SENTENZE SU INTERESSI ULTRALEGALI E CLAUSOLE USO PIAZZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Brindisi - Sezione Fallimentare - riunito in Camera di
Consiglio con l’intervento dei Magistrati:
1) dr. Vincenzo Fedele Presidente
2) dr. Francesco Giliberti Giudice
3) dr. Roberto Michele Palmieri Giudice – rel.
ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile, in prima istanza, iscritta al n. 1926 del R.G. 2004,
TRA
D. S.,
rappresentato e difeso dall’avv.***;
- attore -
CONTRO
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A,
successore di Banca 121 s.p.a, già Banca del Salento s.p.a, in persona del
legale rappresentante p.t, rappresentata e difesa dagli avv.ti ***;
- convenuta –
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato, D. S. ha convenuto in giudizio
la Banca Monte
dei Paschi di Siena s.p.a, esponendo che: a seguito di numerosi colloqui
sollecitati dal direttore di filiale dell’ex Banca 121 s.p.a, nel corso
dell’anno 2001 egli aveva concluso con la predetta banca un piano finanziario
denominato “4 You”; tale prodotto gli era stato presentato quale strumento di
previdenza integrativa idoneo a consentirgli guadagni su base annua superiori a
quelli dei titoli di Stato; al momento della stipula del contratto egli aveva
sottoscritto tutta una serie di documenti non ancora compilati e da lui non
visionati, stante il rapporto fiduciario intercorrente con il suddetto diretto
di filiale, e previa assicurazione di quest’ultimo che di lì a breve gli
sarebbe pervenuta copia di tutta la documentazione da lui sottoscritta; egli
aveva stipulato il contratto sulla base della duplice assicurazione del
direttore di filiale sia che trattavasi di prodotto previdenziale, sia che egli
avrebbe potuto in qualsiasi momento sciogliersi dal contratto, ottenendo la
restituzione delle somme già corrisposte, maggiorate degli interessi;
rassicurato da tale prospettazione dell’investimento, egli si era impegnato a
versare la somma di ex lire 300.000 mensili; nel corso del 2003 aveva appreso
dai mass media che il prodotto da lui acquistato consisteva non già in un piano
previdenziale, sebbene in un finanziamento collegato all’acquisto di titoli di
pertinenza della ex Banca 121 s.p.a; tale contratto doveva reputarsi nullo, o
comunque annullabile, per le ragioni esposte in atti. Ha chiesto pertanto
dichiararsi la nullità o annullamento del contratto in esame, con contestuale
condanna della banca convenuta sia alla restituzione delle somme da lui
versate, maggiorate della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, sia
al risarcimento dei maggiori danni da lui subiti. Il tutto con vittoria delle
spese di lite, da distrarsi in favore del suo procuratore anticipatario.
Costituitasi in giudizio, la
banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ha chiesto il rigetto
della domanda, con vittoria delle spese di lite.
A seguito di istanza ex art. 12 d. lgs. n. 5/03, il giudice relatore ha
fissato udienza collegiale di discussione della causa per il 17.5.2005. A tale
udienza le parti hanno illustrato le rispettive conclusioni e discusso
oralmente la causa. Di
seguito, previa conferma del decreto del g.r, il Tribunale - ai sensi dell’art.
15 5° co. d. lgs. n. 5/03 - ha riservato il successivo deposito della sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda principale dell’attore è fondata, per quanto di ragione, e deve
pertanto essere accolta, nei limiti di cui appresso.
Con il primo motivo di censura, deduce l’attore la nullità del contratto in
esame per contrarietà a norme imperative, stante la mancata osservanza, da
parte della banca proponente l’investimento, delle previsioni di cui agli artt.
21 e ss. d. lgs. n. 58/98.
La censura è fondata.
Il contratto oggetto del presente giudizio, denominato “4 You”, costituisce
la risultante di una serie di operazioni economiche tra di loro funzionalmente
collegate. Precisamente, il negozio si articola nella concessione, da parte
della banca proponente l’investimento, di un finanziamento destinato
esclusivamente all’acquisto di particolari strumenti finanziari, e segnatamente
di titoli “Republic of Italy”, nonché di quote del fondo comune di investimento
“Spazio Euro. NM”. Quale contropartita della concessione del finanziamento, il
risparmiatore - per tutta la durata del rapporto negoziale - è tenuto al
pagamento di una rata costante che comprende un tasso di interesse del 6,8%
annuo.
Tale essendo il contenuto essenziale del contratto, occorre ora individuarne
la natura giuridica, al fine dell’individuazione della disciplina applicabile.
Sul punto, reputa il Collegio che si esula senz’altro, nel caso in esame,
sia dalla figura del mutuo semplice, sia da quella del c.d. mutuo di scopo. Ciò
in quanto caratteristica precipua del mutuo – almeno nella sua connotazione
c.d. reale - è rappresentata dalla messa a disposizione di una somma di danaro
in capo al mutuatario, il quale ne acquista la proprietà, con l’obbligo di
restituirla alla scadenza, secondo le modalità indicate nel contratto di mutuo.
Particolare configurazione del contratto di mutuo è poi rappresentata dal c.d.
mutuo di scopo, ricorrente tutte le volte in cui lo scopo del finanziamento
assurge a causa del contratto, nel senso che il finanziamento è concesso a
condizione (sine qua non) che la somma mutuata venga utilizzata dal mutuatario
per una particolare finalità convenzionalmente pattuita. Con la conseguenza che
l’impossibilità originaria dello scopo determina nullità del contratto, nel
mentre la sua mancata realizzazione dà luogo ai rimedi risolutori (art. 1453 e
ss. c.c.) normativamente previsti.
Nulla di tutto ciò accade invece nel contratto in esame. Ciò in quanto la
somma asseritamente “mutuata” non è in alcun modo messa a disposizione del
cliente, neppure con la limitazione rappresentata dalla sussistenza di un
particolare scopo. Piuttosto, il finanziamento resta sul piano puramente
nominale, in quanto, per espressa previsione negoziale (art. 1), esso “sarà
esclusivamente utilizzato per l’acquisto/sottoscrizione degli strumenti
finanziari indicati ai seguenti punti nn. 2 e 3”.
Alla luce di tali caratteristiche del contratto in esame, reputa il Collegio
che esso esula senz’altro dalla fattispecie del mutuo, ponendosi piuttosto
quale contratto atipico, la cui causa è da ricercarsi nel particolare
collegamento negoziale sussistente tra le operazioni di riferimento. In particolare,
reputa il decidente che la causa del contratto in esame sia da ricercarsi non
solo – e non tanto – nel finanziamento di somme di danaro da parte della banca
proponente l’investimento quanto, piuttosto, anche nella vendita di particolari
prodotti finanziari da parte della banca medesima. Vendita attuata non già
mediante acquisto diretto ed immediato di tali prodotti da parte del cliente,
sibbene attraverso la concessione di un finanziamento da destinarsi al relativo
acquisto.
Chiarita la natura giuridica del contratto in esame (contratto atipico con
finalità, collegata, sia di finanziamento di somme, sia di acquisto di prodotti
finanziari), occorre ora valutare se la banca proponente l’investimento abbia
assolto agli obblighi normativamente previsti.
Sul punto, la particolare causale del contratto in esame – caratterizzata,
si ribadisce, anche e soprattutto dalla vendita di strumenti finanziari –
impone l’applicazione delle previsioni di cui agli artt. 21 e ss. d. lgs n.
58/98 (Testo Unico della Finanza – TUF).
