opportuni poteri". 2/2. Del pari destituita di fondamento è anche l'ulteriore eccezione di "giudicato formale interno", che tale vis preclusiva pretende, con evidente forzatura, di conferire all'ordinanza (del 31 maggio 1999), con la quale la Corte di merito - in via istruttoria e strumentale alla decisione, non certo decisoria - si è limitata invece a nominare un C.T.U. per l'espletamento di una perizia contabile, volta ad accertare, sulla base degli atti, le singole voci (tra cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi) da cui risultava il complessivo importo per cui la Banca aveva agito in via monitoria.

3. Precede ancora, a questo punto, l'esame del primo motivo del ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli artt. 112, 101, 345 cod. proc. civ., in relazione all'art. 1421 cod. civ., in cui si assume essere incorsa la Corte di appello nel rilevare di ufficio la nullità della clausola anatocistica. Atteso che, con tal mezzo, si introduce un tema di indagine logicamente preliminare, e virtualmente assorbente, rispetto a quello sostanziale sulla validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui viene in rilievo.

Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di questo Collegio, però, non sussiste.

La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata "di ufficio" nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari ha fatto in corretta applicazione del principio per cui la nullità, in tutto o in parte, del contratto posto a base della domanda può essere rilevata, appunto, di ufficio, anche per la prima volta in appello (cfr. Cass. n. 2772/98).

E' pur vero, per altro, che il potere che il citato art. 1421 conferisce in tal senso al giudice (in ragione della tutela di valori fondamentali dell'ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della domanda, di cui agli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., e che le esigenze a tali principi sottese - rispettivamente di verifica delle condizioni di fondatezza della azione e di immodificabilità della domanda - possono trovarsi tra loro in contrasto ove, in particolare, alla pretesa di una parte relativa ad un credito ex contractu si contrapponga l'eccezione di nullità, dell'altra, che il giudice ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti della patologia del negozio che la parte, interessata alla improduttività dei correlativi effetti, non abbia colto (o non abbia tempestivamente comunque dedotto).

Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione che, se da un lato, il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del contratto dedotto dall'attore, la deduzione in tal senso del convenuto non può costituire, od essere considerata, domanda giudiziale, non ponendosi in rapporto genetico con il potere- dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste.

Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, attenendo all'inesistenza, per mancato perfezionamento o per nullità, del fatto giuridico, il contratto, dedotto dall'attore a fondamento della domanda, che dunque non condiziona l'esercizio del potere officioso di rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di patologia negoziale (Cass. 22.10.1984, n. 5341).

Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale, proposta in via monitoria dal Credito italiano la quale, se pur rivolta nei confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del saldo del contratto di conto corrente, stipulato dal debitore principale. Per cui, appunto, non vale a paralizzare la rilevabilità, da parte del giudice, di aspetti di nullità di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste sostanziale di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo) abbiano focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di invalidità ed inoperatività della fideiussione, da essi prestata. E ciò a prescindere dalla considerazione che, eccependo comunque anche l'inesistenza di valida prova del credito contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò contestato in radice lo stesso debito principale.

4. Può ora passarsi all'esame della questione di massima di cui retro, sub 1. 4/1. Il parametro di riferimento è costituito dall'art. 1283 del codice civile (Anatocismo) e, in particolare, dall'inciso "salvo usi contrari" che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui "gli interessi scaduti possono produrre interessi (a) solo dalla domanda giudiziale o (b) per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi". 4/2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (nn. 2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (nn. 6631/81; 5409/83; 4920/87; 3804/88;

2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze nn. 12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l'art. 25 del d.lgs. 4 agosto 1999 n. 342 ha, all'uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) - (principio) per cui gli "usi contrari", idonei ex art. 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi "normativi" in senso tecnico;

desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283. 4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il "revirement" giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l'enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli "usi contrari", suscettibili di derogare al precetto dell'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali di cui all'art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri "usi normativi", di cui agli artt. 1 e 8 disp. prel. cod. civ., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).

E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che "dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente". 4/4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la Banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari.

Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del 99 abbia correttamente accertato l'inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l'esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che "la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell'uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo" (id est.: la consuetudine si è estinta per desuetudine in J relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante) "proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente orientamento".

Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta:

a) che l'opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni 90, non certo retrodatabile all'epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività;

b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l'esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito "elemento di fondazione o consolidazione dell'uso stesso".

Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.

4/5. L'evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni '90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell'usura - ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole.

Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti.

Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perchè già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell'art. 1283 c.c.), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.

4/6. Nè è in contrario sostenibile che la "fondazione" di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999.

Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell'esistenza e dell'effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa.

Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l'esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l'avrebbero con ciò stesso creata.

Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell'arco di un ventennio) su cui fa leva l'istituto ricorrente.

La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una "opinio iuris" del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.

4/7. Della insuperabile valenza retroattiva dell'accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale - nell'intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell'art. 25 del già citato d.lgs. n. 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo art. 25.

Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell'art. 77 Cost., dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000.

L'eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate mille, perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c. (cfr. Cass. n. 4490/02).

4/8. Sul punto della rilevata nullità della clausola anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato in via monitoria dall'istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a censura.

5. Non diverso esito hanno anche le residue due doglianze formulate dal Credito ricorrente.

5/1. In particolare la denuncia di violazione degli artt. 1367 c.c. e 10 l. 154/92 - con la quale si addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente escluso che per le fideiussioni stipulate in data anteriore alla l. n. 154 cit. il tetto massimo di garanzia, che ne condiziona l'ulteriore validità, possa essere anche "unilateralmente" fissato dalla Banca, come nella specie, l'istituto in concreto avrebbe fatto con lettera del 1976 - si scontra contro l'accertamento in fatto, operato dai giudici a quibus, quanto alla riferibilità di quella missiva a fideiussione diversa da quelle azionate nel presente giudizio. Dal che propriamente l'inammissibilità della censura in esame per difetto di interesse.

5/2. A sua volta, anche la statuizione conclusiva della sentenza d'appello - secondo cui non era risultato, nella specie, possibile l'accertamento del credito azionato nei confronti dei fideiussori "per non avere l'istituto assolto pienamente al suo onere probatorio" - si sottrae al sindacato di legittimità, come sollecitato nella parte finale del ricorso, per la sua attinenza all'area delle valutazioni, relative alle risultanze probatorie, riservate alla discrezionalità di giudizio del giudice del merito.

Nè l'istituto ricorrente può fondatamente sostenere che la rilevazione di ufficio, solo in fase di appello, della questione di nullità della capitalizzazione degli interessi lo abbia ostacolato nella sua attività difensiva. Poichè la Corte territoriale - al fine di accertare quanto effettivamente dovuto alla banca (con detrazione delle voci indebite) - ha disposto apposita C.T.U. E, nel corso delle operazioni peritali, l'istituto ha avuto evidentemente modo di documentare (cosa che secondo i giudici a quibus non ha fatto in modo compiuto) le proprie ragioni creditorie.

6. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto.

7. La stessa particolare rilevanza della questione centrale, prospettata con l'odierno ricorso, costituisce giusto motivo di compensazione tra le parti di questo giudizio di Cassazione.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2004.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2004

 

CORTE COST. (ORD.), 17/10/2000, N.425

 

È costituzionalmente illegittimo, in riferimento all'articolo 76 della Costituzione, l'articolo 25, comma 3, del D.Lgs. n. 342 del 1999. È, infatti, da escludere che l'articolo 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998, con il quale e stata conferita al Governo la delega per l'emanazione di «disposizioni integrative e correttive» del testo unico bancario emanato con D.Lgs. n. 385 del 1993, abbia potuto legittimare una disciplina di sanatoria e di validazione anticipata di clausole anatocistiche bancarie del tutto avulsa da qualsiasi riferimento al tipo di vizio riscontrabile e alle cause di inefficacia da considerare irrilevanti e, quindi, priva della necessaria e sicura rispondenza ai principi e criteri informatori del testo unico bancario.

E' fondata la q.l.c. dell'art. 25 comma 3 d.lg. 4 agosto 1999 n. 342, in riferimento all'art. 76 cost. nel senso che è da escludersi che la legge delega permettesse l'emanazione di una disciplina speciale di sanatoria delle clausole anatocistiche dei contratti bancari e che predisponesse per la loro validità.

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 25 comma 3 d.lg. n. 342 del 1999 per violazione dell'art. 76 cost. da parte del legislatore delegato, in quanto la norma, che da un lato conferisce, in sanatoria, una indiscriminata validità temporanea delle clausole anatocistiche bancarie anteriori al 19 ottobre 1999, con effetti temporalmente limitati sino alla data di entrata in vigore della delibera Cicr e dall'altro ha valore di validazione anticipata per il periodo compreso tra la data di entrata in vigore della legge delegata e quella della delibera del Cicr, lungi dall'essere una norma interpretativa ha, al contrario, efficacia innovativa e (in parte anche) retroattiva.

E' costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli art. 3, 24, 76, 77, 101, 102, 104 cost., l'art. 25 comma 3 d.lg. 4 agosto 1999 n. 342 (Modifiche al d.lg. 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), in vigore dal 19 ottobre 1999, nella parte in cui stabilisce che le clausole riguardanti la produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR) relativa alle modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria (delibera poi emessa il 9 febbraio 2000 ed entrata in vigore il 22 aprile 2000), siano valide ed efficaci fino a tale data e che, dopo di essa, debbono essere adeguate - a pena di inefficacia da farsi valere solo dal cliente - al disposto della menzionata delibera, con le modalità ed i tempi ivi previsti.

