SENTENZE SULL’ANATOCISMO BANCARIO
CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE 1 CIVILE
SENTENZA DEL 14 MAGGIO 2005, N. 10127
Fallimento di spa - contratti
bancari di apertura di credito - saldo debitore - applicazione dell'anatocismo
- nullita' dei contratti - restituzione importi risultanti dalla
capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori - clausole uso piazza -
validita' - limiti
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dai Sigg. Magistrati:
Dott. Giammarco Cappuccio -
Presidente
Dott. Giuseppe Marziale -
Consigliere
Dott. Giuseppe Vito Magno -
Consigliere
Dott. Carlo Piccininni -
Consigliere Relatore
Dott. Sergio Del Core -
Consigliere
ha pronunziato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Banca del Sa. S.p.A. in persona
del Presidente, elettivamente domiciliato in Ro., Via Co. 91, presso l'Avvocato
Sa. Fo., che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale autenticata
per atto del Notaio Ro. Ma. in data 20.12.2001, rep. n. 7415;
ricorrente
contro
Fallimento Gr. Co. S.r.l. in
persona del curatore, elettivamente domiciliato in Ro., Via Un. 5, presso
l'Avvocato Al. Di Sa., rappresentato dall'Avvocato An. Ta. per delega a margine
del controricorso;
controricorrente e ricorrente
incidentale
Lu. Ch. e En. Ca.,
elettivamente domiciliati in Ro., Via Un. 5, presso l'Avvocato Al. Di Sa.
rappresentati dall'Avv. Br. In., che li rappresenta per procura speciale
rilasciata con atto Notaio Ro. Ma. di Le., n. 258973, in data
11.3.2002;
controricorrenti e ricorrenti
incidentali;
avverso la sentenza n. 598/2001
emessa dalla Corte di Appello di Lecce in data 22.10.2001;
udita la relazione svolta nella
pubblica udienza dal Consigliere Relatore Dott. Carlo Piccininni;
sentito l'Avvocato Sa. Fo. per
il ricorrente, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale, il
rigetto di quello incidentale del fallimento, l'inammissibilità di quello
incidentale di Lu. Ch. e En. Ca.;
sentito l'Avvocato An. Ta. per
il fallimento, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e
l'accoglimento di quello incidentale;
sentito l'Avvocato Br. In. per
Lu. Ch. e En. Ca., che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e
l'accoglimento di quello incidentale;
sentito il Procuratore Generale
in persona del Dott. Umberto Apice, che ha concluso per il rigetto del ricorso
principale e di quello incidentale del fallimento, per l'inammissibilità del
ricorso incidentale di Lu. Ch. e En. Ca. e per l'assorbimento del ricorso
incidentale condizionato del ricorrente principale.
Con atto di citazione del
25.3.1996 la Gr. Co. S.r.l.,
titolare di conto corrente presso la Banca del Sa. S.p.A., Lu. Ch. ed En. Ca.
quali fideiussori, avendo rilevato che dall'ultimo estratto conto bancario
risultava un saldo debitore di £ 457.369.987, convenivano in giudizio davanti
al Tribunale di Lecce la detta banca, per sentir dichiarare la nullità dei
diversi contratti di apertura di credito e delle obbligazioni accessorie, e
sentir quindi condannare la banca, previo ricalcolo delle somme a credito e a
debito di entrambe le parti, al pagamento della somma di £ 335.950.583.
La Banca del Sa. S.p.A.,
costituitasi, rivendicava la legittimità del proprio comportamento, osservando
in particolare che il tasso di interesse era stato determinato per relationem
con criteri oggettivi, che l'anatocismo era stato correttamente applicato,
trattandosi di uso normativo, che il computo degli interessi sugli assegni con
decorrenza dal giorno della loro emissione risultava in sintonia con l'art. 7
del contratto, e proponeva inoltre domanda riconvenzionale per ottenere il
pagamento di £ 457.369.987, oltre accessori, somma corrispondente a quella
riconosciuta in sede di ammissione alla procedura di amministrazione
controllata da parte della società debitrice.
Il Tribunale di Lecce emetteva
dapprima sentenza non definitiva, con la quale dichiarava che gli interessi
dovuti in relazione a contratto di conto corrente erano quelli legali; che gli
interessi composti dovuti, capitalizzati secondo contratto, erano quelli legali
e avevano decorrenza fino al 29.9.1993, data di chiusura del conto;
che nulla era dovuto per
commissione di massimo scoperto;
che il calcolo della decorrenza
degli interessi sugli assegni risultava corretto.
Disposta la prosecuzione del
giudizio per le relative quantificazioni, emetteva poi sentenza definitiva, con
la quale venivano rigettate, perché non provate, le domande rispettivamente
proposte dalle parti.
Entrambe le sentenze venivano
impugnate, in via principale dalla Banca del Sa. S.p.A., ed in via incidentale
sia dalla società, nel frattempo dichiarata fallita, che dai fideiussori.
La Corte di Appello di Lecce,
pronunciando sulle due cause riunite, condannava la banca al pagamento in
favore del fallimento della somma di £ 376.375.436, oltre interessi legali
dalla domanda, dichiarava inoltre che nulla era dovuto dai fideiussori,
rigettava infine la domanda riconvenzionale della Banca.
In particolare la Corte
disattendeva innanzitutto l'eccezione di improcedibilità della domanda,
proposta in ragione dell'intervenuta ammissione al passivo del fallimento del
credito vantato dalla banca, e ciò in ragione del fatto che il credito in
questione sarebbe risultato da sentenza non definitiva e quindi, una volta esercitata
da parte degli organi fallimentari l'opzione per l'impugnazione ai sensi
dell'art. 95, comma 3, L.F.,
il processo avrebbe dovuto necessariamente proseguire davanti al giudice
naturale dell'impugnazione, privando in tal modo il giudice delegato del potere
di decidere al riguardo, tanto che il provvedimento di ammissione da lui emesso
sarebbe "nella parte in cui contempla il credito della Banca del Sa.
S.p.A. tamquam non esset, in quanto emesso in assoluta carenza di potere".
Rilevava inoltre, nel merito,
l'infondatezza della censura concernente il tasso di interesse applicabile
nella specie, osservando innanzitutto come fosse insussistente il denunciato
vizio di ultrapetizione, atteso che gli attori avrebbero indicato la ragione
della nullità della clausola relativa agli interessi fin dall'atto di
citazione; fosse priva di pregio l'intervenuta approvazione degli estratti
conto, essendo nella specie in contestazione la validità ed efficacia dei
rapporti obbligatori dai quali erano conseguentemente derivate le annotazioni;
non fosse ravvisabile
l'eccepita prescrizione, la cui decorrenza sarebbe da far risalire alla
chiusura del rapporto, avvenuta il 29.9.1993, mentre l'azione era stata
esercitata il 5.3.1996;
fosse viziata per genericità la
clausola determinativa degli interessi con riferimento al c. d. uso piazza, né
avessero rilevanza in senso contrario le ulteriori considerazioni svolte dalla
banca circa la sua posizione di arbitratore, la ricorrenza di usi, la mancata
contestazione del credito della banca prima del giudizio, il riconoscimento nei
bilanci di esercizio e nel ricorso per l'ammissione alla procedura di
amministrazione controllata, il richiamo all'art. 1825 c. c., rispettivamente
in quanto: la banca avrebbe rivestito la qualità di parte e non di terzo,
sarebbe indimostrata l'esistenza degli usi invocati al riguardo, la mancata
contestazione non precluderebbe il successivo esercizio del diritto, il
riconoscimento del debito, funzionale all'ammissione alla procedura, non
avrebbe efficacia novativa dell'obbligazione e non potrebbe perciò dar luogo
alla caducazione del diritto di sollevare eventuali eccezioni in proposito,
l'art. 1825 sarebbe applicabile per il conto corrente ordinario e non anche per
quello bancario.
Ugualmente infondate sarebbero
poi: la censura dell'appellante principale relativamente al capo concernente la
capitalizzazione trimestrale, esclusa per il periodo successivo alla chiusura
del conto (mentre fondata sarebbe invece quella degli appellanti incidentali in
relazione all'affermata legittimità della detta capitalizzazione durante il
periodo di vitalità del rapporto), dovendosi ritenere esistente sul punto, a
dire della Corte di merito, un uso negoziale e non normativo, inidoneo in
quanto tale ad escludere l'applicazione del divieto dettato dall'art. 1283 c.
c. ;
quella - sempre dell'appellante
principale - attinente al mancato riconoscimento della Commissione di massimo
scoperto, che correttamente sarebbe stata negata "in quanto non prevista
in contratto";
quella - dedotta dagli
appellanti incidentali - avente ad oggetto il rigetto della domanda di nullità
della clausola sull'addebito delle valute, essendovi in proposito previsione
contrattuale, certamente valida pur in assenza di uso normativo, non
contrastata da alcuna disposizione di legge.
Avverso la detta decisione
proponeva ricorso per cassazione la Banca del Sa. S.p.A., che con sei motivi,
articolati in più profili, denunciava violazione di legge e vizio di
motivazione, rilevando in particolare: l'impugnazione sarebbe improcedibile
perché l'accertamento del credito vantato da esso istituto di credito sarebbe
demandato al giudice delegato del fallimento e vi sarebbe un nesso inscindibile
fra domanda principale e riconvenzionale, come più volte affermato da questa Corte
di legittimità in sede di interpretazione del combinato disposto degli artt. 43
e 52 L.F.
Inoltre non vi sarebbe carenza
di potere da parte del giudice delegato nel disporre l'ammissione del credito
al passivo del fallimento, ma sarebbe al contrario in proposito ravvisabile,
come conseguenza, una preclusione da giudicato, e l'ammissione del credito
avrebbe dovuto per di più essere interpretata come rinuncia all'impugnazione.
Infine la sentenza definitiva sarebbe intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento,
circostanza questa che escluderebbe l'applicabilità sotto tale profilo
dell'art. 95, comma 3, L.F.;
sarebbe errata la pronuncia
relativa alla clausola "uso piazza" sotto diversi aspetti, e cioè
perché sarebbe riscontrabile vizio di ultrapetizione posto che la citazione
sarebbe priva di riferimenti alla violazione dell'art. 1284 c. c., troverebbe
applicazione la disciplina dell'art. 1349, per la quale la banca avrebbe potuto
legittimamente integrare l'elemento indeterminato con giudizio eventualmente
modificabile a seguito di contestazione giudiziale, irragionevolmente sarebbe
stata esclusa l'applicabilità al caso di specie dell'art. 1825 c. c. dettato in
tema di conto corrente ordinario, considerata l'analogia esistente fra le due
distinte figure contrattuali (conto corrente ordinario e bancario);
ugualmente censurabile sarebbe
l'intervenuta declaratoria di nullità della clausola contrattuale che
disciplina la capitalizzazione degli interessi dovuti, e ciò sotto il triplice
riflesso che l' art. 1283 c. c. non sarebbe applicabile "al fenomeno
dell'annotazione in conto corrente degli interessi scaduti", la
disposizione non avrebbe natura imperativa, e gli usi avrebbero carattere
normativo;
a torto la Corte di merito
avrebbe ritenuto non prevista dal contratto la commissione di massimo scoperto
per due concorrenti ragioni, vale a dire per il fatto che nell'accordo si
sarebbe fatto riferimento all'obbligo per il correntista di far fronte alle
commissioni, e per effetto delle clausole d'uso, evocabili ai sensi dell'art.
1340 c. c., che per l'appunto deporrebbero in tal senso;
contrariamente a quanto
ritenuto in sentenza, l'eccezione di prescrizione sarebbe fondata, perché il
termine iniziale di decorrenza sarebbe quello della data di ciascun pagamento
indebito e non quello della chiusura del rapporto contrattuale; la Corte di
merito avrebbe infine errato nel rigettare la domanda riconvenzionale di esso
istituto di credito e nel compensare le spese processuali.