Orbene, tali previsioni impongono all’istituto di credito uno specifico
obbligo di informazione circa le caratteristiche fondamentali del contratto.
Precisamente, grava sul proponente l’investimento uno specifico obbligo (art.
21 lett. a TUF) di diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse del
cliente, obbligo che impone in particolare all’operatore finanziario un’azione
tesa alla garanzia della massima informazione (art. 21 lett. b TUF) nei
confronti del risparmiatore.
Ed è appena il caso di precisare che trattasi di obblighi a contenuto più
stringente di quelli, generici, di correttezza ed informazione (artt. 1337-1375
c.c.), gravanti su qualunque parte del rapporto negoziale. La qual cosa deriva
anzitutto dalla particolare natura del contratto in esame, il quali presenta un
elevato grado di rischio, ed espone pertanto il risparmiatore ad una perdita
potenzialmente illimitata della somma da lui mensilmente investito. In secondo
luogo, non va trascurato che l’aderente all’investimento è spesso un soggetto
privo delle cognizioni tecniche necessarie per operare in un settore altamente
specializzato, quale quello del mercato dei valori mobiliari. Per tal ragione,
deve ritenersi condicio sine qua non della validità del contratto la circostanza
che, in sede di stipula dell’accordo negoziale, il risparmiatore abbia avuto
adeguata informazione circa il tipo e le caratteristiche essenziali del
contratto stesso. La qual cosa è tanto più vera se si considera che - a
differenza di quanto accade in un normale schema negoziale, ove di norma non
compaiono terzi garanti che vigilano ab origine sulla regolarità dell’accordo -
l’attività del proponente l’investimento non è libera, ma è a sua volta
soggetta a vigilanza da parte di soggetti terzi rispetto al singolo contratto,
e segnatamente della CONSOB e della Banca d’Italia (artt. 5 e ss. TUF).
Soggetti, questi ultimi, dotati di penetranti poteri nei confronti del
proponente l’investimento, poteri articolantisi non solo in richieste di
informazioni (art. 8 TUF), ma anche, più in generale, in attività di vigilanza
ispettiva e regolamentare (artt. 6-7 TUF), nonché di convocazione degli organi
dirigenti. Il tutto nel superiore interesse perseguito dal legislatore del
1998, che è quello – in armonia con l’esigenza costituzionale (art. 47 Cost. )
di tutela del risparmio - di assicurare massima trasparenza e correttezza dei
comportamenti dei soggetti abilitati (art. 5 TUF), oltre che una sana e
prudente gestione dei vari servizi finanziari da parte di questi ultimi.
In quest’ottica, non stupisce che, in deroga al principio della libertà
delle forme che regola l’autonomia privata, il TUF abbia espressamente previsto
(art. 23) la forma scritta ad substantiam dei contratti relativi alla
prestazione dei servizi di investimento. Ciò in quanto, evidentemente, la sola
forma scritta è stata ritenuta idonea a garantire l’adeguata informazione del
risparmiatore, la sua conoscenza, cioè, del complesso dei diritti e doveri
scaturenti dall’accordo negoziale.
Per tali ragioni, ritiene il Collegio che le norme regolanti i servizi di
investimento di prodotti finanziari - in quanto volte alla tutela sia del
singolo investitore, sia, più in generale, dell’intero mercato dei valori
mobiliari – abbiano natura e portata di norme imperative. La qual cosa implica,
da un lato, la non derogabilità di dette norme ad opera delle parti, e sotto
altro profilo, la nullità per illiceità della causa sia dei contratti che, pur
tuttavia, siano stati stipulati (c.d. nullità virtuali, arg. ex artt. 1418 –
1343 c.c.), sia delle transazioni (art. 1972 c.c.) eventualmente compiute dalle
parti.
Venendo ora al caso in esame, e riprendendo quanto prima esposto, reputa il
Collegio che l’istituto di credito convenuto ha violato i primari doveri di
informazione stabiliti dal TUF. Invero, sussiste in capo alla banca una palese
violazione dei doveri di informazione e correttezza sanciti dall’art. 21 TUF,
posto che detta banca ha taciuto all’attore circostanze decisive nell’economia
del contratto. Precisamente, nonostante il contratto faccia riferimento, tra
gli allegati, ai prospetti informativi sia del “Republic of Italy Programme”,
sia dell’offerta al pubblico di quote dei fondi comuni di investimento
mobiliare gestiti da “Spazio Finanza s.p.a”, nondimeno tali allegati non
risultano in alcun modo depositati nel presente giudizio.
Pertanto, nonostante il contratto preveda, quale sua componente essenziale,
l’acquisto dei predetti valori mobiliari, sono state totalmente sottaciute al
risparmiatore – o comunque non vi è prova di tale specifica informazione,
stante l’assenza di tali allegati – le informazioni principali concernenti gli
strumenti finanziari oggetto di acquisto. Precisamente, sono state sottaciute
all’attore le informazioni fondamentali concernenti tali sedicenti titoli
emessi dalla “Republic of Italy”, e segnatamente quelle relative a: 1) la
natura giuridica della società emittente le azioni in esame, il suo volume di
affari, il suo capitale sociale, se esso fosse o meno interamente versato, ecc;
2) gli eventuali rapporti di collegamento e/o partecipazione societaria; 3) la
redditività media dei titoli negoziati, mediante riferimento comparativo
all’utile ricavato dalle precedenti collocazioni di detto titolo sul mercato.
Informazioni che, sole, avrebbero consentito al risparmiatore una piena
consapevolezza degli strumenti finanziari che si accingeva ad acquistare.
Informazioni che, nondimeno, sono state, nella specie, del tutto omesse.
Informazioni analoghe la banca proponente l’investimento avrebbe poi dovuto
fornire in relazione al sedicente fondo comune di investimento denominato
“Spazio Euro.NM”, le cui quote il risparmiatore, per contratto, andava ad
acquistare. E non diversamente da quanto sopra, anche di tale Fondo si sconosce
la benché minima informazione.
Ciò fa si che, al momento della stipula del contratto, l’attore fosse del
tutto all’oscuro circa i valori mobiliari negoziati con la banca convenuta. In
sostanza, egli ha acquistato “al buio” strumenti finanziari di cui, per legge
(artt. 21 e ss. TUF), egli aveva il diritto di conoscerne le principali
caratteristiche. La qual cosa costituisce l’antitesi del principio di
trasparente e corretta informazione delle vicende concernenti l’acquisto di
valori mobiliari, cui – in attuazione dell’art. 47 Cost. – si ispira il TUF.
Ne consegue, in accoglimento della specifica censura di parte attrice, la
dichiarazione di nullità del contratto in esame, stante la sua contrarietà alle
norme imperative (art. 21 TUF, in relazione agli artt. 1418-1343 c.c.) di legge.
Per quanto tali considerazioni appaiano di per sé sufficienti
all’accoglimento della domanda dell’attore, ragioni di completezza inducono il
Collegio - in relazione all’ulteriore censura sollevata da parte attrice - a
dichiarare la nullità anche di singole clausole del contratto in esame, per
contrarietà alle prescrizioni di cui agli artt. 1469 bis e ss. c.c.
Sul punto, premette il Collegio che, in astratto, la normativa sulle c.d.
clausole vessatorie trova senz’altro applicazione alla fattispecie in esame,
stante la qualità di consumatore rivestita dall’attore, qualità certificata
dall’apposita “spunta” contenuta nella parte iniziale dell’accordo.