 

CASS. CIV., SEZ. III, 30/03/1999, N.3096

 

La capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca sui saldi di conto corrente passivi per il cliente non costituisce un uso normativo, ma un uso negoziale, essendo stata tale la diversa periodicità della capitalizzazione (più breve rispetto a quella annuale applicata a favore del cliente sui saldi di conto corrente per lui attivi alla fine di ciascun anno solare) adottata per la prima volta in via generale su iniziativa dell'ABI nel 1952 e non essendo connotata la reiterazione del comportamento dalla "opinio iuris ac necessitatis".

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Antonio IANNOTTA - Presidente -

Dott. Luigi Francesco DI NANNI - Consigliere -

Dott. Mario FINOCCHIARO - Consigliere -

Dott. Alberto TALEVI - Consigliere -

Dott. Alfonso AMATUCCI - Rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AVENOSO GIROLAMO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 157 presso lo studio dell'Avvocato ENRICO DE CRESCENZO, difeso dagli Avvocati GIUSEPPE VENTURA e l'Avvocato INZITARI BRUNO con procura speciale del Dott. Notaio IVANO GUARINO MILANO 30/9/1998.

- ricorrente -

contro

CASSA DI RISPARMIO DI BIELLA E VERCELLI SPA, in persona del presidente del consiglio di amministrazione avv. Luigi Squillario; elettivamente domiciliato in ROMA L. TEVERE MELLINI 51, presso lo studio dell'avvocato GIORGIO GHIA, che lo difende unitamente all'avvocato MARCO WEIGMANN, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 819/96 della Corte d'Appello di TORINO, emessa il 12/4/96 depositata il 14/06/96;

RG.1309/95.

udita la relazione della causa svolta nella udienza del 16/10/98 dal Consigliere Dott. Alfonso AMATUCCI;

udito l'Avvocato INZITARI BRUNO;

udito l'Avvocato SILVIO AVELLANO (con delega dell'Avv. GHIA GIORGIO); udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Aurelio GOLIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. - Girolamo Avenoso si oppone all'esecuzione promossa nei suoi confronti dalla Cassa di risparmio di Vercelli (poi Cassa di risparmio di Biella e Vercelli S.p.A. - Biverbanca) in forza di tre contratti di mutuo del 1978 e di un contratto di apertura di credito, assumendo, in relazione ai primi, che gli interessi erano stati conteggiati al tasso convenzionale anziché a quello legale ed assumendo, quanto al secondo, che non era fondata la pretesa della banca di applicare l'anatocismo sugli interessi dovuti in conseguenza della risoluzione. La cassa resistette. Con sentenza 21 luglio 1994, n. 245 (Foro it., 1995, I, 1662) il Tribunale di Vercelli accolse parzialmente l'opposizione ritenendo che gli interessi sul capitale residuo concesso in mutuo andavano conteggiati al tasso legale maggiorata del due per cento ed escludendo l'applicazione dell'anatocismo sugli interessi dovuti in conseguenza della risoluzione del contratto di apertura di credito nell'assunto che il computo degli interessi sugli interessi integrasse un uso negoziale, come tale in contrasto col divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c.

2. - La decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Torino che, decidendo con sentenza n. 819 pubblicata il 14 giugno 1996 (id., Rep. 1997, voce Contratti bancari, n. 38) sul gravame della Biverbanca cui aveva resistito l'Avenoso, ha rigettato l'opposizione sui rilievi che, in base al contenuto delle clausole dei contratti di mutuo, gli interessi andavano comunque calcolati al tasso convenzionale e che gli usi normativi, in quanto tali vincolati.

3. - Avverso detta sentenza ricorre per Cassazione Girolamo Avenoso sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso la Cassa di risparmio di Biella e Vercelli S.p.A. - Biverbanca. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., il ricorrente si duole:

a) che la Corte d'Appello abbia applicato i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg. benché le espressioni usate dalle parti fossero di chiara ed univoca significazione, sicché non v'era bisogno di interpretare alcunché;

b) che dei menzionati criteri interpretativi abbia fatto erronea applicazione in quanto, per il caso di inadempimento, il riferimento delle parti al "tasso vigente" d'interesse non poteva concernere quello convenzionale, ma evidentemente si riferiva a quello legale.

1.1. La censura è infondata sotto il primo profilo ed inammissibile sotto il secondo. L'esigenza di interpretare il contratto, che comunque si pone per il giudice ogni qual volta una parte fondi sullo stesso una pretesa, era nella specie resa evidente dal fatto stesso che si controverteva in giudizio su quale fosse il significato della locuzione "tasso vigente" e, dunque, sull'effettivo contenuto della volontà negoziale.

Mentre l'assunto che il risultato dell'interpretazione del contratto sia stato erroneo si risolve, in difetto di precisazioni sulle ragion i per le quali il giudice avrebbe violato un determinato criterio ermeneutico posto da una specifica norma, nella inammissibile richiesta alla Corte di legittimità di sindacare il merito della decisione adottata.