Resistevano con controricorso
sia il Fallimento Gr. Co. S.r.l. che Lu. Ch. e En. Ca., i quali proponevano
anche ricorso incidentale, con cui il primo denunciava violazione di legge e
vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione attinente al computo
della valuta (che per effetto del parametro adottato si tradurrebbe "in
ultima analisi in un addebito di interessi passivi ultralegali"), alla
decorrenza degli interessi legali, il cui termine iniziale avrebbe dovuto
essere individuato dalla data di maturazione del credito anziché dal momento di
proposizione della domanda, come era stato stabilito, alla disposta
compensazione delle spese di giudizio; i secondi, analogamente, lamentavano
l'erroneità della decisione in relazione ai primi due punti sopra considerati,
attinenti rispettivamente al computo della valuta ed alla decorrenza degli
interessi legali, che avrebbe dovuto essere diversamente calcolata in ragione
dell'asserita mala fede della banca.
Resisteva con controricorso al
ricorso incidentale dei resistenti la Banca del Sa. S.p.A., che rilevava
l'inammissibilità di quello dei fideiussori, in quanto vittoriosi nel giudizio
di merito con riguardo al capo concernente il computo delle valute ed estranei
alla statuizione attinente agli interessi; l'inammissibilità di quello del
fallimento per la decorrenza degli interessi legali sulla somma oggetto di
ripetizione, trattandosi di domanda nuova; l'infondatezza nel merito delle
questioni prospettate.
La banca proponeva inoltre con
lo stesso atto ricorso incidentale condizionato, denunciando violazione di
legge e vizio di motivazione per l'omessa considerazione degli effetti
riconducibili alla mancata impugnazione dell'estratto conto, a suo dire
preclusivi della possibilità di contestazione delle operazioni materiali di
accredito e di addebito.
Lu. Ch. e En. Ca., infine,
depositavano memoria.
La controversia veniva quindi
decisa all'esito dell'udienza pubblica del 20.01.2005.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Disposta preliminarmente la
riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 335 c. p.c. e prendendo dapprima in
esame quello principale, si osserva che con il primo motivo la Banca del Sa.
S.p.A. ha denunciato violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione
all'affermata infondatezza dell'istanza formulata all'udienza del 19.05.1999,
con la quale era stata sollecitata la declaratoria di improcedibilità della
domanda proposta dal fallimento nei suoi confronti, in ragione del fatto che
dall'avvenuta e definitiva ammissione allo stato passivo (questo, infatti, era
stato dichiarato esecutivo il 10.05.1999) del medesimo credito vantato dalla
Banca nel presente giudizio sarebbe derivata la dedotta improcedibilità per
effetto dell'art. 52 L.F.,
secondo il quale ogni credito azionato nell'ambito fallimentare deve essere
accertato ai sensi degli artt. 92 e segg. L.F., e cioè in sede di verificazione
dello stato passivo.
In particolare il citato art.
52 avrebbe stabilito una competenza funzionale del giudice delegato a conoscere
le ragioni di credito verso il fallito, competenza che sarebbe stata tuttavia
derogabile nel caso di decisione non passata in giudicato (e ciò sia
nell'ipotesi di accoglimento che in quella di rigetto della domanda), in cui il
giudice delegato avrebbe il potere di avvalersi o meno della sentenza non
definitiva che accerta o rigetta il credito, decidendo conseguentemente, in via
alternativa, di impugnare o di ammettere il credito oggetto di contestazione.
Il fatto dunque che il giudice
delegato aveva ammesso al passivo del fallimento il credito fatto valere dalla
banca con la domanda riconvenzionale avrebbe reso priva di efficacia - e quindi
inutile l'eventuale decisione della Corte territoriale sull'esistenza o meno
del detto credito, mentre la necessità di una valutazione congiunta da parte
del tribunale fallimentare delle due posizioni creditorie fra loro antagoniste
(banca/fallimento -fallimento/banca) sarebbe discesa dalla identità del titolo
delle due domande (principale e riconvenzionale) e dal conforme consolidato
orientamento giurisprudenziale sul punto.
La Corte di Appello aveva però
disatteso la prospettazione dell'appellante principale Banca del Sa. S.p.A. nel
presupposto che l'art. 95, comma 3, dovesse essere interpretato nel senso che,
pur restando ferma la possibilità per il giudice delegato di impugnare la
sentenza ovvero di ammettere il credito, tale opzione dovesse ritenersi
preclusa una volta privilegiata, come nella specie, la via dell'impugnazione.
In detta ipotesi infatti, secondo la Corte, il processo avrebbe dovuto
proseguire davanti al giudice naturale, sicché il provvedimento di ammissione
sarebbe stato adottato dal giudice delegato in assoluta carenza di potere, e
sotto questo aspetto sarebbe stato da considerare “tamquam non esset”.
La decisione sul punto veniva
quindi censurata dalla Banca del Sa. S.p.A. sotto diversi profili,
rispettivamente individuati come segue: le due domande " trovano
legittimazione in un unico titolo”, quella nei confronti del fallimento deve
essere delibata dal giudice delegato, "l'intera controversia deve essere
conosciuta - nella sede e secondo il rito fallimentare”, in sintonia con
l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, atteso che non è consentito
operare una scissione fra le due opposte pretese, ed il principio deve trovare
applicazione in ogni grado di giudizio;il provvedimento di ammissione non
sarebbe stato quindi emesso “in assoluta carenza di potere” ma, al contrario,
la sua adozione avrebbe prodotto gli effetti processuali e sostanziali degli
artt. 324 c. p.c. e 2909 c. c., trattandosi di decisione definitiva;
l'avvenuta ammissione del
credito avrebbe dovuto essere interpretata come implicita rinuncia all'azione;
non sarebbe applicabile la disciplina dettata dall'art. 95, comma 3, L.F., poiché nella specie
si sarebbe trattato di sentenza di accertamento e non di condanna.Pur essendo
condivisibili alcuni dei rilievi svolti dal ricorrente, soprattutto con
riferimento all'affermata esclusività ed inderogabilità del foro fallimentare
per quanto riguarda il riconoscimento dei crediti vantati nei confronti del
fallito, nonché in relazione all'improprietà del richiamo alla disciplina
dell'art. 93, comma 2, L.F.,
la decisione adottata sul punto dalla Corte di Appello deve essere modificata
solo parzialmente, vale a dire limitatamente alla statuizione concernente la
pretesa creditoria della banca verso il fallimento.
Ed infatti in proposito va
innanzitutto premesso che l'art. 95, comma 3, L.F., che stabilisce la necessità
dell'impugnazione della sentenza non passata in giudicato da cui risulti
l'esistenza di un credito contro il fallimento, nel caso in cui il giudice
delegato non ritenga di procedere alla sua ammissione, non appare correttamente
evocato poiché nella specie la dichiarazione di fallimento era intervenuta il
10.06.1997, e quindi in epoca antecedente alla prima sentenza non definitiva
emessa il 25.09.1997 con la quale non era stata pronunciata alcuna condanna, ma
erano stati più semplicemente fissati gli indispensabili parametri, da adottare
successivamente per la conseguente quantificazione rimessa al prosieguo.
La data di pubblicazione della
sentenza in esame, la formulazione letterale dell'art. 95, comma 3, che fa
riferimento a credito risultante da sentenza passata in giudicato e la stessa
“ratio” della disposizione, evidentemente dettata, oltre che da esigenze di
economia processuale, dalla necessità di evitare effetti preclusivi derivanti
dal passaggio in giudicato della sentenza, inducono dunque a ritenere che il
citato art. 95 non sia stato correttamente richiamato, dal che discende anche
l'inconsistenza della statuizione concernente l'asserita incompetenza del
giudice delegato in ordine all'ammissione del credito una volta interposto
appello.
Fatta dunque questa premessa,
si osserva che nella specie il giudizio era iniziato a seguito di domanda
proposta da società (e dai fideiussori), successivamente dichiarata fallita,
per ottenere il pagamento di un preteso credito, alla quale aveva quindi fatto
seguito domanda riconvenzionale del convenuto nei confronti degli attori, fra i
quali la Gr. Co. S.r.l.
all'epoca“in bonis“, per far valere a sua volta un credito basato sullo stesso
titolo.
Ne consegue pertanto, sulla
base del chiaro disposto dell'art. 52
L.F., che per quanto riguarda la domanda della banca nei
confronti della società fallita opera il rito speciale ed esclusivo dell'accertamento
del passivo ai sensi degli artt. 93 e ss. L.F., circostanza da cui discende che
la stessa (e non anche quindi quella rivolta contro i fideiussori) va
dichiarata improcedibile nel giudizio di cognizione ordinaria.
Profili di maggiore opinabilità
si presentano invece con riferimento alla domanda contro i fideiussori ed a
quella originariamente proposta dalla società “in bonis”, rispetto alle quali
il ricorrente ha invocato una "vis attractiva" del foro fallimentare,
in sintonia con un orientamento giurisprudenziale di questa Corte, per il quale
le opposte pretese derivanti dal medesimo rapporto contrattuale dovrebbero
essere inscindibilmente devolute alla cognizione di un unico giudice e quindi,
per effetto della specialità del rito, trasferite nella sede concorsuale del
procedimento di accertamento e di verificazione dello stato passivo.
Il rilievo è privo di pregio in
quanto il “simultaneus processus” non può né dare luogo ad una deroga al rito
fallimentare né sottrarre la domanda al giudice per essa naturalmente
competente per devolverla al giudice fallimentare, così determinando un
travisamento della struttura logica del sistema concorsuale (Cass. S.U.
2004/21500, Cass. S.U. 2004/21499, Cass. 2003/6475, Cass. 2003/148).
Ciò pertanto comporta che la
declaratoria di improcedibilità va limitata alla sola domanda riconvenzionale
della banca nei confronti del fallimento, e non anche a quella contro i
fideiussori ed a quella proposta in via principale dallo stesso fallimento
contro l'istituto di credito.
Né a diverse conclusioni
possono indurre i due ulteriori profili di censura dedotti dal ricorrente
principale, secondo i quali il giudice delegato avrebbe implicitamente
rinunciato all'appello con l'ammissione del credito allo stato passivo e
comunque sarebbe precluso ogni ulteriore esame sulla domanda del fallimento,
per effetto del definitivo accertamento in sede fallimentare di un credito
della banca derivante dallo stesso titolo azionato nel giudizio ordinario.
Quanto al primo punto,
l'asserita rinuncia è stata apoditticamente prospettata, non risulta
precedentemente rappresentata, presuppone la formulazione di un giudizio di
merito incompatibile con il presente giudizio, contrasta con la partecipazione
attiva del fallimento al giudizio di secondo grado. Sul secondo va rilevato che
il provvedimento di ammissione del credito della banca ha efficacia
endofallimentare in termini di partecipazione dei creditori al concorso e
pertanto, indipendentemente dalla assoluta estraneità di alcune delle parti
(vale a dire i fideiussori) alla relativa delibazione, lo stesso, a cognizione
sommaria e avente ad oggetto l'esistenza del diritto concorsuale al riparto, è
del tutto indifferente e privo di efficacia diretta nel giudizio in corso nel
quale si controverte, nella pienezza del contraddittorio, sulla esistenza o
meno del diritto azionato (in tal senso la consolidata giurisprudenza di questa
Corte).
La limitazione della pronuncia
di improcedibilità alla domanda della banca contro il fallimento comporta
dunque che sono suscettibili di delibazione in questa sede le ulteriori domande
proposte nel giudizio, quella cioè del fallimento e dei fideiussori contro
l'istituto di credito e quella di quest'ultimo contro i fideiussori,
circostanza da cui discende quindi che devono essere comunque esaminati gli
altri motivi del ricorso principale, tenuto conto dell'incidenza sui
fideiussori del dato relativo all'esistenza o meno di una posizione debitoria
della Gr. Co. S.r.l. verso l'istituto di credito ricorrente.
Venendo dunque al secondo
motivo di ricorso, si osserva che la Banca del Sa. S.p.A. ha poi denunciato
violazione di legge, vizio di motivazione e nullità della sentenza per
ultrapetizione sulla “clausola uso piazza", in relazione all'affermata
inidoneità delle modalità di determinazione “per relationem" del saggio
ultralegale a dare certezza del tasso pattuito.
Più precisamente, e
innanzitutto, la Corte avrebbe erroneamente ritenuto infondata l'eccezione di
extrapetizione sul punto, atteso che l'atto di citazione non avrebbe contenuto
alcuno specifico riferimento alla violazione dell'art. 1284, che sarebbe stata
invece denunciata solo nel prosieguo del giudizio.