Tanto premesso, rileva il decidente che un primo profilo di squilibrio che
il contratto prevede a vantaggio della banca proponente l’investimento ed in
danno dell’attore è rappresentato dalle modalità di esercizio del diritto di
recesso spettante a quest’ultimo. Invero, tale facoltà prevede, quale
contropartita (Sez. II, n. 8), l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere alla
banca, “oltre agli interessi e gli altri oneri maturati fino all’esercizio di
detta facoltà, un importo determinato dalla somma delle rate ancora a scadere,
comprensive di capitale ed interessi, attualizzata al tasso IRS (Interest Rate
Swap) corrispondente al periodo intercorrente tra la data di esercizio della
facoltà di anticipata estinzione e la data di naturale scadenza del
finanziamento”.
Trattasi, a tutta evidenza, di una clausola limitativa del diritto di
recesso, non bilanciata da analoga facoltà concessa al consumatore per
l’ipotesi di recesso della banca. Per tale ragione, detta clausola deve
reputarsi nulla, ai sensi dell’art. 1469 bis 3° co. n. 5 c.c.
Altro profilo di squilibrio del sinallagma contrattuale è poi rappresentato
dal fatto che la banca fa acquistare dall’attore prodotti finanziari
riconducibili alla banca stessa, lucrando un tasso di interesse certo e
definito (nella specie, il 6,8% annuo). In tal modo, la banca si autofinanzia,
riuscendo non soltanto a collocare sul mercato titoli di altrimenti difficile
negoziazione - essendo gli stessi quotati non in Borsa, ma, a tutto voler
concedere, in mercati non regolamentati – ma a collocare titoli propri (o
comunque ad essa riconducibili), lucrando in tal modo su un’operazione rivolta
a suo prevalente, se non esclusivo, favore.
A fronte di un guadagno certo della banca (il tasso di interesse del 6,8%
annuo convenzionalmente pattuito), all’attore sono invece attribuiti margini di
redditività del tutto aleatori. Invero, lo stesso contratto (Sez. 1, punto 6)
dà atto del fatto che “le operazioni eventualmente eseguite su strumenti
finanziari non negoziati in mercati regolamentati possono comportare gravi
difficoltà di liquidare gli strumenti finanziari acquistati e comunque di valutarne
il valore effettivo”, per aggiungere poi che tali operazioni “sono
caratterizzate da una rischiosità molto elevata, con possibilità di perdite
anche eccedenti l’esborso originario, il cui preventivo apprezzamento è
ostacolato dalla loro complessità”. In maniera ancora più significativa, con
riferimento all’acquisto di quote del suddetto fondo comune di investimento, è
lo stesso contratto a riconoscere che “non v’è garanzia del rendimento futuro
delle stesse”.
Riepilogando, con l’operazione in esame la banca acquista un doppio
vantaggio, rappresentato sia dal fatto che la stessa si autofinanzia (in quanto
vengono acquistati prodotti ad essa stessa riconducibili, e di altrimenti
difficile collocazione sul mercato), sia dal fatto che essa lucra anche un tasso
di interesse da un’operazione, già di per sé, economicamente vantaggiosa.
Di contro, l’attore finanzia la banca, e lo fa a sue spese, in quanto
acquista prodotti della banca stessa, pagando un tasso fisso certo (il 6,8%
annuo), senza però avere alcuna garanzia circa la redditività futura del
proprio investimento, ed anzi dovendo mettere in conto “…una rischiosità molto
elevata, con possibilità di perdite anche eccedenti l’esborso originario”.
Per tali caratteristiche, il contratto atipico in esame realizza una figura
sinora ignota al panorama giuridico italiano, quella, cioè, del “contratto
aleatorio unilaterale”. Invero, l’alea – quale elemento attinente alla causa
del contratto – è tutta concentrata nella sfera giuridica del risparmiatore,
che paga un saggio di interesse fisso senza una aspettativa (seppur in termini
soltanto aleatori) di corrispondente vantaggio, nel mentre la banca si giova di
tale saggio (nonché del primario beneficio dell’autofinanziamento) senza, di
contro, obbligarsi – neppure in via ipotetica, secondo i dettami dell’alea - ad
alcuna corrispondente prestazione nei confronti della controparte.
È evidente, allora, lo squilibrio contrattuale derivante da tale genere di
operazione. Dal che consegue anzitutto la nullità della clausola contrattuale
(Sez. I, n. 6, quarta ipotesi) prevedente l’accettazione, da parte del
consumatore, del rischio “di perdite anche eccedenti l’esborso originario”, per
contrarietà alla previsione di cui all’art. 1469 bis 1° co. c.c.
In secondo luogo, il prevedere il contratto in esame un’alea di tipo
soltanto unilaterale non consente, ad avviso del Collegio, di ritenerlo
meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.). Ciò in
quanto l’ordinamento non può ammettere la validità di contratti atipici che,
lungi dal prevedere semplici modalità di differenziazione dei diversi profili
di rischio, trasferisca piuttosto in capo ad una sola parte tutta l’alea
derivante dal contratto, attribuendo invece alla controparte profili certi
quanto alla redditività futura del proprio investimento. L’insanabile
squilibrio iniziale tra le prestazioni oggetto del sinallagma contrattuale
rende allora l’intero contratto in esame – e non soltanto le singole clausole
sopra indicate – radicalmente nullo, non soltanto per contrasto con gli art. 21
e ss. TUF, ma anche per sua contrarietà alla previsione di cui all’art. 1322
c.c, non essendo detto negozio volto alla realizzazione di interessi meritevoli
di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Naturalmente, la nullità del contratto determina - in applicazione delle
norme sull’indebito oggettivo (art. 2033 e ss. c.c.) ed in accoglimento della
domanda principale dell’attore - la condanna della banca alla restituzione, in
favore del S., delle somme da quest’ultimo percepite in esecuzione del
contratto nullo.
Quanto alla decorrenza degli interessi legali sulla somma da restituire,
rileva il Collegio che non sono emersi nel presente giudizio elementi tali da
escludere la buona fede iniziale del convenuto (buona fede che, come è noto, si
presume – art. 1147 c.c.). Per tale ragione, in ossequio al disposto dell’art.
2033 c.c, gli interessi legali sulla somma da restituire devono essere
computati dal 30.7.2004 – data di notifica dell’atto di citazione e conseguente
dies a quo di decorrenza della mora - al soddisfo.
Quanto alla richiesta di rivalutazione monetaria della somma, occorre
ricordare che, trattandosi di obbligazione di valuta, il creditore aveva
l’onere di dimostrare il maggior danno subito per effetto del ritardato adempimento
(art. 1224, 2° co, c.c.), mediante riferimento, ad es, alla redditività media
del capitale da lui utilizzato.
A tali oneri l’attore non ha assolto, sicché la sua domanda relativa alla
rivalutazione monetaria deve essere rigettata.
Va del pari rigettata l’ulteriore domanda dell’attore di condanna della
controparte al risarcimento dei danni precontrattuali ed extracontrattuali,
stante l’assenza di prova, da parte dell’attore – a tanto onerato, in virtù dei
principi generali (art. 2697 c.c.) - di un pregiudizio economico ulteriore
rispetto a quello espressamente risarcito.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo, con distrazione in favore del procuratore anticipatario
dell’attore.
P.Q.M.