2. Col secondo motivo di ricorso la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione dell'art. 1364 c.c., dell'art. 1368, secondo comma, c.c. dell'art. 1374 c.c. e dell'art. 2687 c.c. primo comma (ma, recte 2697) laddove ha ritenuto che l'anatocismo trimestrale applicato dalla banca allo scoperto relativo al contratto di apertura di credito costituisse un uso normativo.

Il ricorrente nega che fossero stati provati gli imprescindibili requisiti dell'uso normativo, costituiti dalla costanza della pratica e dalla convinzione della sua cogenza (opinio iuris seu necessitatis) e rileva che nel contratto di apertura di credito era previsto un tasso convenzionale del 22,75% senza alcun cenno all'anatocismo.

2.1. Benché fra le norme la cui violazione è formalmente denunciata non si annoveri l'art. 1283 c.c. - al quale, peraltro, si fa ampio riferimento nella memoria illustrativa e che è l'unica disposizione del codice civile che ha riguardo all'anatocismo - la Corte è tuttavia chiamata a decidere se l'applicazione di interessi anatocistici da parte delle banche sullo scoperto di conto corrente bancario costituisca un uso normativo, al quale pacificamente si riferisce l'art. 1283 c.c. laddove stabilisce ha "in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dl giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi".

La Corte d'Appello s'è limitata ad affermare che "la giurisprudenza della Suprema Corte (si veda sent. n. 4920 del 1987, id., 1988, I, 2352, n. 7571 del 1992, id., Rep. 1992, (voce) Interessi, n.16) è costante nell'affermare che gli usi che regolano l'anatocismo nei contratti bancari sono veri e propri usi normativi, che vincolano coloro che contrattano con gli istituti di credito. Tale affermazione, che conferma peraltro il comune convincimento che normalmente è dato riscontrare nella clientela delle banche, esime da ogni ulteriore argomentazione e nostra la fondatezza anche del secondo motivo di impugnazione".

In realtà, le due menzionate sentenze (cui adde, Cass. n. 6631/81, id., Rep. 1982, voce cit., n. 6; 5409 (83, id., Rep. 1996, voce cit., n.10); si inseriscono in un filone giurisprudenziale secondo il quale nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, l'anatocismo costituisce, per effetto del comportamento della generalità dei consociati e dell'elemento soggettivo della opinio iuris, un uso normativo ai sensi dell'art. 8 disp. att. c.c., la cui applicazione deve considerarsi legittima anche in mancanza dei presupposti di cui all'art. 1283 c.c. Con la menzionata sentenza n. 4920/87, cit., si è in particolare affermato che gli usi normativi, cioè le regole consuetudinarie - al contrario di quanto avviene per gli usi negoziali, i quali esprimono il contenuto effettivo della volontà dei contraenti e possono quindi ritenersi inclusi nel contratto ai sensi dell'art. 1340 c.c. solo quando alla prassi corrente corrisponda il reale intento delle parti - non richiedono di essere ricevuti nelle forme contrattuali e, salvo clausola negoziale contraria, operano direttamente con effetto integrativo delle volontà dei contraenti, secondo la previsione dell'art. 1374 c.c.

2.2. Tale orientamento è stato di recente sottoposto a profonda revisione critica da questa Corte di legittimità che, con sentenza 11-16 marzo 1999, n. 2374, ha affermato che la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente non costituisce un uso normativo, ma un mero uso negoziale, con la conseguente nullità della relativa pattuizione siccome anteriore alla scadenza, in contrasto con la norma imperativa di cui all'art. 1283 c.c.

Si è in particolare escluso - con argomentazioni che vanno qui ribadite e pienamente condivise - che le cosiddette norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi, predisposte dall'ABI (per la prima volta, con effetto dal 1° gennaio 1952), nella parte in cui dispongono che i conti che risultino anche saltuariamente debitori siano regolati ogni trimestre e che, con la stessa cadenza, gli interessi scaduti producano ulteriori interessi, attestino l'esistenza di una vera e propria consuetudine (mai accertata, invece, dalla commissione speciale permanente presso il ministero dell'industria, ai sensi del D.Lgs.C.P.S. 27 gennaio 1947 n. 152, modificato con L. 13 marzo 1950, n. 115). E si è rilevato che, poiché gli accertamenti di conformi usi locali da parte di alcune camere di commercio provinciali (ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39, 40 del R.D. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell'art. 2 del D.Lgs.Lgt. 21 settembre 1944, n. 315) sono tutti successivi al 1952, va per un verso escluso che la relativa clausola delle norme bancarie uniformi svolga una funzione probatoria di usi locali preesistenti, e va, per altro verso, presunto piuttosto che l'accertamento dell'uso locale sia conseguenza del rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI. Prassi cui non può riconoscersi efficacia di fonti di diritto obiettivo "se non altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine".

Dalla comune esperienza emerge, infatti, che l'inserimento di clausole prevedenti la capitalizzazione degli interessi ogni tre mesi a carico del cliente (ed ogni anno a carico della banca) è acconsentito da parte dei clienti non in quanto siano ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti, "ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l'opinio iuris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente".