Inoltre, venendo al merito,
ricorrerebbero le condizioni per la riforma della decisione impugnata,
essenzialmente per le seguenti concorrenti ragioni: l'esclusione di qualsiasi
intervento della banca nella concreta determinazione del tasso contrasterebbe
con la funzione di intermediaria ad essa assegnata; la portata reale della
“clausola uso piazza” avrebbe dovuto essere ricostruita non solo sulla base del
contenuto letterale dell'art. 7 delle condizioni contrattuali, ma anche del
disposto dell'art. 16, che prevede una riserva in favore della banca per la
modifica delle condizioni regolanti il rapporto, oltre che delle prassi
comportamentali seguite dalle parti ai sensi degli artt. 1362, comma 2, 1363 c.
c. ; il potere di intervento della banca nella determinazione del tasso sarebbe
riconducibile all'art. 1349 c. c. nonostante la sua qualità di parte e non di
terzo, poiché le relative espressioni sarebbero comunque suscettibili di
sindacato da parte dell'autorità giudiziaria, ove sollecitata a tal fine;
sarebbe stata erroneamente esclusa l'applicabilità al conto corrente bancario
dell'art. 1825 c. c., che si riferisce al conto corrente ordinario, essendo
ricavabile la regolamentazione del primo da disposizioni dettate per il
secondo, attesa l'analogia fra le due figure contrattuali.
Le doglianze sono infondate,
rispettivamente in quanto:
a) la questione
dell'ultrapetizione era già stata oggetto di specifica attenzione nei motivi di
impugnazione, e la Corte di Appello ne aveva affermato l'inconsistenza
rilevando come a pagina 13 dell'originario atto di citazione gli attori
avessero enunciato le ragioni di nullità della clausola concernente gli
interessi ad uso piazza richiamando la disposizione a loro avviso applicabile
(art. 1284, comma 3, c. c. ) ed individuando inoltre nella insufficienza del
criterio “per relationem” la carenza del parametro adottato per la determinazione
del tasso. Su questo punto nulla ha dedotto il ricorrente, che si è
sostanzialmente limitato a richiamare, con enunciazione generica, quanto già
precedentemente lamentato, per cui il profilo di censura rappresentato deve
essere disatteso.
b) La pretesa contraddizione
ravvisata fra la funzione di intermediaria assegnata alla banca e l'affermata
impossibilità di un suo diretto intervento per la determinazione del tasso è
enunciata in termini generici ed è di per sé inidonea ad individuare l'asserita
erroneità dei profili argomentativi svolti sul punto dalla Corte territoriale.
c) la
Corte di merito ha preso in esame gli artt. 7 e 16 del
contratto, ritenendo che la previsione del combinato disposto delle due
clausole non consentisse di precisare alcun elemento estrinseco di riferimento
idoneo a garantire una sicura determinabilità degli interessi, per cui la
diversa interpretazione suggerita avrebbe dovuto essere sorretta dalla denuncia
dei canoni ermeneutici asseritamele violati, con l'indicazione dei profili di
erroneità riscontrati;
d) la Corte di Appello aveva
ritenuto non pertinente il richiamo della banca all'art. 1349 c. c. a sostegno
della legittimità di un suo intervento finalizzato alla determinazione del
tasso, sotto un duplice profilo testuale e logico; quanto al primo, perché la
norma richiama la possibilità di deferire solo al terzo la determinazione della
prestazione, quanto al secondo, perché la funzione equilibratrice demandata
all'arbitratore presuppone la sua posizione di terzietà ed esclude che la
stessa possa essere correttamente svolta da colui che è titolare di un proprio
interesse in contrasto con quello dell'altro.
A fronte delle dette
argomentazioni il ricorrente ha proposto una interpretazione alternativa
dell'art. 1349, essenzialmente basata: sulla possibilità dell'adozione di
correttivi in sede giudiziaria rispetto alle determinazioni dell'arbitratore -
parte; sulle funzioni svolte dalla banca sul mercato; sulla necessità, per i
contratti di durata, di prevedere il rinvio alle condizioni di mercato.
Tuttavia non ha rappresentato né le ragioni per le quali le non condivise
affermazioni della Corte territoriale configurerebbero violazioni di legge o
sarebbero viziate nella motivazione, né i profili di erroneità sotto tale
riflesso riscontrati.
e) la Corte territoriale ha
ritenuto improprio il richiamo all'art. 1825 c. c. in ragione del fatto che la
norma si riferisce al conto corrente ordinario, e non a quello di conto
corrente bancario; che quest'ultimo contratto è connotato da autonomia
strutturale e funzionale rispetto al primo; che nell'art. 1857 c. c.,
contenente disposizioni integrative alla disciplina delle operazioni bancarie
in conto corrente con rinvio agli artt. 1826, 1829, 1832 c. c., non è contenuto
alcun riferimento al citato art. 1825.
Si tratta di rilievi del tutto
esatti e pertinenti, rispetto ai quali il ricorrente si è limitato ad invocare
l'astratta possibilità del ricorso all'analogia in ragione di una pretesa
comune caratteristica strutturale e funzionale dei due contratti in questione,
senza indicare né i profili di erroneità in cui sarebbe incorsa la Corte, né la
lacuna di disciplina normativa che, ai fini della decisione della controversia,
sarebbe stato necessario colmare mediante l'utilizzazione del procedimento analogico
previsto dall'art. 12 disp. prel. c. c. .
Con il terzo motivo di
impugnazione la Banca del Sa. S.p.A. ha denunciato violazione di legge in
relazione alla intervenuta declaratoria di nullità della clausola del conto
corrente che disciplina la capitalizzazione degli interessi dovuti dal
correntista Gr. Co.S.r.l..
In particolare la statuizione
sul punto sarebbe viziata sotto un triplice riflesso, e cioè: a) per
l'inapplicabilità della fattispecie delineata dall'art. 1283 c. c. al fenomeno
dell'annotazione in conto corrente degli interessi scaduti; b) per l'affermata
natura imperativa della detta disposizione, da cui sarebbe derivata la nullità
delle pattuizioni ad essa contrarie; c) per la negata esistenza di usi
normativi idonei a derogare alla disciplina in tema di anatocismo, ai sensi
dell'art. 1283 c. c. .
La doglianza va disattesa per
le seguenti considerazioni:
Sub a). L'inapplicabilità
dell'art. 1283 deriverebbe dal fatto che la somma di cui il correntista può
disporre ai sensi dell'art. 1852 c. c., c. d. saldo disponibile, sarebbe
costituito sia dalle somme depositate che da quelle tenute a disposizione dalla
Banca, sicché l'annotazione in conto corrente di qualsiasi posta costituirebbe
il mezzo attraverso il quale le parti regolano le reciproche obbligazioni,
delle quali rappresenterebbe una modalità di adempimento, e la stessa ravvisata
fattispecie della produzione di interessi su interessi scaduti non sarebbe
quindi neppure ipoteticamente configurabile.
La detta prospettazione non è
tuttavia condivisibile perché gli interessi nelle obbligazioni pecuniarie,
quale quella in oggetto, si determinano su crediti liquidi ed esigibili di
somme di denaro (art. 1282 c. c. ), l'estratto conto si intende approvato se
non contestato (art. 1832 richiamato dall'art. 1857 c. c. ) ed è quindi da tale
data che sono computabili gli interessi sul debito esistente.
Da ciò discende pertanto
l'inconsistenza, sotto il profilo normativo, della ricostruzione suggerita dal
ricorrente, ricostruzione che avrebbe una valenza rilevante esclusivamente in
via astratta e prescindendo dal rapporto concretamente considerato, posto che
la Corte di Appello ha in punto di fatto accertato che la pretesa creditoria
della banca era stata formulata con il computo degli interessi sugli interessi
scaduti in violazione dell'art. 1283 e la relativa statuizione è stata oggetto
di censura esclusivamente in relazione alla differente imputabilità delle somme
asseritamente dovute (poiché non ascritte al debito per gli interessi), senza
alcun riferimento alla pretesa erroneità dei criteri di determinazione
dell'ammontare del credito.
Sub b). La
Corte di Appello ha evidenziato come nella specie
"pacificamente trattasi di disposizione di carattere imperativo e di
natura eccezionale", in sintonia con un consolidato indirizzo di questa
Corte di legittimità (fra le altre si richiamano Cass. 2003/13739, Cass.
2001/5675, Cass. 2000/5286, Cass. 199/2374, Cass. 1977/1724), mentre la censura
è incentrata sulla irragionevolezza di una interpretazione legittimante deroghe
soltanto da parte di usi normativi anteriori al 1942, censura basata su diversa
ricostruzione della normativa anziché sui profili di erroneità riscontrabili
nella difforme decisione del giudice del merito.
Sub c). Gli usi nei quali troverebbe fondamento nel caso
di specie la disciplina degli interessi anatocistici avrebbero natura normativa
e non negoziale, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello.
La questione è stata specificamente affrontata da questa
Corte che, con motivazione del tutto condivisibile alla quale pertanto più
compiutamente si rinvia (Cass. S.U. 2004/ 21095, Cass. S.U. 2003/ 13739, Cass.
S.U. 2003/ 12222, Cass. S.U. 2003/ 2593 ), ha ravvisato la natura pattizia
delle cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall'A.B.I. al riguardo,
in considerazione sia del mancato accertamento da parte della Commissione
speciale permanente presso il Ministero dell'Industria dell'esistenza di un uso
normativo generale di contenuto corrispondente alla clausola in questione, sia dell'impossibilità
di individuare nei soggetti contraenti con le banche l'atteggiamento
psicologico di spontanea adesione ad un precetto giuridico (“opinio iuris ac
necessitatis“).
Ne discende dunque che non ricorrono le condizioni idonee
a legittimare una deroga al dettato dell'art. 1283 c. c. e, conseguentemente,
che correttamente è stata dichiarata la nullità della clausola in
contestazione.
Con il quarto motivo la Banca
del Sa. S.p.A. si è doluta dell'affermazione contenuta nella sentenza impugnata
secondo cui la commissione di massimo scoperto non sarebbe stata
contrattualmente prevista, per cui non avrebbe dovuto essere applicata. La
statuizione sarebbe infatti viziata per violazione di legge e carenza di
adeguata motivazione, tenuto conto del fatto che l' art. 1826 c. c. stabilisce
che i detti diritti sono inclusi nel conto, salva convenzione contraria, che le
clausole d'uso sono inserite nel contratto se non risulta volontà contraria
delle parti, che esiste consolidata prassi contrattuale nel senso prospettato
da esso ricorrente.
Il rilievo non ha pregio perché
la clausola non era prevista nel contratto (p. 27 della sentenza di secondo
grado), il giudice di appello ha giudicato inidonee le norme bancarie uniformi
e le istruzioni della Banca d'Italia a disciplinare il rapporto in esame e la
decisione non è stata censurata, non risulta sia stata data prova
dell'esistenza dell'uso richiamato, la genericità del richiamo non
consentirebbe di determinare esattamente l'oggetto della relativa obbligazione,
con gli effetti conseguenti in ordine alla sua validità.
Con il quinto motivo di
impugnazione il ricorrente ha sostenuto che, contrariamente alla decisione
adottata sul punto dalla Corte territoriale che ha rigettato la relativa
eccezione, la decorrenza del termine decennale di prescrizione per il reclamo
da parte del correntista delle somme indebitamente trattenute dalla banca per
interessi calcolati in misura ultralegale senza valida pattuizione dovrebbe
iniziare dalla data in cui ciascun pagamento è stato effettuato, trattandosi di
azione di ripetizione di tanti indebiti oggettivi quanti sono i pagamenti
effettuati in esecuzione delle clausole impugnate.
L'assunto è in contrasto con la
condivisa giurisprudenza di questa Corte (Cass. 2004/5720, Cass. 1998/3783,
Cass. 1984/2262, Cass. 1956/2488), che ha valorizzato il legame intercorrente
fra una pluralità di atti esecutivi in virtù dell'unicità del rapporto
giuridico derivante da un contratto unitario, e pertanto deve essere disatteso.
Analogamente deve infine dirsi
con riferimento all'ultimo motivo di ricorso, con il quale il giudice di
appello ha compensato le spese del relativo giudizio, tenuto conto dell'esito
negativo dell'appello principale proposto da esso ricorrente.