Il
Tribunale di Brindisi - Sezione Fallimentare - pronunciando sulla domanda
proposta da D. S. con atto di citazione ritualmente notificato a Monte dei
Paschi di Siena s.p.a. (quale successore a titolo universale di Banca del
Salento s.p.a.), nel contraddittorio delle parti costituite così provvede:
1)
accoglie la domanda principale dell’attore, per quanto di ragione, e per
l’effetto condanna l’istituto di credito convenuto alla restituzione, in favore
dell’attore, delle somme da quest’ultimo corrisposte in esecuzione del
contratto in esame, oltre interessi legali su tali somme, dal 30.7.2004 al
soddisfo;
2)
rigetta l’ulteriore domanda risarcitoria dell’attore;
3)
condanna il convenuto al rimborso, in favore del procuratore anticipatario
dell’attore, avv. G. Romano, delle spese di lite da questi sostenute, che si
liquidano in complessivi € 3.330, di cui € 330 per spese, € 1.000 per diritti
ed € 2.000 per onorari, oltre spese generali, CAP e IVA come per legge.
Brindisi, 21.6.2005
Il Giudice est.
(Roberto Michele Palmieri)
Il Presidente"
TRIB. MILANO, SEZ. XI, 05/08/2003
La clausola,
contenuta in un contratto di conto corrente bancario, la quale determini il
saggio di interesse con rinvio agli interessi d'uso o praticati su piazza è
nulla in quanto costituisce violazione espressa delle norme di cui agli
articoli 4 della legge 17 febbraio 1992 n. 154 e 117 del decreto legislativo 1°
settembre 1993 n. 385 (cosiddetto testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia).
TRIB. TORINO, 07/01/2003
Nel caso in cui
si rapporti in senso generico all' "uso in piazza" la condizione del
contratto di conto corrente bancario che contenga la convenzione di massimo
scoperto, tale clausola è nulla per indeterminatezza.
APP. LECCE, 22/10/2001
In tema di
contratti bancari regolati in conto corrente, la mancata impugnazione
dell'estratto conto nei termini previsti comporta l'approvazione tacita delle
operazioni materiali e della loro conformità agli accrediti ed addebiti, ma non
pregiudica le contestazioni sulla validità ed efficacia dei rapporti
obbligatori da cui tali operazioni derivano; pertanto, non si può ritenere
precluso il reclamo proposto dal correntista, che faccia valere la nullità
della clausola relativa alla determinazione degli interessi secondo il c.d. uso
piazza.
Il reclamo, da
parte del correntista, di somme indebitamente trattenute dalla banca su
un'apertura di credito in conto corrente, a titolo di interessi, è soggetto a
prescrizione decennale, che inizia a decorrere dalla chiusura del rapporto.
Qualora sia
stata pronunciata sentenza nei confronti di un'impresa commerciale poi dichiarata
fallita e, successivamente al fallimento, questa sia stata impugnata dalla
curatela, la prosecuzione del processo deve avvenire davanti al giudice
naturale dell'impugnazione, al quale soltanto spetta il potere - dovere di
definirlo senza che la soluzione possa essere influenzata dai provvedimenti
emessi, nel corso del procedimento di appello, da altro giudice (nella specie,
dal decreto di approvazione dello stato passivo).
La determinazione in misura
ultralegale del tasso di interesse del conto corrente può legittimamente
avvenire "per relationem", se ed in quanto i criteri cui correlarla
presentino sufficiente certezza ed univocità. Nel regime anteriore all'entrata
in vigore della legge sulla trasparenza e del t.u. bancario non soddisfacevano
tale requisito le clausole che facessero riferimento alle condizioni praticate
usualmente dalle aziende di credito e attribuissero alla banca la facoltà di
modificarle unilateralmente in qualsiasi momento. In ogni caso non può la
mancanza della forma scritta imposta dalla legge essere surrogata
dall'approvazione tacita degli estratti di conto corrente.
Per i contratti bancari conclusi
anteriormente all'entrata in vigore della normativa sulla trasparenza bancaria,
la clausola che rinvia, per la determinazione del tasso ultralegale degli
interessi, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla
piazza, può ritenersi valida soltanto in presenza di discipline vincolanti
fissate su larga scala con accordi interbancari (nella specie, la validità della
clausola è stata esclusa, posto che da oltre sedici anni mancano accordi di
cartello, che il "prime rate" non è vincolante per gli istituti
bancari e che, comunque, il contratto non richiamava una fonte dotata di un
sufficiente grado di univocità).
Alla luce della
disciplina codicistica la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti
alla banca dalla clientela è nulla in quanto non basata su un uso normativo,
tale non potendosi considerare le norme bancarie uniformi.
E' nulla la
clausola, contenuta in un contratto bancario regolato in conto corrente, con
cui si prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal
correntista (nella specie, la nullità è stata pronunciata in relazione ad un
contratto stipulato anteriormente all'entrata in vigore della delibera con la
quale il comitato interministeriale per il credito e il risparmio ha stabilito,
in attuazione dell'art. 120 comma 2 d.lg. n. 385 del 1993, introdotto dall'art.
25 comma 2 d.lg. n. 342 del 1999, modalità e criteri per la disciplina
dell'anatocismo nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività
bancaria).
CASS. CIV., SEZ. II, 25/01/2000, N.819
Al creditore non
può essere riconosciuta la facoltà di imputare i pagamenti ricevuti ad
estinzione del debito, ad interessi extralegali, ove questi ultimi non siano
stati fatti oggetto di una valida pattuizione ai sensi dell'art. 1284, comma 3,
c.c. Ove invece sia mancata una tale pattuizione, il debitore può sì, per sua
determinazione, pagare gli interessi in misura superiore a quella legale
assolvendo in tal modo ad un'obbligazione naturale (dal che la conseguente
irripetibilità di quanto pagato), ma se egli non abbia a manifestare un tal
tipo di volontà, il creditore non può certo destinare le somme da lui ricevute
al soddisfacimento di quella che finisce per presentarsi come un'obbligazione
meramente naturale del "solvens", invece che all'estinzione della
obbligazione effettivamente pattuita, la quale sola gli consente l'esercizio di
azioni giudiziarie.
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE
SECONDA CIVILE
Composta dagli
Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Michele
LUGARO - Presidente -
Dott. Carlo
CIOFFI - Consigliere -
Dott. Giovanni
SETTIMJ - Rel. Consigliere -
Dott. Giovanna
SCHERILLO - Consigliere -
Dott. Francesca TROMBETTA
- Consigliere -
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
sul ricorso
proposto da:
TOTARO ANTONIO, elettivamente
domiciliato in ROMA VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato ASTOLFO DI
AMATO, che lo difende, giusta delega in atti;
-
ricorrente -
contro
MEROLA GIOVANNI;
-
intimato -
e
sul 2^ ricorso n^ 02093/97 proposto da:
MEROLA GIOVANNI, elettivamente
domiciliato in ROMA PZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della Corte Suprema di
Cassazione, difeso dall'avvocato GIOACCHINO DE PIETRA, giusta delega in atti;
-
controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
TOTARO ANTONIO, elettivamente
domiciliato in ROMA VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato ASTOLFO DI
AMATO, che lo difende, giusta delega in atti;
-
controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 27/96 della
Corte d'Appello di NAPOLI, depositata il 13/01/96;
udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 18/01/99 dal Consigliere Dott. Giovanni
SETTIMJ;
udito l'Avvocato DI AMATO ASTOLFO,
difensore del ricorrente principale che ha chiesto l'accoglimento del ricorso
principale, rigetto del ricorso, incidentale;
udito il P.M. in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. MELE che ha concluso per il rigetto del
ricorso principale e accoglimento del ricorso incidentale.