Con la medesima sentenza si è anche rilevato che, in epoca anteriore all'entrata in vigore del codice civile del 1942, "gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti": e che, "inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori del codice vigente si affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente".

2.3. Va comunque riaffermato che la capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca sui saldi di conto corrente passivi per il cliente non costituisce un uso normativo, ma un uso negoziale, essendo stata tale diversa periodicità della capitalizzazione (più breve rispetto a quella annuale applicata a favore del cliente sui saldi di conto corrente per lui attivi alla fine di ciascun anno solare) adottata per la prima volta in via generale su iniziativa dell'ABI nel 1952 e non essendo connotata la reiterazione del comportamento della opinio iuris ac necessitatis.

Deve conseguentemente escludersi che, nella specie, si sia verificata l'integrazione automatica del contratto, ai sensi dell'art. 1374 c.c., nel senso preteso dalla banca.

3. Rigettato il primo motivo di ricorso ed accolto il secondo, la sentenza va pertanto cassata con rinvio ad una diversa Sezione della Corte d'Appello di Torino, che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di cassazione.

P. Q. M.

La corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della corte d'appello di Torino.

Così deciso in Roma il 16 ottobre 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 30 MARZO 1999.

 

 

* * *

 

CASS. CIV., 16/03/1999, N.2374, SEZ. I

La previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, concernente la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria, è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi.
Tanto più nel caso di contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della disposizione di cui all'articolo 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi, si rivela nulla la previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente a oggetto la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, giacché essa si basa su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Alfredo ROCCHI - Presidente -

" Giammarco CAPPUCCIO - Consigliere -

" Mario Rosario MORELLI - "

" Giuseppe SALMÉ - Rel. "

" Stefano BENINI - "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

AVV. BEHARE SAMI, con studio in Milano, via Buonarroti 9, domiciliato presso la cancelleria della Corte di cassazione, in giudizio di persona,

ricorrente

contro

BANCO DI NAPOLI s.p.a, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via della Scrofa 117, presso l'Avv. Lucio Ghia che la rappresenta e difende per procura speciale a margine del controricorso,

controricorrente

avverso la sentenza della corte d'appello di Milano del 4 aprile 1995.

Sentita la relazione del cons. Giuseppe Salmé alla pubblica udienza del 20 maggio 1998;

sentito l'avv. Ghia, per la controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

sentito il p.m. in persona del sost. proc. gen. Dott. Vincenzo Gambardella che ha concluso chiedendo il rigetto del primo motivo e l'accoglimento del secondo.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 5 luglio 1988 Sami Behare ha proposto opposizione avverso il decreto con il quale il presidente del tribunale di Milano gli ha ingiunto il pagamento di L. 22.143.185 in favore della filiale di Milano del Banco di Napoli, in relazione a uno scoperto di conto corrente di pari importo. L'opponente ha sostenuto che la revoca dell'apertura di credito gli era stata comunicata solo dopo la notifica del decreto ingiuntivo, che non era dovuta la somma richiesta e che, comunque, era illegittima la richiesta di interessi in misura superiore a quella pattuita.

Con sentenza del 16 settembre 1991 il tribunale di Milano ha respinto l'opposizione e tale decisione è stata confermata dalla corte d'appello di Milano.

La corte territoriale, limitatamente a quanto in questa sede ancora rileva, ha rigettato l'eccezione di nullità della sentenza impugnata, fondata sulla pretesa mancanza di sottoscrizione del presidente, rilevando che in calce alla sentenza stessa, oltre alla firma dell'estensore, risultava apposta altra firma illeggibile che, in difetto di altri elementi, doveva essere attribuita al presidente.

Quanto alla dedotta nullità della clausola del contratto di conto corrente relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti, la corte territoriale ha affermato che nei rapporti tra istituti di credito e clienti l'anatocismo è applicato secondo un uso normativo che autorizza la deroga a tutte le condizioni elencate nell'art. art. (*) 1283 c.c..

33Avverso (*) la sentenza della corte d'appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi il Benhare (*) . Resiste con controricorso il Banco di Napoli. Entrambe le parti hanno presentato memorie

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo, deducendo la violazione dell'art. 132 c.p.c., il ricorrente afferma che la sottoscrizione della sentenza, diversa da quella del giudice estensore, non sarebbe illeggibile, come sostenuto nella sentenza impugnata, perché, quanto meno, sarebbero individuabili le prime due lettere "M" e "G", che corrispondono alle iniziali del giudice a latere e sono incompatibili con il nome del presidente, di cui non è stato attestato l'adempimento.

Il motivo non è fondato.

La sentenza impugnata ha accertato che in calce alla sentenza di primo grado risultano apposte due firme: una del giudice estensore e un'altra illeggibile. La firma illeggibile, ha aggiunto la corte territoriale, in difetto di altri elementi, deve attribuirsi al presidente del collegio giudicante.