Passando quindi all'esame dei
ricorsi incidentali, si osserva, per quanto riguarda quello dei fideiussori Lu.
Ch. e En. Ca., che lo stesso è inammissibile, atteso l'esito del giudizio di
appello nel quale sono risultati vittoriosi, considerato che è stata accolta la
loro domanda nei confronti della Banca del Sa. S.p.A. e per l'effetto
dichiarato che nulla era da essi dovuto all'istituto di credito convenuto.
In ordine invece a quello del
fallimento Gr. Co. S.r.l., va rilevato che sono stati articolati tre distinti
motivi, con i quali è stato innanzitutto lamentato violazione di legge e vizio
di motivazione in relazione alla decisione di rigetto della domanda di nullità
della clausola sull'addebito delle valute, che a dire dell'appellante avrebbe
dovuto decorrere dalla data di emissione (o di negoziazione nel caso di
postdatazione), questione cui sarebbe stata successivamente agganciata quella
relativa alla data degli accrediti.
Più precisamente la detta
decisione era stata adottata, con riferimento agli addebiti, per la mancanza di
norme o di usi in senso contrario cui pure il ricorrente avrebbe subordinato la
legittimità del computo effettuato e, in relazione agli accrediti, per la
tardività della prospettazione, asseritamente non trattata con l'appello
incidentale, nel quale si sarebbe dato atto dell'assenza di pattuizioni sul
punto senza peraltro provvedere alla segnalazione di alcun colpevole ritardo
conseguente.
La sua erroneità, secondo il
ricorrente, dipenderebbe poi dal fatto che la questione delle valute sarebbe
stata congruamente affrontata (pp. 3, 4, 5, 13, 14, 15 dell'atto di citazione,
pp. 74, 75, 76, 77 dell'atto di appello incidentale), che non sarebbe stato
tenuto debito conto delle valutazioni compiute in proposito dal consulente di
parte, che non si sarebbe considerato che “il gioco delle valute” è contrario
agli obiettivi della trasparenza e si tradurrebbe “in ultima analisi in un
addebito di interessi passivi ultralegali”.
Le doglianze sono infondate
perché la Corte di Appello ha affrontato separatamente le due diverse questioni
concernenti la decorrenza degli addebiti e degli accrediti, adottando per
ciascuna di esse una differente motivazione a sostegno della identica decisione
di rigetto (per l'addebito la clausola negoziale non contrasterebbe con alcuna
norma, né la sua validità presupporrebbe la preesistenza di un uso normativo in
tal senso, per l'accredito la questione non sarebbe stata trattata con l'atto
di impugnazione, nel quale l'indicazione relativa all'assenza di pattuizioni
sul punto non sarebbe stata affiancata né dalla segnalazione di ritardi
colpevoli nell'accreditamento da parte della banca, né comunque da alcuna
conclusione al riguardo), profili che sono stati censurati soltanto con il
richiamo all'irregolare computo delle valute (senza ulteriori precisazioni in ordine
alle conseguenti domande asseritamente mancanti) che esso ricorrente avrebbe
operato nelle diverse difese prodotte nel giudizio di merito, alle valutazioni
compiute in proposito dal consulente di parte, al parallelismo tra gli effetti
prodotti da tale irregolare computo e quelli derivanti dalla violazione
dell'art. 1284 c. c., e quindi in modo del tutto generico rispetto alle sopra
citate “rationes decidendi” sulle quali la Corte ha basato la propria
determinazione sul punto.
Con il secondo motivo di ricorso
il fallimento ha poi denunciato vizio di motivazione in relazione al computo
degli interessi "dalla domanda al soddisfo" sulla somma di £
376.375.436 che la banca è stata condannata a pagare in suo favore, decorrenza
che viceversa a suo dire avrebbe dovuto essere indicata a far tempo dalla data
di maturazione del credito, e ciò in virtù sia del dettato normativo di cui
all'art. 1282 c. c., per il quale i crediti liquidi ed esigibili di somme di
denaro producono interessi di pieno diritto, che delle previsioni contrattuali,
posto che ai sensi dell'art. 821 c. c., in mancanza di diversa pattuizione
delle parti, gli interessi ed i frutti civili si acquistano giorno per giorno.
La Banca del Sa. S.p.A. ha
rilevato l'inammissibilità del detto motivo assumendo trattarsi di domanda
nuova, prospettazione che non può però essere condivisa, attesa la generica
formulazione della richiesta adottata dal ricorrente incidentale in sede di
precisazione delle conclusioni nel giudizio di appello, quali desumibili dall'epigrafe
della sentenza impugnata (“oltre interessi dalla maturazione al saldo").
La doglianza tuttavia va
disattesa nel merito poiché, trattandosi di pagamento indebito, gli interessi
sono dovuti dal giorno del pagamento soltanto se chi lo ha ricevuto era in mala
fede (art. 2033 c. c. ), condizione la cui esistenza presuppone un accertamento
di merito implicitamente effettuato in termini negativi dalla Corte di Appello,
e comunque incompatibile con il presente giudizio di legittimità.
Con il terzo motivo, infine, il
fallimento si è doluto della disposta compensazione delle spese processuali in
ragione della pretesa fondatezza delle argomentazioni svolte, doglianza che va
accolta tenuto conto della constatata improcedibilità della domanda proposta
dalla banca nei suoi confronti.
Il rigetto del primo motivo del
ricorso incidentale comporta l'assorbimento di quello incidentale condizionato
articolato dalla Banca del Sa. S.p.A. con riferimento all'asserita approvazione
tacita degli estratti conto, approvazione dalla quale sarebbe derivata una
preclusione in ordine alle contestazioni astrattamente proponibili al riguardo.
Conclusivamente la domanda di
quest'ultima nei confronti del fallimento va dichiarata improcedibile e
conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata sul punto senza
rinvio; il ricorso incidentale dei fideiussori va dichiarato inammissibile; il
ricorso principale e quello incidentale del fallimento devono essere rigettati.
Quanto alle spese processuali,
dall'improcedibilità della domanda formulata contro il fallimento e dalla
spiccata rilevanza sotto il profilo quantitativo e qualitativo delle questioni
- disattese - sollevate dalla banca nel presente giudizio rispetto a quelle
dedotte dal fallimento discende che le stesse vanno poste a carico della Banca
del Sa. S.p.A., nella misura indicata in dispositivo. Le spese devono invece
essere compensate per quanto concerne il rapporto banca - fideiussori, attesa
la dichiarata inammissibilità del ricorso di questi ultimi.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi.
Dichiara improcedibile la
domanda della Banca del Sa. S.p.A. nei confronti del fallimento Gr. Co. S.r.l.
e per l'effetto cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui
pronuncia sulla detta domanda;
dichiara inammissibile il
ricorso incidentale dei fideiussori Lu. Ch. e En. Ca.;
rigetta il ricorso principale e
quello incidentale del fallimento; condanna la Banca del Sa. S.p.A. al
pagamento delle spese processuali sostenute dal fallimento nel giudizio di
secondo grado e in quello in oggetto;
dichiara compensate le spese
processuali nei confronti dei fideiussori.
Liquida le spese in favore del
fallimento in € 7.100, di cui € 100 per esborsi, per il presente giudizio e in
€ 7.500, di cui € 600 per esborsi per quello di appello oltre, per entrambe le
liquidazioni, accessori di legge.
CASS. CIV., SEZ. UN., 04/11/2004, N.21095
In sede di esegesi dell'art. 1283 c.c., la giurisprudenza
della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con
pronunzie del ventennio precedente, ha enunciato il principio - reiteratamente,
poi, confermato da successive sentenze - per cui gli "usi contrari",
idoeni ex art. 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli
"usi normativi" in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la
nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad
un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art.
1283 c.c.
In tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sul
saldo passivo finale di conto corrente bancario, a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 425 del 2000, con cui è stata dichiarata
costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 76 Cost., la norma
(contenuta nell'art. 25, comma 3, D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342) di salvezza
della validità e degli effetti delle clausole anatocistiche stipulate in
precedenza, fa sì che dette clausole restino, secondo i principi che regolano
la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente
in vigore, alla stregua delle quali non possono che essere dichiarate nulle,
perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c.
La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi
configurano violazione del divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., non
rinvenedosi l'esistenza diusi normativi che soli potrebbero derogare al divieto
imposto dalla suddettanorma, neppure nei periodi anterioriu al mutamento
giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la
contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire
normatività a una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente aggiunto
Dott. PAPA Enrico - Consigliere
Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere
Dott. LUPO Ernesto - Consigliere
Dott. PREDEN Roberto - Consigliere
Dott. MORELLI Mario Rosario - rel. Consigliere
Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere
Dott. EVANGELISTA Stefanomaria - Consigliere
Dott. PICONE Pasquale - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
CREDITO ITALIANO S.P.A., SUCCEDUTO ALL'UNICREDITO ITALIANO
S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, LARGO DEL TEATRO VALLE 6, presso lo studio dell'avvocato
STEFANO D'ERCOLE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati
GIOVANNI MANDAS, PAOLO DALMARTELLO, GUSTAVO MINERVINI, i primi tre per procura
in calce al ricorso, il quarto giusta procura speciale del Notaio Dott. Tommaso
Gherardi, depositata in data 30/09/2004, in atti;
- ricorrente -
contro
STEFANA CARLINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
CRESCENZIO 20, presso lo studio dell'avvocato ALESSANDRO DE BELVIS, che lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato VALERIO VALSIERATI, giusta delega
a margine del controricorso;
- controricorrente -
e contro
STEFANA FRANCO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
GERMANICO 197, presso lo studio dell'avvocato MAURO MEZZETTI, che lo
rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANDREA CORNAGLIA, GUIDO CHESSA
MIGLIOR, giusta procura speciale del Notaio Dott. Vittorio Giuia Marassi,
depositata in data 15 giugno 2004,
in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 19/01 della Corte d'Appello di
CAGLIARI, depositata il 15/01/01;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza
del 07/10/04 dal Consigliere Dott. Mario Rosario MORELLI;
uditi gli Avvocati GIOVANNI MANDAS, PAOLO DALMARTELLO,
GUSTAVO MINERVINI, ALESSANDRO DE BELVIS, MAURO MEZZETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale
Dott. PALMIERI Raffaele che ha concluso per il rigetto del quarto motivo del
ricorso, sub d)1 e d)2.
Svolgimento del processo
Il Credito Italiano S.P.A. ha impugnato per Cassazione la
sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte di appello di Cagliari,
in riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto la opposizione proposta
da Franco e Carlino Stefana avverso il decreto ingiuntivo su sua istanza emesso
nei confronti dei due predetti intimati, quali fideiussori della F.A.S. s.p.a.,
per l'importo complessivo di L. 1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al
saldo passivo finale del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate
plurime erogazioni di credito in favore della società garantita.
Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone
l'odierno ricorso - la cui ammissibilità e fondatezza è contestata dagli
intimati con separati controricorsi - il Credito Italiano critica in sostanza
la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato: a) nel rilevare di ufficio
profili di nullità del contratto da cui trae origine il debito garantito dagli
attuali resistenti; b) nell'escluderne, in particolare, la validità in
relazione alla clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche
per il periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn. 2374
del 16 marzo, n, 3096 del 30 marzo e successive conformi che, in contrasto con
la precedente giurisprudenza, hanno escluso la rispondenza di clausole siffatte
ad un "uso normativo" ai sensi dell'art. 1283 c.c.; c) nel ritenere,
inoltre, non operative le garanzie prestate dagli Stefana per il periodo
successivo alla data (9 luglio 1992) di entrata in vigore della legge n. 154
del 1992, che ha prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità
delle fideiussioni omnibus; d) nell'escludere, infine, la debenza dell'intero
credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a torto) carenza di
documentazione, imputabile all'istituto, che consentisse di scorporare
dall'importo preteso in via monitoria quello riferibile a periodo di
operatività della fideiussione e detrarre, dallo stesso, le voci relative alla
capitalizzazione periodica degli interessi.
Su istanza della parte ricorrente, il Primo Presidente ha
assegnato la causa alle Sezioni Unite, ravvisando, in quella sub b), questione
di massima di particolare importanza.