Svolgimento
del processo
Con atto di
citazione 26 febbraio 81, Antonio Totaro - premesso che aveva versato a
Giovanni Merola la somma di L. 368.000.000 a saldo del prezzo concordato con
scrittura privata 19 agosto 1980 per l'acquisto d'un cospicuo complesso
immobiliare sito in Torre del Greco, compravendita da formalizzare con stipula
del definitivo fissata per il 31 agosto 1981; che il promittente venditore
aveva, nel frattempo, promesso in vendita a terzi alcuni dei detti immobili -
conveniva innanzi al Tribunale di Napoli Giovanni Merola per sentir dichiarare
trasferiti in proprio favore gli immobili de quibus.
Costituendosi, il
Merola contestava le avverse deduzioni e pretese esponendo che, per esigenze
della propria impresa, aveva fatto ricorso al Totaro ottenendone un
finanziamento di L. 205.000.000 con interessi del 50% annuo rilasciandogli
assegni per L. 380.000.000 e restituendo poi, nel corso del rapporto, oltre L.
280.000.000; che il Totaro, rimasto in possesso di assegni per L. 368.000.000, in
sostituzione di tale garanzia nel 1980 gli aveva imposto la sottoscrizione
della vendita simulata degli immobili de quibus, finalizzata a celare un mutuo
con patto commissorio. Chiedeva, pertanto, che il Tribunale, accertata la nullità
dei contratti (simulato di compravendita e dissimulato di mutuo), nonché
l'ammontare del suo debito sino al 1976 ed i pagamenti fatti sino a quel tempo,
dichiarasse estinta la sua obbligazione verso il Totaro condannando
quest'ultimo alla restituzione di quanto illegittimamente percetto ed al
risarcimento dei danni per la trascrizione della domanda giudiziale.
Con altra
citazione del 28 settembre 1981, il Totaro chiedeva che fosse dichiarata
l'autenticità della sottoscrizione del Merola sulla scrittura privata del 19
agosto 1980 e, quindi, la validità della vendita effettuata in suo favore,
depositando anche, in corso di giudizio, altra scrittura, contenente un
conteggio di quanto dovutogli, assuntivamente approvato e sottoscritto dal
Merola.
Questi contestava
anche tale domanda e disconosceva la sottoscrizione risultante sul conteggio ex
adverso prodotto.
Con sentenza 27
dicembre 1984, il Tribunale di Napoli rigettava le domande del Totaro ed, in
parziale accoglimento di quelle del Merola, dichiarava la nullità del contratto
preliminare 19 agosto 1980.
Il Totaro
proponeva appello dolendosi che il primo giudice avesse erroneamente
qualificato la scrittura privata come contratto preliminare, anziché
definitivo, e ritenuto sussistente il patto commissorio.
Il Merola si
costituiva con appello incidentale dolendosi che il primo giudice avesse
erroneamente ritenuto sussistere ancora un suo debito di L. 368.000.000 - non
ostante egli avesse già restituito alla controparte una somma superiore a
quella mutuata - ed irripetibile quanto corrisposto a titolo d'interessi in
misura superiore a quella legale.
Con sentenza 7
gennaio 1987, la Corte d'Appello di Napoli rigettava entrambe le impugnazioni
attribuendo, peraltro, natura di contratto definitivo alla scrittura privata
del 19 agosto 1980 ed ordinava la cancellazione della trascrizione delle due
domande giudiziali proposte dal Totaro nei confronti del Merola.
Il Merola
impugnava per cassazione detta sentenza con ricorso 3 giugno 1987; il Totaro
resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale; il Merola
resisteva, a sua volta, con controricorso al ricorso incidentale e proponeva
anch'egli ricorso incidentale.
Con sentenza 4
novembre 1991 n. 11743, questa Corte:
1) decidendo
sulle censure mosse dal Merola in ordine alla determinazione dell'ammontare del
proprio debito per capitale ed interessi: rilevava che la Corte di merito aveva
determinato il debito del Merola in L. 368.000.000 sulla base della ritenuta
coincidenza tra una scrittura, intitolata "situazione al 29 febbraio
1980" (e recante una sigla attribuita al Merola sebbene da questi
disconosciuta) ed un prospetto predisposto dal Totaro; riteneva che la Corte di
merito avesse erroneamente attribuito valore di scrittura privata riconosciuta
(e, quindi, di prova precostituita) al prospetto prodotto dal Totaro, giacché
non aveva considerato, in violazione dell'art. 2702 c.c., che tale efficacia
poteva derivare solo dalla provenienza e dalla sottoscrizione della scrittura
dalla parte contraria a quella che di essa intendeva avvalersi, mentre, nella
specie, la scrittura era stata redatta dal Totaro e non era stata sottoscritta
dal Merola; che, inoltre, tale errore aveva indotto anche l'ulteriore errore di
non aver considerata necessaria la verificazione della sigla risultante sulla
cartula datata 20 febbraio 1980, attribuita al Merola ma da questi
disconosciuta;
2) decidendo
sulle censure mosse dal Totaro in ordine all'affermazione, contenuta in
motivazione, che sulla somma di L. 368.000.000 dovessero corrispondersi gli
interessi legali dal 1° settembre 1981, mentre la controparte s'era impegnata,
con la cartula del 20 febbraio 1980,
a corrispondere gli interessi del 25% e nella stessa
misura fossero dovuti gli interessi moratori: riteneva la sentenza viziata d'ultrapetizione
per essersi la Corte di merito pronunziata su questione non prospettata
specificamente dalle parti con gli atti d'impugnazione; accoglieva il ricorso
principale del Merola, dichiarandone inammissibile il ricorso incidentale ed
accoglieva il secondo motivo del ricorso incidentale del Totaro, rigettandone
il primo; cassava in relazione ai motivi accolti e rinviava ad altra sezione
della Corte d'Appello di Napoli.
Con atto di
riassunzione 29 febbraio 92, il Merola conveniva nuovamente il Totaro innanzi
alla Corte d'Appello di Napoli onde - accertato che sugli importi da lui
versati al creditore gli interessi legali dovevano essere calcolati con
riguardo alle date dei singoli prestiti nonché degli importi restituiti tra il
1974 ed il 1981 e che interessi extra legali non erano dovuti, in quanto
usurari e non suffragati da atto scritto - sentir dichiarare estinto il proprio
debito nei suoi confronti.
Costituendosi con
comparsa 6 aprile 1992, il Totaro chiedeva, in via istruttoria, "la
verificazione della situazione al 29 febbraio 1980" e l'ammissione di una
prova testimoniale; nel merito, il rigetto dell'appello incidentale del Merola,
ribadendo la modesta entità degli interessi corrispostigli e la loro
irripetibilità.
Con sentenza 13
gennaio 1996, la Corte d'Appello di Napoli - accolta, a seguito di perizia
grafologica, l'eccezione del Merola in ordine alla non autenticità della sigla
da lui apparentemente apposta in calce alla scrittura privata del 1980;
ritenuta tale scrittura inutilizzabile ai fini del giudizio; ritenuti
irripetibili gli interessi in misura superiore alla legale corrisposti dal
Merola sino al 1977, in
quanto manifestazione di un'obbligazione naturale; ritenuti dovuti,
successivamente a tale data, i soli interessi legali, in mancanza d'una
pattuizione scritta per tassi superiori - dichiarava irripetibili gli interessi
corrisposti dal Merola sino al febbraio 1977 e dovuti in misura legale quelli
successivi.
Con atto
notificato il 3 gennaio 1997 Antonio Totaro ricorreva per cassazione con un
unico articolato motivo.