Il ricorrente contesta che la seconda sottoscrizione sia illeggibile, affermando che sono individuabili nel tratto grafico due lettere, ma l'affermazione non può condividersi, perché la sigla non consente, di per sé, l'individuazione del sottoscrittore. Ora, premesso che l'accertata illeggibilità della sottoscrizione non comporta difetto di sottoscrizione, quando la stessa non impedisca, sia pure sulla base di ulteriori elementi risultanti dalla sentenza, l'individuazione del giudice che l'ha pronunciata (Cass., n. 943/95, 9446/1993, 5635/1990), deve ritenersi che nella specie l'attribuzione della sigla al presidente del collegio, alla quale è pervenuta la sentenza impugnata, sulla base di una presunzione, non può essere vinta dai rilievi formulati in questa sede del ricorrente, perché la valutazione di tali rilievi implicherebbe un accertamento di fatto estraneo nell'ambito di questo giudizio di legittimità

2. 1. Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo l'erronea interpretazione dell'art. 1283 c.c., lamenta che sia stata ritenuta legittima l'applicazione dell'anatocismo, nella forma della capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati a suo carico. Secondo il ricorrente, anche in presenza di usi contrari, gli interessi anatocistici non sarebbero "in ogni caso" dovuti per un periodo superiore ai sei mesi, perché l'art. 1283 c.c. è norma imperativa e non dispositiva. Comunque, la prassi bancaria della capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici non sarebbe basata su un uso normativo, ma su un semplice uso negoziale, mancando nel cliente la convinzione di adempiere a un obbligo giuridico ed essendo invece diffusa la convinzione che si tratti di clausola vessatoria imposta dal cartello bancario.

2. 2. Il motivo è fondato.

Ha carattere logicamente preliminare il secondo profilo, in quanto se dovesse condividersi la tesi secondo cui l'uso bancario della capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente ha natura negoziale e non normativa, rimarrebbe assorbita la questione relativa ai limiti temporali di operatività dell'anatocismo.

L'art. 1283 c.c., in conformità con una tradizione legislativa risalente alla codificazione napoleonica, supera l'antico divieto, di origine cristiano - giustinianea, e ammette l'anatocismo a determinate condizioni.

La disposizione, che pacificamente è ritenuta di carattere imperativo e di natura eccezionale, contiene due norme: con la prima si limita la possibilità che interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi alla sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre, con la seconda la produzione di ulteriori interessi è subordinata alla proposizione di una domanda giudiziale (che ne determina anche la decorrenza) ovvero al perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi.

Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e, dall'altra, nell'intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell'inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l'apposita convenzione, l'esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l'apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l'accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per potere accedere al credito.

Finalità, va anche detto, che lungi dall'apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurari (*), sono di grandissima attualità, perché la lotta all'usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all'approvazione della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l'applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell'art. 1815 c.c.) anche con l'introduzione di un meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi, consistente nel mero superamento obiettivo di un tasso - soglia determinato dal Ministro del tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso - soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. È stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni.

2. 3. Non ostante (*) l'evidente rilievo economico e sociale delle finalità perseguite dalla disciplina limitativa dell'anatocismo, la disposizione ammette tuttavia la possibilità di deroga da parte di usi contrari.

Ora, con un orientamento giurisprudenziale che ha avuto inizio con la sentenza n. 6631 del 1981 (secondo la quale "nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l'anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono - nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi - come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull'originario importo della somma versata, ma sugli interessi da questo prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall'art. 1283 c.c."), questa Corte ha ripetutamente affermato l'esistenza di uso normativo che consente di derogare, nei rapporti tra banche e clienti, secondo la stessa volontà del legislatore, ai limiti posti all'applicazione dell'anatocismo (v. in senso conforme cass. n. 5409/83, 4920/87, 3804/88, 2644/89, 7571/92, 9227/95, 3296/97, che si limitano a richiamare i precedenti, senza aggiungere proprie argomentazioni).

Ritiene tuttavia la Corte che il tradizionale orientamento debba essere rivisto, anche alla luce delle obiezioni sollevate da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, in quanto l'esistenza di un uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell'anatocismo previsti dalla legge appare più oggetto di una affermazione, basata su un incontrollabile dato di comune esperienza, che di una convincente dimostrazione.

2. 4 Un primo rilievo, non estraneo, peraltro, allo stesso orientamento che viene ora sottoposto a revisione critica, deve essere fatto. Gli "usi contrari", ai quali il legislatore fa riferimento , sono i veri e propri usi normativi, di cui gli articoli 1, 4 e 8 delle disp. prel. al c.c che, secondo la consolidata nozione, consistono nella ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratti di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, e cioé conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento (opinio juris ac necessitatis).  