Motivi della
decisione
1. La questione di massima, in ragione della cui particolare
importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Sezioni
unite, ai sensi dell'art. 374, cpv, cod. proc. civ. si risolve nello stabilire
se - incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione
trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario - sia o non.
esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento
giurisprudenziale (Cass. 1999 n. 2374 e successive conformi) che lo ha negato,
ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
2. E', per altro, preliminare all'esame della riferita
questione, quello delle eccezioni pregiudiziali - sollevate, rispettivamente,
da Franco e da Carlino Stefana - di inammissibilità del ricorso "per
difetto di specialità della procura alle liti" e "per intervenuto
giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte di Cagliari"
nel corso del giudizio a quo.
2/1. La prima eccezione - con cui il difetto di specialità,
per "assenza di riferimento al giudizio per Cassazione e alla sentenza
impugnanda", è (impropriamente), in particolare, riferito, non già alla
procura rilasciata al difensore (che tali riferimenti puntualmente, invece,
contiene), ma all'atto fonte dei poteri del soggetto che detta procura ha
conferito - è infondata.
Si deduce, infatti, in sostanza, dal resistente che la
procura speciale non sia nella specie riferibile - come ex art. 365 c.p.c.
viceversa dovrebbe - alla parte od a chi ha il potere di rappresentarla, in
quanto sottoscritta "da un dirigente e non dal legale rappresentante del
Credito Italiano ricorrente".
E tale rilievo non coglie nel segno, dacchè il dirigente
dell'ente - contrariamente all'avverso assunto - ha conferito il mandato alla
odierna impugnazione nella veste appunto di "legale rappresentante"
del Credito italiano, così (correttamente) spesa sulla base dello Statuto
dell'ente che, all'art. 29, testualmente prevede che "la rappresentanza
anche (e quindi: non solo) processuale della società spetta disgiuntamente al
Presidente, ai Vice Presidenti...nonchè ai dirigenti...con facoltà di designare
mandatari speciali per il compimento di determinate operazioni e di nominare
avvocati munendoli degli opportuni poteri". 2/2. Del pari destituita di
fondamento è anche l'ulteriore eccezione di "giudicato formale
interno", che tale vis preclusiva pretende, con evidente forzatura, di
conferire all'ordinanza (del 31 maggio 1999), con la quale la Corte di merito -
in via istruttoria e strumentale alla decisione, non certo decisoria - si è
limitata invece a nominare un C.T.U. per l'espletamento di una perizia
contabile, volta ad accertare, sulla base degli atti, le singole voci (tra cui
quella relativa alla capitalizzazione degli interessi) da cui risultava il
complessivo importo per cui la Banca aveva agito in via monitoria.
3. Precede ancora, a questo punto, l'esame del primo motivo
del ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli artt. 112, 101, 345
cod. proc. civ., in relazione all'art. 1421 cod. civ., in cui si assume essere
incorsa la Corte di appello nel rilevare di ufficio la nullità della clausola
anatocistica. Atteso che, con tal mezzo, si introduce un tema di indagine
logicamente preliminare, e virtualmente assorbente, rispetto a quello
sostanziale sulla validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui
viene in rilievo.
Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di
questo Collegio, però, non sussiste.
La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale
degli interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa
conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata "di
ufficio" nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari ha fatto in
corretta applicazione del principio per cui la nullità, in tutto o in parte,
del contratto posto a base della domanda può essere rilevata, appunto, di
ufficio, anche per la prima volta in appello (cfr. Cass. n. 2772/98).
E' pur vero, per altro, che il potere che il citato art.
1421 conferisce in tal senso al giudice (in ragione della tutela di valori
fondamentali dell'ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della
domanda, di cui agli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., e che le esigenze a tali
principi sottese - rispettivamente di verifica delle condizioni di fondatezza
della azione e di immodificabilità della domanda - possono trovarsi tra loro in
contrasto ove, in particolare, alla pretesa di una parte relativa ad un credito
ex contractu si contrapponga l'eccezione di nullità, dell'altra, che il giudice
ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti della
patologia del negozio che la parte, interessata alla improduttività dei
correlativi effetti, non abbia colto (o non abbia tempestivamente comunque
dedotto).
Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione
che, se da un lato, il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla
domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del
contratto dedotto dall'attore, la deduzione in tal senso del convenuto non può
costituire, od essere considerata, domanda giudiziale, non ponendosi in
rapporto genetico con il potere- dovere decisionale del giudice sul punto, che
già esiste.
Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda
riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si
tratta pur sempre di mera difesa, attenendo all'inesistenza, per mancato
perfezionamento o per nullità, del fatto giuridico, il contratto, dedotto
dall'attore a fondamento della domanda, che dunque non condiziona l'esercizio
del potere officioso di rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di
patologia negoziale (Cass. 22.10.1984, n. 5341).
Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale,
proposta in via monitoria dal Credito italiano la quale, se pur rivolta nei
confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del saldo del
contratto di conto corrente, stipulato dal debitore principale. Per cui,
appunto, non vale a paralizzare la rilevabilità, da parte del giudice, di
aspetti di nullità di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste
sostanziale di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo)
abbiano focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di invalidità
ed inoperatività della fideiussione, da essi prestata. E ciò a prescindere
dalla considerazione che, eccependo comunque anche l'inesistenza di valida
prova del credito contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò
contestato in radice lo stesso debito principale.
4. Può ora passarsi all'esame della questione di massima di
cui retro, sub 1. 4/1. Il parametro di riferimento è costituito dall'art. 1283
del codice civile (Anatocismo) e, in particolare, dall'inciso "salvo usi
contrari" che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola,
di seguito in essa enunciata, per cui "gli interessi scaduti possono
produrre interessi (a) solo dalla domanda giudiziale o (b) per effetto di
convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi
dovuti da almeno sei mesi". 4/2. Come è noto, in sede di esegesi della
predetta norma, le richiamate sentenze (nn. 2374, 3096, 3845) della primavera
del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del
ventennio precedente (nn. 6631/81; 5409/83; 4920/87; 3804/88;
2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno
enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive
sentenze nn. 12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222,
13739/03, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore
(che, con l'art. 25 del d.lgs. 4 agosto 1999 n. 342 ha, all'uopo,
ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra
banca e cliente) - (principio) per cui gli "usi contrari", idonei ex
art. 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi
"normativi" in senso tecnico;
desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole
bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente
negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283. 4.3. Al di
là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico,
rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad
avvalorare il "revirement" giurisprudenziale, emerge dalla motivazione
delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale
l'enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche
si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico.
La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli
"usi contrari", suscettibili di derogare al precetto dell'art. 1283
c.c., sono non i meri usi negoziali di cui all'art. 1340 c.c. ma esclusivamente
i veri e propri "usi normativi", di cui agli artt. 1 e 8 disp. prel.
cod. civ., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e
pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione
che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo
ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste
o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico (opinio juris ac
necessitatis).
E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione
che "dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo
adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta
conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile
fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli
predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive
dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la
cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per
accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella
spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste
l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di
trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e
interessi dovuti dal cliente". 4/4. Ora di questo sillogismo, che
costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita
il riesame, neppure la Banca ricorrente mette in discussione la premessa
maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa
si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata
retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata
inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale
degli interessi bancari.
Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del
99 abbia correttamente accertato l'inesistenza attuale, ma erroneamente escluso
l'esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per ciò,
dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che "la convinzione
degli utenti del servizio bancario della normatività dell'uso di
capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è
venuta meno dopo lungo tempo" (id est.: la consuetudine si è estinta per
desuetudine in J relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento
sottostante) "proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di
prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente
orientamento".
Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente
argomenta:
a) che l'opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli
interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata
giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a
partire dai primi anni 90, non certo retrodatabile all'epoca in cui, in un
contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione
degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la
normatività;
b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che
per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente,
l'esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari
avrebbe, per ciò stesso, costituito "elemento di fondazione o
consolidazione dell'uso stesso".
Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia
però condividere.
4/5. L'evoluzione del quadro normativo - impressa dalla
giurisprudenza e dalla legislazione degli anni '90, in direzione della
valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più
debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della
trasparenza bancaria, della disciplina dell'usura - ha innegabilmente avuto il
suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta,
occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali,
come quella di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alle banche,
risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta
dal contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente
salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come
conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris),
venissero accettate dai clienti.
Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche,
come clausole non negoziate e non negoziabili, perchè già predisposte dagli
istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria,
venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito
bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema
connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab
initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in
questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in
contrasto dunque con il precetto dell'art. 1283 c.c.), come correttamente
ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
4/6. Nè è in contrario sostenibile
che la "fondazione" di un uso normativo, relativo alla
capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo
riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement
del 1999.
Anche
in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste
da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel
contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva,
dell'esistenza e dell'effettiva portata, e non dunque anche una funzione
creativa, della regola stessa.
Discende
come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in
presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però
erronea nel presupporre l'esistenza di una regola in realtà insussistente, la
ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva,
conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che
troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente
presupponendola, l'avrebbero con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con
riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie
pronunzie nell'arco di un ventennio) su cui fa leva l'istituto ricorrente.
La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da
dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una "opinio
iuris" del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come
clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca -
non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale
(che si è dimostrato essere) contra legem.
4/7. Della insuperabile valenza retroattiva dell'accertamento
di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si
è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale -
nell'intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli
istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell'art. 25 del già citato
d.lgs. n. 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed
efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei
contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova
disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e
secondo del medesimo art. 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto,
dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione
dell'art. 77 Cost., dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000.
L'eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale
salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia
queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel
tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle
quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate mille,
perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c. (cfr. Cass. n. 4490/02).
4/8. Sul punto della rilevata nullità della clausola
anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato in via
monitoria dall'istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a censura.
5. Non diverso esito hanno anche le residue due doglianze
formulate dal Credito ricorrente.
5/1. In particolare la denuncia di violazione degli artt.
1367 c.c. e 10 l.
154/92 - con la quale si addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente
escluso che per le fideiussioni stipulate in data anteriore alla l. n. 154 cit.
il tetto massimo di garanzia, che ne condiziona l'ulteriore validità, possa
essere anche "unilateralmente" fissato dalla Banca, come nella
specie, l'istituto in concreto avrebbe fatto con lettera del 1976 - si scontra
contro l'accertamento in fatto, operato dai giudici a quibus, quanto alla
riferibilità di quella missiva a fideiussione diversa da quelle azionate nel
presente giudizio. Dal che propriamente l'inammissibilità della censura in
esame per difetto di interesse.
5/2. A sua volta, anche la statuizione conclusiva della
sentenza d'appello - secondo cui non era risultato, nella specie, possibile
l'accertamento del credito azionato nei confronti dei fideiussori "per non
avere l'istituto assolto pienamente al suo onere probatorio" - si sottrae
al sindacato di legittimità, come sollecitato nella parte finale del ricorso,
per la sua attinenza all'area delle valutazioni, relative alle risultanze
probatorie, riservate alla discrezionalità di giudizio del giudice del merito.
Nè l'istituto ricorrente può fondatamente sostenere che la
rilevazione di ufficio, solo in fase di appello, della questione di nullità
della capitalizzazione degli interessi lo abbia ostacolato nella sua attività
difensiva. Poichè la Corte territoriale - al fine di accertare quanto
effettivamente dovuto alla banca (con detrazione delle voci indebite) - ha
disposto apposita C.T.U. E, nel corso delle operazioni peritali, l'istituto ha
avuto evidentemente modo di documentare (cosa che secondo i giudici a quibus non
ha fatto in modo compiuto) le proprie ragioni creditorie.
6. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto.