Resisteva il
Merola con controricorso e ricorso incidentale.
Seguivano
controricorso del Totaro al ricorso incidentale del Merola e memoria
illustrativa di quest'ultimo.
Motivi
della decisione
I due ricorsi,
proposti avverso la medesima sentenza e concernenti questioni connesse vanno
riuniti.
Ricorso
principale
Si duole il
ricorrente con l'unico motivo - denunziando omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi
dell'art. 360, n. 5, c.p.c. - che la Corte di merito abbia recepito
pedissequamente le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, senza prendere
in considerazione, e senza di ciò dare ragione, le critiche mosse dal
consulente di parte, per il che, essendo le argomentazioni del consulente
d'ufficio inattendibili e lacunose, gli stessi vizi si sarebbero riverberati
sulla sentenza.
Sotto un primo
profilo, il ricorrente imputa alla Corte di merito di non aver proceduto ad una
specifica disamina d'una serie di rilievi effettuati dal proprio consulente
tecnico di parte nel corso degli accertamenti peritali e d'essersi limitata ad
affermare che ai detti rilievi era stata data esauriente risposta dal
consulente tecnico d'ufficio negando che vi fosse necessità d'un supplemento di
consulenza.
In tale decisione
del giudice del merito il ricorrente ha ravvisato un vizio di difetto di
motivazione, ma la censura non è fondata.
In generale, non
si può fondatamente rimproverare al giudice del merito, come fa il ricorrente,
di non aver effettuato valutazioni e raggiunto convincimenti autonomi sugli
accertamenti effettuati dal consulente tecnico d'ufficio e d'aver recepito le
argomentazioni sviluppate e le conclusioni rassegnate da quest'ultimo
disattendendo quelle del consulente di parte: in materia che richiede
un'elevata qualificazione professionale specifica, è rimessa al prudente
apprezzamento del giudice di merito - nella cui esclusiva competenza rientra
pervenire a siffatta determinazione, incensurabile in questa sede - la formulazione
di considerazioni personali determinanti e di valutazioni comparative che
mancherebbero del supporto di un'appropriata preparazione scientifica, tanto
più nel contrasto tra le argomentazioni dell'esperto nominato dall'ufficio,
assistite dalla presunzione d'imparzialità, e quelle dell'esperto di parte,
quanto meno influenzate dall'esigenza di sostenere le ragioni del preponente.
A maggior
ragione, quando le considerazioni del consulente tecnico di parte abbiano
formato oggetto di specifica valutazione e di conseguenziale parere ad opera
del consulente d'ufficio, il giudice, ove abbia ritenuto adeguatamente svolta
l'una ed argomentato l'altro in guisa da condividerne le conclusioni, non è
tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del proprio convincimento,
giacché, per quanto peritus peritorum, non è, tuttavia, generalmente in grado
di risolvere in coscienza e con sufficiente cognizione di causa contrasti
complessi di carattere essenzialmente tecnico; può, dunque, il giudice
limitarsi ad affermare la propria adesione alle conclusioni rassegnate dal
consulente d'ufficio, in quanto così il richiamo a determinate decisive
considerazioni da questi effettuate, come la decisione di non rinnovare la
consulenza, implicano l'avvenuto esame comparativo dei rilievi di parte e delle
risposte del consulente d'ufficio e, sul punto, costituiscono motivazione
adeguata insuscettibile di censure in sede di legittimità.
Il che è quanto
rilevabile nella sentenza in esame, nella quale, sinteticamente richiamate le
argomentazioni salienti poste dal consulente d'ufficio alla base delle
rassegnate conclusioni e ritenutele logiche e convincenti, la Corte di merito
ha evidenziato come le difformi argomentazioni del consulente di parte fossero
state esaurientemente valutate e disattese dal C.T.U. prima di pervenire alle
dette conclusioni, per il che non appariva necessario un supplemento di
consulenza.
Con una seconda
prospettazione, il ricorrente sviluppa una serie di critiche alla consulenza
d'ufficio per concludere che le relative argomentazioni sono, a suo avviso,
inattendibili e lacunose, difetti riverberatisi sulla sentenza della quale sono
state recepite.
Censura posta in
tal guisa non è ammissibile, in quanto si risolve nella prospettazione d'una
questione di mero fatto.
Questa Corte ha
ripetutamente evidenziato come, quando sia denunziato, con il ricorso per
cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell'omesso
od insufficiente esame di fatti, di circostanze, di rilievi mossi alle
risultanze d'ordine tecnico ed al procedimento pure tecnico seguito dal
consulente d'ufficio, è necessario che il ricorrente non si limiti a censure
apodittiche d'erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione od anche
d'omesso approfondimento di determinati temi d'indagine, prendendo in
considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa
valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle cui è pervenuto il
consulente d'ufficio e recepite dal giudice; è, per contro, necessario che il
ricorrente non solo precisi e specifichi, svolgendo concrete e puntuali
critiche se pure sintetiche, le risultanze e gli elementi di causa dei quali
lamenta la mancata od insufficiente valutazione, ma evidenzi, in particolare,
le esatte controdeduzioni alla consulenza d'ufficio che assuma essere state
neglette, nonché quali fossero l'esatto contenuto e le finalità degli eventuali
mezzi di prova contrari richiesti e non ammessi ed in quali esatti termini tale
richiesta fosse stata effettuata.
Ciò in quanto,
per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione, è condizione
d'ammissibilità del motivo il consentire al giudice di legittimità di procedere
alla valutazione della decisività, al fine di pervenire ad una soluzione della
controversia differente da quella adottata dal giudice a quo, dei mezzi
istruttori non ammessi e/o delle risultanze assunte erroneamente od
insufficientemente valutate; mentre è, poi, ovvio come una censura che si
sostanzi, di fatto, in un'istanza d'ulteriore diversa indagine istruttoria,
della quale non si deduca né dimostri che abbia già formato oggetto di
specifica adeguata richiesta in sede di merito, non possa trovare ingresso in
sede di legittimità.
Orbene,
esaminando il caso di specie, devesi rilevare come, anzi tutto, nelle deduzioni
del ricorrente non risulti adeguatamente esplicitato se, in quali termini, in
quali occasioni e con quali atti, alla Corte di merito fossero stati segnalati
errori del consulente d'ufficio, così nel rilievo e nell'elaborazione dei dati
posti a base della relazione commessagli come nello svolgimento dell'iter
logico iniziato con l'analisi di quei dati e terminato con le rassegnate
conclusioni; così come neppure risulta se, in quali esatti termini e con quali
precise finalità, alla Corte stessa fossero stati richiesti una nuova
consulenza od un supplemento di quella già espletata, richieste tanto più
necessarie attese le critiche che si assume fossero state rivolte all'opera
svolta dal consulente d'ufficio.
Il ricorrente si
limita a prospettare alcuni elementi tecnici di giudizio ed a trarne le proprie
personali conclusioni per dimostrare l'assunta erroneità delle argomentazioni
del consulente d'ufficio, così traducendosi il motivo non in una specifica
censura ma in una semplice prospettazione di tesi difformi da quelle recepite
dal giudice a quo del tutto irrilevante in questa sede, attenendo all'ambito
della discrezionalità del giudice del merito nella valutazione dei fatti e
nella formazione del proprio convincimento, dei quali si finisce per chiedere una
revisione, e non ai vizi del convincimento stesso rilevanti ex art. 360 c.p.c.