Agli usi normativi, che costituiscono fonte di diritto obbiettivo, come è noto, si contrappongono gli usi negoziali, disciplinati dall'art. 1340 c.c., consistenti nella semplice reiterazione di comportamenti ad opera delle parti di un rapporto contrattuale, indipendentemente non solo dall'elemento psicologico, ma anche dalla ricorrenza del requisito della generalità. L'efficacia di detti usi é limitata alla creazione di un precetto del regolamento contrattuale, che si inserisce nel contratto salvo diversa volontà delle parti. Ancora diversi, infine, sono gli usi interpretativi (art. 1368 c.c.), consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo in cui è concluso il contratto o ha sede l'impresa, che non hanno funzione di integrazione del regolamento contrattuale, ma costituiscono soltanto uno strumento di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti.

Consegue da quanto osservato che, in materia, non hanno, quindi, alcun rilievo, in quanto tali (indipendente cioé dalla loro eventuale efficacia probatoria di un preesistente uso normativo conforme, di cui si tratterà oltre), le cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall'associazione di categoria (Associazione bancaria italiana - A.B.I.), che non hanno natura normativa, ma solo pattizia, nel senso che si tratta di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall'associazione alle banche associate (la cui validità, peraltro, in relazione alla disciplina comunitaria e interna della concorrenza, è stata di recente, per alcuni aspetti non secondari, messa in discussione dalle autorità amministrative di vigilanza) . Come tali, quindi, le c.d. norme bancarie uniformi assumono rilevanza nel singolo rapporto contrattuale con il cliente in quanto siano richiamate nel contratto stesso, secondo la disciplina dettata dagli articoli 1341 e 1342 c.c..

2. 5. L'indagine alla quale la Corte è chiamata non può, inoltre, essere limitata a rilevare se nei rapporti tra banca e cliente esista un generico uso favorevole all'applicazione dell'anatocismo, essendo evidente che la specifica e puntuale disciplina limitativa legale può essere sostituita, per volontà del legislatore, solo da una normativa consuetudinaria altrettanto specifica e puntuale e non da una generica prassi derogatoria, che, proprio a causa della sua genericità, non potrebbe mai costituire fonte di diritto obbiettivo.

D'altra parte, se l'unico contenuto di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l'anatocismo nei rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva della norma di legge, che, si ripete, non contiene un divieto assoluto, ma, all'opposto, afferma l'ammissibilità dell'anatocismo, sia pure nei limiti della stessa norma indicati.

Lo specifico oggetto di indagine è, pertanto, come esattamente propone il ricorrente, l'esistenza o non di una consuetudine in base al quale nei rapporti tra banca e cliente, gli interessi a carico del cliente possano essere capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori interessi) ogni trimestre.

Ora, dall'orientamento giurisprudenziale richiamato, non emerge che questa Corte abbia in precedenza affermato l'esistenza di una norma consuetudinaria di questa precisa portata, essendosi limitata ad affermare, sulla base di un dato di comune esperienza, che l'anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti.

Anzi, la dottrina formatasi nel vigore della disciplina anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti. Inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori dell'art. 1283 del codice vigente, si affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente.

Non v'é alcun elemento, quindi, che autorizzi a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzava la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito.

2. 6. È, comunque, decisivo un ulteriore rilievo, puntualmente messo in evidenza da una parte della dottrina. La capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista in realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposti dall'ABI con effetto dal 1° gennaio 1952. La clausola sei, dopo avere affermato che in via normale i rapporti di dare e avere sono regolati annualmente, portando in conto (e cioé capitalizzando) gli interessi al 31 dicembre di ogni anno, disponeva che i conti che risultino anche saltuariamente debitori dovevano essere regolati invece, in via normale. ogni trimestre e con la stessa cadenza gli interessi scaduti producevano ulteriori interessi, al tasso da determinarsi tenendo conto delle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito operanti sulla piazza.

Non è stata mai accertata, invece, dalla Commissione speciale permanente presso il Ministero dell'industria, ai sensi del d. Lg.vo del C.p.S., 27 gennaio 1947, n. 152 (modificato con la legge 13 marzo 1950, n. 115) l'esistenza di uso normativo generale contenuto corrispondente alla clausola di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata.

Per quanto riguarda, inoltre, l'accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di commercio provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39-40 del r.d. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell'art. 2, del d. Lg.vo luogoten. 21 settembre 1944, n. 315, deve rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata clausola delle c.d. norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivante dall'inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all'art. 9 delle disp. prel. al c.c. riguarda l'esistenza dell'uso e non anche la natura, normativa o negoziale. Anzi, in concreto, il rapporto temporale che è intercorso tra la predisposizione delle c.d. norme bancarie uniformi in tema di conti correnti di corrispondenza e le deliberazioni camerali con le quali sono stati accertati usi locali di contenuto corrispondente, può autorizzare la presunzione che l'accertamento dell'uso locale, sia conseguenza del rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI, prassi alle quali mai potrebbe riconoscersi efficacia di fonti di diritto obbiettivo, se non altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine, potendo al massimo ritenersi che si possa trarre di clausole d'uso ai sensi dell'art. 1340 c.c.. A conferma della fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella raccolta degli usi bancari curata dalla Camera di commercio di Firenze, edizione 1960, l'uso relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente è espressamente definito come uso negoziale.