7. La stessa particolare rilevanza della questione centrale,
prospettata con l'odierno ricorso, costituisce giusto motivo di compensazione
tra le parti di questo giudizio di Cassazione.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2004.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2004
CORTE COST. (ORD.), 17/10/2000, N.425
È
costituzionalmente illegittimo, in riferimento all'articolo 76 della
Costituzione, l'articolo 25, comma 3, del D.Lgs. n. 342 del 1999. È, infatti,
da escludere che l'articolo 1, comma 5, della legge n. 128 del 1998, con il
quale e stata conferita al Governo la delega per l'emanazione di «disposizioni
integrative e correttive» del testo unico bancario emanato con D.Lgs. n. 385
del 1993, abbia potuto legittimare una disciplina di sanatoria e di validazione
anticipata di clausole anatocistiche bancarie del tutto avulsa da qualsiasi riferimento
al tipo di vizio riscontrabile e alle cause di inefficacia da considerare
irrilevanti e, quindi, priva della necessaria e sicura rispondenza ai principi
e criteri informatori del testo unico bancario.
E'
fondata la q.l.c. dell'art. 25 comma 3 d.lg. 4 agosto 1999 n. 342, in riferimento
all'art. 76 cost. nel senso che è da escludersi che la legge delega permettesse
l'emanazione di una disciplina speciale di sanatoria delle clausole
anatocistiche dei contratti bancari e che predisponesse per la loro validità.
E' costituzionalmente illegittimo l'art. 25 comma 3 d.lg. n.
342 del 1999 per violazione dell'art. 76 cost. da parte del legislatore
delegato, in quanto la norma, che da un lato conferisce, in sanatoria, una
indiscriminata validità temporanea delle clausole anatocistiche bancarie
anteriori al 19 ottobre 1999, con effetti temporalmente limitati sino alla data
di entrata in vigore della delibera Cicr e dall'altro ha valore di validazione
anticipata per il periodo compreso tra la data di entrata in vigore della legge
delegata e quella della delibera del Cicr, lungi dall'essere una norma
interpretativa ha, al contrario, efficacia innovativa e (in parte anche)
retroattiva.
E' costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli
art. 3, 24, 76, 77, 101, 102, 104 cost., l'art. 25 comma 3 d.lg. 4 agosto 1999
n. 342 (Modifiche al d.lg. 1 settembre 1993 n. 385, recante il testo unico
delle leggi in materia bancaria e creditizia), in vigore dal 19 ottobre 1999,
nella parte in cui stabilisce che le clausole riguardanti la produzione di
interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati
anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del comitato
interministeriale per il credito e il risparmio (CICR) relativa alle modalità e
criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle
operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria (delibera poi
emessa il 9 febbraio 2000 ed entrata in vigore il 22 aprile 2000), siano valide
ed efficaci fino a tale data e che, dopo di essa, debbono essere adeguate - a
pena di inefficacia da farsi valere solo dal cliente - al disposto della
menzionata delibera, con le modalità ed i tempi ivi previsti.
CASS. CIV., SEZ. III, 30/03/1999, N.3096
La capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte
della banca sui saldi di conto corrente passivi per il cliente non costituisce
un uso normativo, ma un uso negoziale, essendo stata tale la diversa
periodicità della capitalizzazione (più breve rispetto a quella annuale
applicata a favore del cliente sui saldi di conto corrente per lui attivi alla
fine di ciascun anno solare) adottata per la prima volta in via generale su
iniziativa dell'ABI nel 1952 e non essendo connotata la reiterazione del
comportamento dalla "opinio iuris ac necessitatis".
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA
CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. Antonio IANNOTTA -
Presidente -
Dott. Luigi Francesco DI NANNI -
Consigliere -
Dott. Mario FINOCCHIARO -
Consigliere -
Dott. Alberto TALEVI -
Consigliere -
Dott. Alfonso AMATUCCI - Rel.
Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AVENOSO GIROLAMO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
DEGLI SCIPIONI 157 presso lo studio dell'Avvocato ENRICO DE CRESCENZO, difeso
dagli Avvocati GIUSEPPE VENTURA e l'Avvocato INZITARI BRUNO con procura
speciale del Dott. Notaio IVANO GUARINO MILANO 30/9/1998.
- ricorrente -
contro
CASSA DI RISPARMIO DI BIELLA E VERCELLI SPA, in persona del
presidente del consiglio di amministrazione avv. Luigi Squillario;
elettivamente domiciliato in ROMA L. TEVERE MELLINI 51, presso lo studio
dell'avvocato GIORGIO GHIA, che lo difende unitamente all'avvocato MARCO
WEIGMANN, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 819/96 della Corte d'Appello di
TORINO, emessa il 12/4/96 depositata il 14/06/96;
RG.1309/95.
udita la relazione della causa svolta nella udienza del
16/10/98 dal Consigliere Dott. Alfonso AMATUCCI;
udito l'Avvocato INZITARI BRUNO;
udito l'Avvocato SILVIO AVELLANO (con delega dell'Avv. GHIA
GIORGIO); udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Aurelio GOLIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del
processo
1. - Girolamo Avenoso si oppone
all'esecuzione promossa nei suoi confronti dalla Cassa di risparmio di Vercelli
(poi Cassa di risparmio di Biella e Vercelli S.p.A. - Biverbanca) in forza di
tre contratti di mutuo del 1978 e di un contratto di apertura di credito,
assumendo, in relazione ai primi, che gli interessi erano stati conteggiati al
tasso convenzionale anziché a quello legale ed assumendo, quanto al secondo,
che non era fondata la pretesa della banca di applicare l'anatocismo sugli
interessi dovuti in conseguenza della risoluzione. La cassa resistette. Con
sentenza 21 luglio 1994, n. 245 (Foro it., 1995, I, 1662) il Tribunale di
Vercelli accolse parzialmente l'opposizione ritenendo che gli interessi sul
capitale residuo concesso in mutuo andavano conteggiati al tasso legale
maggiorata del due per cento ed escludendo l'applicazione dell'anatocismo sugli
interessi dovuti in conseguenza della risoluzione del contratto di apertura di
credito nell'assunto che il computo degli interessi sugli interessi integrasse
un uso negoziale, come tale in contrasto col divieto di anatocismo di cui
all'art. 1283 c.c.
2. - La decisione è stata
riformata dalla Corte d'Appello di Torino che, decidendo con sentenza n. 819
pubblicata il 14 giugno 1996 (id., Rep. 1997, voce Contratti bancari, n. 38)
sul gravame della Biverbanca cui aveva resistito l'Avenoso, ha rigettato
l'opposizione sui rilievi che, in base al contenuto delle clausole dei
contratti di mutuo, gli interessi andavano comunque calcolati al tasso
convenzionale e che gli usi normativi, in quanto tali vincolati.
3. - Avverso detta sentenza
ricorre per Cassazione Girolamo Avenoso sulla base di due motivi, cui resiste
con controricorso la Cassa di risparmio di Biella e Vercelli S.p.A. -
Biverbanca. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della
decisione
1. Col primo motivo, deducendo
violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., il ricorrente si
duole:
a) che la Corte d'Appello abbia
applicato i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg. benché le
espressioni usate dalle parti fossero di chiara ed univoca significazione,
sicché non v'era bisogno di interpretare alcunché;
b) che dei menzionati criteri
interpretativi abbia fatto erronea applicazione in quanto, per il caso di
inadempimento, il riferimento delle parti al "tasso vigente" d'interesse
non poteva concernere quello convenzionale, ma evidentemente si riferiva a
quello legale.
1.1. La censura è infondata sotto
il primo profilo ed inammissibile sotto il secondo. L'esigenza di interpretare
il contratto, che comunque si pone per il giudice ogni qual volta una parte
fondi sullo stesso una pretesa, era nella specie resa evidente dal fatto stesso
che si controverteva in giudizio su quale fosse il significato della locuzione
"tasso vigente" e, dunque, sull'effettivo contenuto della volontà
negoziale.
Mentre l'assunto che il risultato
dell'interpretazione del contratto sia stato erroneo si risolve, in difetto di
precisazioni sulle ragion i per le quali il giudice avrebbe violato un
determinato criterio ermeneutico posto da una specifica norma, nella
inammissibile richiesta alla Corte di legittimità di sindacare il merito della
decisione adottata.
2. Col secondo motivo di ricorso
la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione dell'art. 1364
c.c., dell'art. 1368, secondo comma, c.c. dell'art. 1374 c.c. e dell'art. 2687
c.c. primo comma (ma, recte 2697) laddove ha ritenuto che l'anatocismo
trimestrale applicato dalla banca allo scoperto relativo al contratto di
apertura di credito costituisse un uso normativo.
Il ricorrente nega che fossero
stati provati gli imprescindibili requisiti dell'uso normativo, costituiti
dalla costanza della pratica e dalla convinzione della sua cogenza (opinio
iuris seu necessitatis) e rileva che nel contratto di apertura di credito era
previsto un tasso convenzionale del 22,75% senza alcun cenno all'anatocismo.
2.1. Benché fra le norme la cui
violazione è formalmente denunciata non si annoveri l'art. 1283 c.c. - al
quale, peraltro, si fa ampio riferimento nella memoria illustrativa e che è
l'unica disposizione del codice civile che ha riguardo all'anatocismo - la
Corte è tuttavia chiamata a decidere se l'applicazione di interessi
anatocistici da parte delle banche sullo scoperto di conto corrente bancario
costituisca un uso normativo, al quale pacificamente si riferisce l'art. 1283
c.c. laddove stabilisce ha "in mancanza di usi contrari, gli interessi
scaduti possono produrre interessi solo dl giorno della domanda giudiziale o
per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti
di interessi dovuti almeno per sei mesi".
La Corte d'Appello s'è limitata ad
affermare che "la giurisprudenza della Suprema Corte (si veda sent. n.
4920 del 1987, id., 1988, I, 2352, n. 7571 del 1992, id., Rep. 1992, (voce)
Interessi, n.16) è costante nell'affermare che gli usi che regolano
l'anatocismo nei contratti bancari sono veri e propri usi normativi, che
vincolano coloro che contrattano con gli istituti di credito. Tale
affermazione, che conferma peraltro il comune convincimento che normalmente è
dato riscontrare nella clientela delle banche, esime da ogni ulteriore
argomentazione e nostra la fondatezza anche del secondo motivo di
impugnazione".
In realtà, le due menzionate
sentenze (cui adde, Cass. n. 6631/81, id., Rep. 1982, voce cit., n. 6; 5409 (83,
id., Rep. 1996, voce cit., n.10); si inseriscono in un filone giurisprudenziale
secondo il quale nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti,
l'anatocismo costituisce, per effetto del comportamento della generalità dei
consociati e dell'elemento soggettivo della opinio iuris, un uso normativo ai
sensi dell'art. 8 disp. att. c.c., la cui applicazione deve considerarsi
legittima anche in mancanza dei presupposti di cui all'art. 1283 c.c. Con la
menzionata sentenza n. 4920/87, cit., si è in particolare affermato che gli usi
normativi, cioè le regole consuetudinarie - al contrario di quanto avviene per
gli usi negoziali, i quali esprimono il contenuto effettivo della volontà dei
contraenti e possono quindi ritenersi inclusi nel contratto ai sensi dell'art.
1340 c.c. solo quando alla prassi corrente corrisponda il reale intento delle
parti - non richiedono di essere ricevuti nelle forme contrattuali e, salvo
clausola negoziale contraria, operano direttamente con effetto integrativo
delle volontà dei contraenti, secondo la previsione dell'art. 1374 c.c.
2.2. Tale orientamento è stato di
recente sottoposto a profonda revisione critica da questa Corte di legittimità
che, con sentenza 11-16 marzo 1999, n. 2374, ha affermato che la capitalizzazione trimestrale
degli interessi dovuti dal cliente non costituisce un uso normativo, ma un mero
uso negoziale, con la conseguente nullità della relativa pattuizione siccome
anteriore alla scadenza, in contrasto con la norma imperativa di cui all'art.
1283 c.c.