Giova
sottolineare come, nel difetto d'una valida specifica censura in ordine alla
mancata ammissione d'un supplemento di consulenza tecnica, trovi anche conferma
quanto già evidenziato trattando dell'idoneità della motivazione dell'impugnata
sentenza sul punto.
Il ricorso
principale va, dunque, rigettato.
Ricorso
incidentale
Con motivo unico
ma articolato in due distinte censure, il ricorrente incidentale - denunziando
violazione e falsa applicazione degli artt. 1194, 1284, 1815, 2034, 2697 c.c. e
degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c. nonché vizio di motivazione - si duole
che la Corte di merito abbia omesso di pronunziarsi sulle sue domande intese,
l'una, all'accertamento della misura degli interessi da lui dovuti e, l'altra,
alla determinazione dell'eventuale suo debito residuo.
La censura è
fondata.
La valutazione
del motivo, diretto all'accertamento di più errores in procedendo, implica
l'esame d'alcune parti dei principali atti del presente giudizio, peraltro già
richiamati nell'esposizione in fatto.
A fronte
dell'originaria domanda del Totaro intesa ad ottenere il trasferimento d'un
certo numero d'immobili in esecuzione del preliminare 19 agosto 1980, il Merola
contestava la domanda deducendo violazione del divieto di patto commissorio e
chiedeva, in via riconvenzionale, dichiararsi la nullità del preliminare ed
altresì accertarsi l'ammontare delle somme mutuategli e dei relativi interessi
in misura legale nonché delle somme restituite e di quanto a sua volta
controparte dovesse rendergli.
Il Tribunale
dichiarava la nullità del preliminare e rigettava la domanda del Totaro, ma
rigettava anche la riconvenzionale del Merola ritenendolo ancora debitore della
somma di L. 368.000.000, corrispondente al prezzo di vendita degli immobili.
Sulle
impugnazioni d'entrambe le parti, la Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza
7 gennaio 1987, rigettava entrambi i gravami ma - quanto a quello del Merola,
che aveva denunziato come errore del primo giudice il non aver considerato i
suoi versamenti superiori alla somma mutuatagli e l'aver ritenuto irripetibili
gli interessi corrisposti in misura superiore alla legale - precisando in
motivazione che alla data del preliminare di compravendita dichiarato nullo le
somme versate in conto debito non coprivano neppure gli interessi nella misura
del 25%, irripetibili in quanto corrisposti in adempimento di un'obbligazione
naturale, ma che sul residuo debito di L. 368.000.000 gli interessi erano dovuti
in misura legale a decorrere dal 1° settembre 1981, giorno successivo al
periodo di riferimento del conteggio posto a base della determinazione del
prezzo di vendita degli immobili.
Questa Corte,
adita a sua volta da entrambe le parti, cassava con rinvio la detta sentenza,
ritenendo le censure del Merola fondate nel loro complesso, nella
considerazione che entrambi i documenti posti a base della decisione sulla
determinazione del debito in L. 368.000.000 erano inidonei allo scopo, essendo
l'uno - il prospetto redatto dal Totaro - di provenienza dalla stessa parte che
intendeva avvalersene e l'altro - il conteggio recante l'apparente sigla del
Merola - disconosciuto dalla parte cui era stato attribuito e non verificato
nella sottoscrizione.
Riassumendo il giudizio
in sede di rinvio, il Merola, nella considerazione che del rapporto non
sussistesse alcun'altra documentazione se non quella posta a base
dell'accertamento delle somme da lui ricevute in mutuo per L. 242.075.000 e
restituite per L. 232.000.000, ribadiva la domanda di determinazione del
proprio residuo debito tenendo conto dei soli interessi legali in difetto di
prova d'una convenzione per interessi in misura superiore.
Con la sentenza
13 gennaio 1996 qui impugnata, la Corte di merito ha escluso che, ai fini della
decisione, si potesse tener conto così del prospetto proveniente dal Totaro, in
quanto ciò avrebbe importato violazione dell'art. 2702 c.c. come già rilevato
dalla sentenza d'annullamento, come della scrittura 29 febbraio 1980
apparentemente proveniente dal Merola, per essere stata accertata la non
autenticità della sigla su di essa apposta.
Ricordato,
quindi, come l'importo complessivo delle somme mutuate, sul quale non
sussisteva contestazione, ammontasse a L. 242.000.000 circa, la Corte di merito
ha ritenuto, anzi tutto, che su tale somma gli interessi fossero dovuti nella
misura del 25% "così come indicato dalla sentenza di secondo grado a pag.
11, interessi così dichiarati dal Totaro (vedi sempre sentenza della Corte
d'Appello di Napoli)"; in secondo luogo, che non potesse trovare integrale
accoglimento l'eccezione del Merola, per il quale gli interessi sulla somma
mutuata dovevano essere computati in misura legale, in quanto questi avevano
spontaneamente corrisposto gli interessi in misura extralegale sino al 1977
adempiendo ad un'obbligazione naturale, onde quanto pagato a tal titolo sino al
1977 non era ripetibile, mentre per il periodo successivo dovevano essere
corrisposti i soli interessi legali in difetto di valida pattuizione.
Decidendo sul
primo punto, la Corte di merito, è incorsa in un evidente vizio di
contraddittorietà della motivazione, in quanto, dopo aver affermato
l'inutilizzabilità del prospetto proveniente dal Totaro e della scrittura
apparentemente siglata dal Merola, ha poi dichiarato accertata la misura degli
interessi al 25% sulla base proprio dei detti documenti, al pari della sentenza
già cassata sul punto nella quale, alla richiamata pag. 11, era stato
effettuato il computo degli interessi con riferimento alla misura, appunto, del
25% "dichiarata dal Totaro e indicata nel conteggio da lui attribuito al
Merola" per cui il conteggio del Totaro, portante un credito complessivo
di L. 368.000.000 per capitale ed interessi "era esatto e concorda con il
conteggio attribuito al Merola".
In tal guisa la
Corte di merito ha anche contravvenuto all'obbligo d'attenersi a quanto deciso
nella sentenza d'annullamento, che aveva dichiarato illegittima l'utilizzazione
del documento proveniente dal Totaro, per violazione dell'art. 2702 c.c., e del
documento attribuito al Merola, ove fosse stata accertata (come lo è stata) la
non autenticità della sigla ad esso apposta.
Decidendo sul
secondo punto, la Corte di merito è incorsa, poi, in vizio tanto di violazione
di legge quanto di difetto di motivazione, giacché ha affermato che "il
Merola fino al febbraio 1977
ha regolarmente pagato gli interessi ad un tasso
superiore a quello legale" senza fornire alcuna indicazione in ordine alle
fonti dell'espresso convincimento, indicazione tanto più necessaria atteso che
oggetto della controversia sul punto - essendo risultati provati solo
l'ammontare dei prestiti e quello delle restituzioni e null'altro, in
particolare nessuna imputazione delle somme versate in restituzione e nessuna
convenzione in ordine agli interessi - erano proprio, da un lato, la pretesa
del Totaro d'imputare i pagamenti ricevuti in conto interessi al 25% e,
dall'altro, la contestazione del Merola circa la debenza d'interessi in tale
misura, avendo questi sempre affermato essergli stati chiesti interessi
extralegali, fin anche del 50%, ma mai d'averli accettati e tanto meno d'averli
corrisposti.