Giova, peraltro, sottolineare che, comunque, nella specie la banca controricorrente non ha invocato un uso normativo locale, ma un uso nazionale, che, in conformità con una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, sulla base dei puntuali rilievi, storici e giuridici, ora sinteticamente indicati, deve ritenersi inesistente.

2. 7. Infine, non appare irrilevante anche quanto può desumersi dalla concreta esperienza giurisprudenziale e dalla dottrina più volte richiamata, circa l'elemento psicologico che si accompagna al generalizzato inserimento nei concreti regolamenti contrattuali di clausole (la cui validità, alla stregua dell'art. 1283 c.c. e in mancanza di un uso contrario, non potrebbe certo essere data per scontata) conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI, che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente, mentre gli interessi a carico della banca sono capitalizzati annualmente. Dalla comune esperienza, infatti, emerge che l'inserimento di tali clausole è acconsentito da parte dei clienti non in quanto ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.

Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico di cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente.  

Su questo aspetto soggettivo, peraltro, l'orientamento di questa Corte non aveva fatto alcuna specifica considerazione, essendosi limitata ad osservare che sia le banche che i clienti chiedono e riconoscono come "legittima" la pretesa degli interessi anatocistici.

Ma tale osservazione non è rilevante, perché la legittimità della pretesa della corresponsione degli interessi anatocistici deriva direttamente dalla circostanza che il legislatore del '42 non ha ripetuto l'antico divieto ma, al contrario, ha ritenuto ammissibile l'anatocismo, sia pure nei limiti segnati dall'art. 1283 c.c.. Il punto da decidere era, invece, di vedere se tali limiti erano superabili, per l'esistenza di una norma di diritto obbiettivo consuetudinario di contenuto diverso, mentre su tale aspetto il citato orientamento non esprime alcuna valutazione.

3) Sulla base dei rilievi formulati si deve, quindi, ritenere che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi.

Un ulteriore ragione di invalidità della clausola, quanto meno per i contratti bancari stipulati dopo l'entrata in vigore della legge, deriva inoltre dall'art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (trasfusa poi nel t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d. Lg. 1° settembre 1993, n. 385), che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi.

In accoglimento del secondo motivo la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano, che provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P. Q. M.

la Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della corte d'appello di Milano, anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma il 20 maggio 1998, nella camera di consiglio della prima sezione civile.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 MAR. 1999

(*) ndr: così nel testo.

 

 

CASS. CIV., SEZ. I, 11/11/1999, N.12507

La clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al c.c.), come esige l'art. 1283 c.c., laddove prevede che l'anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, "in mancanza di usi contrari". L'inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poichè a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi.

. I


Prova in genere (materia civile) Ordine - Potere discrezionale del giudice - Insindacabilità in cassazione
Obbligazioni e contratti Nullità - Rilevabilità d'ufficio - Limiti
Contratti bancari Capitalizzazione trimestrale degli interessi - Clausola - Nullità
Consuetudini ed usi Requisito oggettivo - Uniforme e costante ripetizione di un comportamento - Requisito soggettivo - Consapevolezza di prestare osservanza a norma giuridica - Fattispecie in tema di norme bancarie uniformi

L'ordine di esibizione di un documento ex art. 210 c.p.c. è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito ed il suo mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità quando sia sufficientemente motivato, come allorquando il giudice di merito, in riferimento alla previsione normativa dell'art. 94 disp. di att. c.p.c., secondo cui l'istanza di esibizione dev'essere accompagnata, quando è necessario, dall'offerta della prova che la parte od il terzo, nei cui confronti si richiede l'ordine di esibizione possiedano il documento, rigetta l'istanza, rilevando che essa non è stata formulata con l'offerta di quella prova, ravvisandola come necessaria in ragione della contestazione della controparte circa l'esistenza del documento.

La clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al c.c.), come esige l'art. 1283 c.c., laddove prevede che l'anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, "in mancanza di usi contrari". L'inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poichè a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi.

La configurabilità di un uso normativo richiede due requisiti, l'uno - di natura oggettiva - consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento, l'altro - di natura soggettiva o psicologica - consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, di modo che venga a configurarsi una norma - sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai regolamenti - avente i caratteri della generalità e della astrattezza. L'esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi. (Nell'affermare tale principio la S.C. ha escluso la natura di uso normativo delle norme bancarie uniformi emanate dall'A.B.I., qualificandole come usi negoziali ex art. 1340 c.c., perchè imposte al cliente in base ad una prassi, sia pure ineludibile in quanto richiesta dall'istituto bancario mediante clausole uniformi e predisposte).