Si è in particolare escluso - con argomentazioni che
vanno qui ribadite e pienamente condivise - che le cosiddette norme bancarie
uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi,
predisposte dall'ABI (per la prima volta, con effetto dal 1° gennaio 1952),
nella parte in cui dispongono che i conti che risultino anche saltuariamente
debitori siano regolati ogni trimestre e che, con la stessa cadenza, gli
interessi scaduti producano ulteriori interessi, attestino l'esistenza di una
vera e propria consuetudine (mai accertata, invece, dalla commissione speciale
permanente presso il ministero dell'industria, ai sensi del D.Lgs.C.P.S. 27
gennaio 1947 n. 152, modificato con L. 13 marzo 1950, n. 115). E si è rilevato
che, poiché gli accertamenti di conformi usi locali da parte di alcune camere
di commercio provinciali (ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39,
40 del R.D. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell'art. 2 del D.Lgs.Lgt. 21
settembre 1944, n. 315) sono tutti successivi al 1952, va per un verso escluso
che la relativa clausola delle norme bancarie uniformi svolga una funzione
probatoria di usi locali preesistenti, e va, per altro verso, presunto
piuttosto che l'accertamento dell'uso locale sia conseguenza del rilievo di
prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI. Prassi
cui non può riconoscersi efficacia di fonti di diritto obiettivo "se non
altro per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine".
Dalla comune esperienza emerge, infatti, che
l'inserimento di clausole prevedenti la capitalizzazione degli interessi ogni
tre mesi a carico del cliente (ed ogni anno a carico della banca) è
acconsentito da parte dei clienti non in quanto siano ritenute conformi a norme
di diritto oggettivo già esistenti, "ma in quanto comprese nei moduli
predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive
dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la
cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per
accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella
spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste
l'opinio iuris ac necessitatis, se non altro per l'evidente disparità di
trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e
interessi dovuti dal cliente".
Con la medesima sentenza si è
anche rilevato che, in epoca anteriore all'entrata in vigore del codice civile
del 1942, "gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art.
1232 c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad
ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli
interessi scaduti": e che, "inoltre, anche tra i primi e più
autorevoli commentatori del codice vigente si affermava che l'uso contrario
richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di
interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente".
2.3. Va comunque riaffermato che la capitalizzazione trimestrale
degli interessi da parte della banca sui saldi di conto corrente passivi per il
cliente non costituisce un uso normativo, ma un uso negoziale, essendo stata
tale diversa periodicità della capitalizzazione (più breve rispetto a quella
annuale applicata a favore del cliente sui saldi di conto corrente per lui
attivi alla fine di ciascun anno solare) adottata per la prima volta in via
generale su iniziativa dell'ABI nel 1952 e non essendo connotata la
reiterazione del comportamento della opinio iuris ac necessitatis.
Deve conseguentemente escludersi
che, nella specie, si sia verificata l'integrazione automatica del contratto,
ai sensi dell'art. 1374 c.c., nel senso preteso dalla banca.
3. Rigettato il primo motivo di
ricorso ed accolto il secondo, la sentenza va pertanto cassata con rinvio ad
una diversa Sezione della Corte d'Appello di Torino, che provvederà anche a
regolare le spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La corte rigetta il primo motivo
di ricorso, accoglie il secondo, cassa in relazione e rinvia, anche per le
spese, ad altra sezione della corte d'appello di Torino.
Così deciso in Roma il 16 ottobre
1998.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 30
MARZO 1999.
* * *
CASS. CIV.,
16/03/1999, N.2374, SEZ. I
La previsione contenuta nei
contratti di conto corrente bancario, concernente la capitalizzazione
trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un mero uso
negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria, è nulla, in quanto
anteriore alla scadenza degli interessi.
Tanto più nel caso di contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della
disposizione di cui all'articolo 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, che
vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi, si rivela nulla la
previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente a oggetto
la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, giacché
essa si basa su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma
consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi.
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. Alfredo ROCCHI - Presidente
-
" Giammarco CAPPUCCIO -
Consigliere -
" Mario Rosario MORELLI -
"
" Giuseppe SALMÉ - Rel.
"
" Stefano BENINI - "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
AVV. BEHARE SAMI, con studio in Milano, via Buonarroti 9,
domiciliato presso la cancelleria della Corte di cassazione, in giudizio di
persona,
ricorrente
contro
BANCO DI NAPOLI s.p.a, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via della Scrofa 117, presso
l'Avv. Lucio Ghia che la rappresenta e difende per procura speciale a margine
del controricorso,
controricorrente
avverso la sentenza della corte d'appello di Milano del 4
aprile 1995.
Sentita la relazione del cons. Giuseppe Salmé alla pubblica
udienza del 20 maggio 1998;
sentito l'avv. Ghia, per la controricorrente, che ha chiesto
il rigetto del ricorso;
sentito il p.m. in persona del sost. proc. gen. Dott.
Vincenzo Gambardella che ha concluso chiedendo il rigetto del primo motivo e
l'accoglimento del secondo.
Svolgimento del
processo
Con atto di citazione del 5 luglio 1988 Sami Behare ha
proposto opposizione avverso il decreto con il quale il presidente del
tribunale di Milano gli ha ingiunto il pagamento di L. 22.143.185 in favore
della filiale di Milano del Banco di Napoli, in relazione a uno scoperto di
conto corrente di pari importo. L'opponente ha sostenuto che la revoca dell'apertura
di credito gli era stata comunicata solo dopo la notifica del decreto
ingiuntivo, che non era dovuta la somma richiesta e che, comunque, era
illegittima la richiesta di interessi in misura superiore a quella pattuita.
Con sentenza del 16 settembre 1991 il tribunale di Milano ha
respinto l'opposizione e tale decisione è stata confermata dalla corte
d'appello di Milano.
La corte territoriale, limitatamente a quanto in questa sede
ancora rileva, ha rigettato l'eccezione di nullità della sentenza impugnata,
fondata sulla pretesa mancanza di sottoscrizione del presidente, rilevando che
in calce alla sentenza stessa, oltre alla firma dell'estensore, risultava
apposta altra firma illeggibile che, in difetto di altri elementi, doveva
essere attribuita al presidente.
Quanto alla dedotta nullità della clausola del contratto di
conto corrente relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi
scaduti, la corte territoriale ha affermato che nei rapporti tra istituti di
credito e clienti l'anatocismo è applicato secondo un uso normativo che
autorizza la deroga a tutte le condizioni elencate nell'art. art. (*) 1283
c.c..
33Avverso (*) la sentenza della corte d'appello di Milano ha
proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi il Benhare (*) . Resiste
con controricorso il Banco di Napoli. Entrambe le parti hanno presentato
memorie
Motivi della
decisione
1) Con il primo motivo, deducendo la violazione dell'art.
132 c.p.c., il ricorrente afferma che la sottoscrizione della sentenza, diversa
da quella del giudice estensore, non sarebbe illeggibile, come sostenuto nella
sentenza impugnata, perché, quanto meno, sarebbero individuabili le prime due
lettere "M" e "G", che corrispondono alle iniziali del
giudice a latere e sono incompatibili con il nome del presidente, di cui non è
stato attestato l'adempimento.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata ha accertato che in calce alla
sentenza di primo grado risultano apposte due firme: una del giudice estensore
e un'altra illeggibile. La firma illeggibile, ha aggiunto la corte
territoriale, in difetto di altri elementi, deve attribuirsi al presidente del
collegio giudicante.
Il ricorrente contesta che la seconda sottoscrizione sia
illeggibile, affermando che sono individuabili nel tratto grafico due lettere,
ma l'affermazione non può condividersi, perché la sigla non consente, di per
sé, l'individuazione del sottoscrittore. Ora, premesso che l'accertata
illeggibilità della sottoscrizione non comporta difetto di sottoscrizione,
quando la stessa non impedisca, sia pure sulla base di ulteriori elementi
risultanti dalla sentenza, l'individuazione del giudice che l'ha pronunciata
(Cass., n. 943/95, 9446/1993, 5635/1990), deve ritenersi che nella specie
l'attribuzione della sigla al presidente del collegio, alla quale è pervenuta
la sentenza impugnata, sulla base di una presunzione, non può essere vinta dai
rilievi formulati in questa sede del ricorrente, perché la valutazione di tali
rilievi implicherebbe un accertamento di fatto estraneo nell'ambito di questo
giudizio di legittimità
2. 1. Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo
l'erronea interpretazione dell'art. 1283 c.c., lamenta che sia stata ritenuta
legittima l'applicazione dell'anatocismo, nella forma della capitalizzazione
trimestrale degli interessi maturati a suo carico. Secondo il ricorrente, anche
in presenza di usi contrari, gli interessi anatocistici non sarebbero "in
ogni caso" dovuti per un periodo superiore ai sei mesi, perché l'art. 1283
c.c. è norma imperativa e non dispositiva. Comunque, la prassi bancaria della
capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici non sarebbe basata su
un uso normativo, ma su un semplice uso negoziale, mancando nel cliente la
convinzione di adempiere a un obbligo giuridico ed essendo invece diffusa la
convinzione che si tratti di clausola vessatoria imposta dal cartello bancario.
2. 2. Il motivo è fondato.
Ha carattere logicamente preliminare il secondo profilo, in
quanto se dovesse condividersi la tesi secondo cui l'uso bancario della capitalizzazione
trimestrale degli interessi a carico del cliente ha natura negoziale e non
normativa, rimarrebbe assorbita la questione relativa ai limiti temporali di
operatività dell'anatocismo.
L'art. 1283 c.c., in conformità con una tradizione legislativa
risalente alla codificazione napoleonica, supera l'antico divieto, di origine
cristiano - giustinianea, e ammette l'anatocismo a determinate condizioni.
La disposizione, che pacificamente è ritenuta di carattere
imperativo e di natura eccezionale, contiene due norme: con la prima si limita
la possibilità che interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi alla
sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre, con la seconda la
produzione di ulteriori interessi è subordinata alla proposizione di una
domanda giudiziale (che ne determina anche la decorrenza) ovvero al
perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi
stessi.
Le finalità della norma sono state identificate, da una
parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e,
dall'altra, nell'intento di consentire al debitore di rendersi conto del
rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell'inadempimento (onere
della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere
l'apposita convenzione, l'esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che
l'apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il
legislatore mira anche ad evitare che l'accettazione della clausola
anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve
necessariamente accettare per potere accedere al credito.
Finalità, va anche detto, che lungi dall'apparire
anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurari (*), sono di
grandissima attualità, perché la lotta all'usura ha trovato in tempi recenti
nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all'approvazione della legge 7
marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente,
rendendo più agevole l'applicazione delle sanzioni penali e civili (con la
modifica del secondo comma dell'art. 1815 c.c.) anche con l'introduzione di un
meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi,
consistente nel mero superamento obiettivo di un tasso - soglia determinato dal
Ministro del tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso
- soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma
capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. È stato,
infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del
cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione
degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni.
2. 3. Non ostante (*) l'evidente rilievo economico e sociale
delle finalità perseguite dalla disciplina limitativa dell'anatocismo, la
disposizione ammette tuttavia la possibilità di deroga da parte di usi
contrari.
Ora, con un orientamento giurisprudenziale che ha avuto
inizio con la sentenza n. 6631 del 1981 (secondo la quale "nel campo delle
relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e
avere, l'anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche sia i
clienti chiedono e riconoscono - nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti
attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi - come legittima la
pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull'originario
importo della somma versata, ma sugli interessi da questo prodotti e ciò anche
a prescindere dai requisiti richiesti dall'art. 1283 c.c."), questa Corte
ha ripetutamente affermato l'esistenza di uso normativo che consente di
derogare, nei rapporti tra banche e clienti, secondo la stessa volontà del
legislatore, ai limiti posti all'applicazione dell'anatocismo (v. in senso
conforme cass. n. 5409/83, 4920/87, 3804/88, 2644/89, 7571/92, 9227/95,
3296/97, che si limitano a richiamare i precedenti, senza aggiungere proprie
argomentazioni).
Ritiene tuttavia la Corte che il tradizionale orientamento
debba essere rivisto, anche alla luce delle obiezioni sollevate da una parte
della dottrina e della giurisprudenza di merito, in quanto l'esistenza di un
uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell'anatocismo
previsti dalla legge appare più oggetto di una affermazione, basata su un
incontrollabile dato di comune esperienza, che di una convincente
dimostrazione.
2. 4 Un primo rilievo, non estraneo, peraltro, allo stesso
orientamento che viene ora sottoposto a revisione critica, deve essere fatto. Gli "usi contrari", ai quali il legislatore fa
riferimento , sono i veri e propri usi normativi, di cui gli articoli 1, 4 e 8
delle disp. prel. al c.c che, secondo la consolidata nozione, consistono nella
ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un
determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratti
di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma)
giuridicamente obbligatorio, e cioé conforme a una norma che già esiste o che
si ritiene debba far parte dell'ordinamento (opinio juris ac necessitatis).
Agli usi normativi, che costituiscono fonte di diritto
obbiettivo, come è noto, si contrappongono gli usi negoziali, disciplinati
dall'art. 1340 c.c., consistenti nella semplice reiterazione di comportamenti
ad opera delle parti di un rapporto contrattuale, indipendentemente non solo
dall'elemento psicologico, ma anche dalla ricorrenza del requisito della
generalità. L'efficacia di detti usi é limitata alla creazione di un precetto
del regolamento contrattuale, che si inserisce nel contratto salvo diversa
volontà delle parti. Ancora diversi, infine, sono gli usi interpretativi (art.
1368 c.c.), consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo in cui è
concluso il contratto o ha sede l'impresa, che non hanno funzione di
integrazione del regolamento contrattuale, ma costituiscono soltanto uno
strumento di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti
contraenti.
Consegue
da quanto osservato che, in materia, non hanno, quindi, alcun rilievo, in
quanto tali (indipendente cioé dalla loro eventuale efficacia probatoria di un
preesistente uso normativo conforme, di cui si tratterà oltre), le cosiddette
norme bancarie uniformi predisposte dall'associazione di categoria
(Associazione bancaria italiana - A.B.I.), che non hanno natura normativa, ma
solo pattizia, nel senso che si tratta di proposte di condizioni generali di
contratto indirizzate dall'associazione alle banche associate (la cui validità,
peraltro, in relazione alla disciplina comunitaria e interna della concorrenza,
è stata di recente, per alcuni aspetti non secondari, messa in discussione
dalle autorità amministrative di vigilanza) . Come tali, quindi, le c.d.
norme bancarie uniformi assumono rilevanza nel singolo rapporto contrattuale
con il cliente in quanto siano richiamate nel contratto stesso, secondo la
disciplina dettata dagli articoli 1341 e 1342 c.c..
2. 5. L'indagine
alla quale la Corte è chiamata non può, inoltre, essere limitata a rilevare se
nei rapporti tra banca e cliente esista un generico uso favorevole
all'applicazione dell'anatocismo, essendo evidente che la specifica e puntuale
disciplina limitativa legale può essere sostituita, per volontà del
legislatore, solo da una normativa consuetudinaria altrettanto specifica e
puntuale e non da una generica prassi derogatoria, che, proprio a causa della
sua genericità, non potrebbe mai costituire fonte di diritto obbiettivo.
D'altra parte, se l'unico contenuto di una regola
consuetudinaria fosse quello di ammettere l'anatocismo nei rapporti tra banca e
cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva
della norma di legge, che, si ripete, non contiene un divieto assoluto, ma,
all'opposto, afferma l'ammissibilità dell'anatocismo, sia pure nei limiti della
stessa norma indicati.
Lo specifico oggetto di indagine è, pertanto, come
esattamente propone il ricorrente, l'esistenza o non di una consuetudine in
base al quale nei rapporti tra banca e cliente, gli interessi a carico del
cliente possano essere capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori
interessi) ogni trimestre.
Ora, dall'orientamento giurisprudenziale richiamato, non
emerge che questa Corte abbia in precedenza affermato l'esistenza di una norma
consuetudinaria di questa precisa portata, essendosi limitata ad affermare,
sulla base di un dato di comune esperienza, che l'anatocismo trova generale
applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti.
Anzi, la dottrina formatasi nel vigore della disciplina
anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della
giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in materia
commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del c.c. del 1865, erano nel senso che
i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della
chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti. Inoltre, anche
tra i primi e più autorevoli commentatori dell'art. 1283 del codice vigente, si
affermava che l'uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che
divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto
corrente.
Non v'é alcun elemento, quindi, che autorizzi a ritenere
esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzava la capitalizzazione
trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito.
2. 6. È, comunque, decisivo un ulteriore rilievo,
puntualmente messo in evidenza da una parte della dottrina. La capitalizzazione
trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista in
realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di
conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposti dall'ABI con
effetto dal 1° gennaio 1952. La clausola sei, dopo avere affermato che in via
normale i rapporti di dare e avere sono regolati annualmente, portando in conto
(e cioé capitalizzando) gli interessi al 31 dicembre di ogni anno, disponeva
che i conti che risultino anche saltuariamente debitori dovevano essere
regolati invece, in via normale. ogni trimestre e con la stessa cadenza gli
interessi scaduti producevano ulteriori interessi, al tasso da determinarsi
tenendo conto delle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito
operanti sulla piazza.
Non è stata mai accertata, invece, dalla Commissione
speciale permanente presso il Ministero dell'industria, ai sensi del d. Lg.vo
del C.p.S., 27 gennaio 1947, n. 152 (modificato con la legge 13 marzo 1950, n.
115) l'esistenza di uso normativo generale contenuto corrispondente alla clausola
di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e
pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata.
Per quanto riguarda, inoltre, l'accertamento di usi locali
da parte di alcune Camere di commercio provinciali, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 34, 39-40 del r.d. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell'art.
2, del d. Lg.vo luogoten. 21 settembre 1944, n. 315, deve rilevarsi che si
tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude
che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata clausola delle c.d.
norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi
locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivante dall'inserimento nelle
raccolte delle camere di commercio, di cui all'art. 9 delle disp. prel. al c.c.
riguarda l'esistenza dell'uso e non anche la natura, normativa o negoziale.
Anzi, in concreto, il rapporto temporale che è intercorso tra la
predisposizione delle c.d. norme bancarie uniformi in tema di conti correnti di
corrispondenza e le deliberazioni camerali con le quali sono stati accertati
usi locali di contenuto corrispondente, può autorizzare la presunzione che
l'accertamento dell'uso locale, sia conseguenza del rilievo di prassi negoziali
conformi alle condizioni generali predisposte dall'ABI, prassi alle quali mai
potrebbe riconoscersi efficacia di fonti di diritto obbiettivo, se non altro
per l'evidente difetto dell'elemento soggettivo della consuetudine, potendo al
massimo ritenersi che si possa trarre di clausole d'uso ai sensi dell'art. 1340
c.c.. A conferma della fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella
raccolta degli usi bancari curata dalla Camera di commercio di Firenze,
edizione 1960, l'uso
relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente
è espressamente definito come uso negoziale.
Giova, peraltro, sottolineare che, comunque, nella specie la
banca controricorrente non ha invocato un uso normativo locale, ma un uso
nazionale, che, in conformità con una parte della giurisprudenza di merito e
della dottrina, sulla base dei puntuali rilievi, storici e giuridici, ora
sinteticamente indicati, deve ritenersi inesistente.
2. 7. Infine, non appare irrilevante anche quanto può
desumersi dalla concreta esperienza giurisprudenziale e dalla dottrina più
volte richiamata, circa l'elemento psicologico che si accompagna al
generalizzato inserimento nei concreti regolamenti contrattuali di clausole (la
cui validità, alla stregua dell'art. 1283 c.c. e in mancanza di un uso
contrario, non potrebbe certo essere data per scontata) conformi alle
condizioni generali predisposte dall'ABI, che prevedono la capitalizzazione
trimestrale degli interessi a debito del cliente, mentre gli interessi a carico
della banca sono capitalizzati annualmente. Dalla comune esperienza, infatti, emerge che
l'inserimento di tali clausole è acconsentito da parte dei clienti non in
quanto ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che
sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto
comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le
direttive dell'associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione
individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto
indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Atteggiamento
psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico di
cui, sostanzialmente, consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per
l'evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra
interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente.
Su questo aspetto soggettivo, peraltro, l'orientamento di
questa Corte non aveva fatto alcuna specifica considerazione, essendosi
limitata ad osservare che sia le banche che i clienti chiedono e riconoscono
come "legittima" la pretesa degli interessi anatocistici.
Ma tale osservazione non è rilevante, perché la legittimità
della pretesa della corresponsione degli interessi anatocistici deriva
direttamente dalla circostanza che il legislatore del '42 non ha ripetuto
l'antico divieto ma, al contrario, ha ritenuto ammissibile l'anatocismo, sia
pure nei limiti segnati dall'art. 1283 c.c.. Il punto da decidere era, invece,
di vedere se tali limiti erano superabili, per l'esistenza di una norma di
diritto obbiettivo consuetudinario di contenuto diverso, mentre su tale aspetto
il citato orientamento non esprime alcuna valutazione.
3)
Sulla base dei rilievi formulati si deve, quindi, ritenere che la previsione
contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal
cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria
norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli
interessi.
Un
ulteriore ragione di invalidità della clausola, quanto meno per i contratti
bancari stipulati dopo l'entrata in vigore della legge, deriva inoltre
dall'art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (trasfusa poi nel t.u. delle
leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d. Lg. 1° settembre 1993, n.
385), che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi.
In accoglimento del secondo motivo la sentenza impugnata
deve essere pertanto cassata, con rinvio ad altra sezione della corte d'appello
di Milano, che provvederà anche sulle spese di questo giudizio.
P. Q. M.
la Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il
secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della corte
d'appello di Milano, anche per le spese di questo giudizio.
Così deciso in Roma il 20 maggio 1998, nella camera di
consiglio della prima sezione civile.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16
MAR. 1999
(*) ndr: così nel testo.
CASS. CIV., SEZ. I, 11/11/1999, N.12507
La clausola di un contratto bancario, che preveda la
capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi
nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un
uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al c.c.), come esige l'art. 1283
c.c., laddove prevede che l'anatocismo (salve le ipotesi della domanda
giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non
possa ammettersi, "in mancanza di usi contrari". L'inserimento della
clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi,
predisposte dall'A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poichè a tali norme
deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi
normativi.
. I
Prova in genere (materia civile)
Ordine - Potere discrezionale del giudice - Insindacabilità in cassazione
Obbligazioni e contratti Nullità
- Rilevabilità d'ufficio - Limiti
Contratti bancari
Capitalizzazione trimestrale degli interessi - Clausola - Nullità
Consuetudini ed usi Requisito
oggettivo - Uniforme e costante ripetizione di un comportamento - Requisito
soggettivo - Consapevolezza di prestare osservanza a norma giuridica -
Fattispecie in tema di norme bancarie uniformi
L'ordine di esibizione di un documento ex art. 210 c.p.c. è
rimesso al potere discrezionale del giudice di merito ed il suo mancato
esercizio non è sindacabile in sede di legittimità quando sia sufficientemente
motivato, come allorquando il giudice di merito, in riferimento alla previsione
normativa dell'art. 94 disp. di att. c.p.c., secondo cui l'istanza di esibizione
dev'essere accompagnata, quando è necessario, dall'offerta della prova che la
parte od il terzo, nei cui confronti si richiede l'ordine di esibizione
possiedano il documento, rigetta l'istanza, rilevando che essa non è stata
formulata con l'offerta di quella prova, ravvisandola come necessaria in
ragione della contestazione della controparte circa l'esistenza del documento.
La
clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale
degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su
un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8
delle preleggi al c.c.), come esige l'art. 1283 c.c., laddove prevede che
l'anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva
alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, "in mancanza di usi
contrari". L'inserimento della clausola nel contratto, in
conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi, predisposte dall'A.B.I.,
non esclude la suddetta nullità, poichè a tali norme deve riconoscersi soltanto
il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi.
La configurabilità di un uso normativo richiede due
requisiti, l'uno - di natura oggettiva - consistente nella uniforme e costante
ripetizione di un dato comportamento, l'altro - di natura soggettiva o
psicologica - consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando
in un certo modo, ad una norma giuridica, di modo che venga a configurarsi una
norma - sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai
regolamenti - avente i caratteri della generalità e della astrattezza.
L'esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che
altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi.
(Nell'affermare tale principio la S.C. ha escluso la natura di uso normativo
delle norme bancarie uniformi emanate dall'A.B.I., qualificandole come usi
negoziali ex art. 1340 c.c., perchè imposte al cliente in base ad una prassi,
sia pure ineludibile in quanto richiesta dall'istituto bancario mediante
clausole uniformi e predisposte).