Questa Corte ha già evidenziato
altra volta come la facoltà d'imputare i pagamenti ricevuti ad estinzione del
debito per interessi extralegali non possa essere riconosciuta al creditore in
difetto d'una valida pattuizione degli interessi stessi ex art. 1284, terzo
comma, c.c. e come, mancando pattuizione siffatta, il debitore possa bensì
pagare, per sua determinazione, gli interessi in misura superiore a quella
legale - assolvendo in tal modo ad un'obbligazione naturale con conseguente
irripetibilità di quanto pagato - ma, ove egli non abbia manifestato una
volontà in tal senso, il creditore non possa destinare le somme ricevute al
soddisfacimento di un'obbligazione meramente naturale del solvens invece che
all'estinzione d'altra obbligazione che, validamente sorta, consente
l'esercizio d'azioni giudiziarie nei confronti del debitore (Cass., 22 aprile
1968, n. 1236).
In altri termini, ove si sia in
presenza di pagamenti effettuati dal debitore in conto del proprio debito
risultato non ancora estinto nel suo complessivo ammontare di capitale ed
interessi legali maturati ed in difetto d'una pattuizione d'interessi superiori
alla misura legale validamente stipulata ai sensi del terzo comma dell'art.
1284 c.c., i pagamenti stessi, ove manchi la prova della loro imputazione in
tutto od in parte ad interessi in misura superiore alla legale per espressa
volontà del debitore, non possono ricevere imputazione siffatta ed autonoma
iniziativa del creditore; ciò in quanto, non essendo stabilita alcuna
presunzione, legale o semplice, al riguardo, la spontaneità del pagamento da
parte del debitore in conto di interessi superiori alla misura legale deve
risultare, come per l'adempimento ad ogni tipo d'obbligazione naturale,
dall'adeguato accertamento d'un suo comportamento idoneo a dimostrare in modo
inequivoco la volontà d'adempiere ad uno dei doveri, tipici ed atipici, presi
in considerazione dall'art. 2034 c.c., piuttosto che alla diversa obbligazione
ordinaria validamente contratta ed alle obbligazioni legali ad essa accessorie.
Diversamente
argomentando, sarebbe consentito a qualsiasi creditore che, in difetto di
pattuizione scritta in ordine alla corresponsione d'interessi in misura
superiore alla legale, ricevesse pagamenti da parte del debitore senza
contestuale formazione d'un documento contenente l'imputazione specifica dei
pagamenti stessi - come nel caso di specie, in cui v'è solo la prova d'una pluralità
di versamenti genericamente effettuati in conto del dovuto, data dagli assegni
emessi dal debitore - di sostenere, senz'onere di prova al riguardo e pertanto
in violazione del principio fondamentale posto dall'art. 2697 c.c., la debenza
d'interessi in tal misura, nonché di conseguirne la corresponsione, sulla sua
semplice dichiarazione d'aver effettuato l'imputazione delle somme ricevute a
tali pretesi interessi.
Nel caso di
specie, dunque, la Corte di merito non solo ha omesso d'applicare le norme sopra
indicate, ma non ha neppure spiegato a qual valido titolo gli interessi sino al
1977 fossero dovuti nella misura del 25% e, tanto meno, ha spiegato d'onde
abbia tratto il convincimento che il Merola avesse spontaneamente corrisposto
gli interessi nella detta misura per il periodo in questione; precisazioni a
maggior ragione necessarie a fronte non solo del mancato accertamento d'una
qualsivoglia manifestazione di volontà del debitore intesa alla corresponsione
d'interessi in misura superiore alla legale ma, soprattutto, della
contestazione del debitore stesso in ordine alla pretesa del creditore
d'imputare i pagamenti ricevuti, in prededuzione, a tal genere d'interessi,
richiestigli ma non accettati.
La pronunzia in
esame è, pertanto, censurabile, oltre che per violazione degli artt. 1284,
1815, 2034, 2697 c.c., anche per patente difetto di motivazione. Il ricorso
incidentale va, dunque, accolto e l'impugnata sentenza cassata, in ragione
delle svolte censure, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della
medesima Corte d'Appello.
P.
Q. M.
La Corte riuniti
i ricorsi, rigetta il principale, accoglie per quanto di ragione l'incidentale,
cassa e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte d'Appello di
Napoli.
Così deciso in
Camera di Consiglio il 18 gennaio 1999.
DEPOSITATA IN
CANCELLERIA IN DATA 25 GENNAIO 2000.
CASS. CIV., SEZ. I, 18/05/1996, N.4605
L'obbligo della forma scritta
"ad substantiam", imposto dall'art. 1284 comma ultimo c.c., non
comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il
tasso d'interesse praticato, ma, in coerenza con il principio secondo cui
l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile, il detto
obbligo è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le
parti indicano criteri oggettivi che consentono la quantificazione del tasso
d'interesse, ancorchè ciò avvenga "per relationem" mediante il
richiamo ad elementi estranei al contratto, come quando in un contratto di
conto corrente bancario si faccia riferimento, al predetto fine, alle
condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza.
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE
I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.
Magistrati:
Dott. Renato
SGROI Presidente
" Rosario
DE MUSIS Consigliere
" Alberto
PIGNATARO Rel. "
" Giovanni
VERUCCI "
" Mario
Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MONTI VITTORIANA e FRIGIOLA SAVINO,
elettivamente domiciliati in Roma Via Orazio 31, presso l'Avvocato Costantino
Tonelli, rappresentati e difesi dall'Avvocato Ercole Boccardi, giusta delega in
atti;
Ricorrenti
contro
CREDITO ROMAGNOLO SPA, in persona
del Presidente del Consiglio di Amministrazione p.t., elettivamente domiciliato
in Roma Via N. Porpora 9, presso l'Avvocato Bruno Guardascione, che la
rappresenta e difende unitamente all'Avvocato Giancarlo Berti, giusta delega in
atti;
Controricorrente
nonché
contro
BANCA POPOLARE DELL'EMILIA ROMAGNA
già BANCA POPOLARE di CESENA - Società Cooperativa a r.l., in persona del
Presidente p.t., elettivamente domiciliata in Roma Via P. Da Palestrina 63,
presso l'Avvocato Mario Contaldi, che la rappresenta e difende unitamente
all'Avvocato Gianfranco Fontaine, giusta delega in atti;
Controricorrente
nonché
contro
MONTI LEONARDO, PARMA MARIA GRAZIA,
FERRUCCINI GIANCARLO, RUSSI ELISABETTA;
Intimati
avverso la sentenza n. 838/93 della
Corte d'Appello di Bologna, depositata il 26/06/93;
udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 06/12/95 dal Consigliere Relatore Dott. Alberto
Pignataro;
udito per il ricorrente, l'Avvocato
Boccardi, che chiede l'accoglimento del ricorso;
udito per il resistente, Credito
Romagnolo, l'Avvocato Berti, che si riporta ai motivi del controricorso;
udito per il resistente, Banca
Popolare dell'Emilia Romagna, l'Avvocato Romano Ricci, con delega, che si
riporta agli atti;
udito il P.M. in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele Ceniccola che ha concluso nei
confronti della Banca di Cesena, l'inammissibilità del ricorso del Frigiola e
della Monti; nei confronti del Credito Romagnolo: l'inammissibilità del ricorso
della Monti relativo all'opposizione allo stato passivo.
Ricorso nel merito: rigetto.
Svolgimento
del processo
Con decreti del 10 e 18 febbraio
1981 il presidente del tribunale di Rimini ingiungeva alla Camelot Mode s.p.a.
nonché ai soci fideiussori della stessa, Vittoriana Monti, Savino Frigiola,
Leonardo Monti, Maria Grazia Parma ed Elisabetta Russi, di pagare al Credito
romagnolo s p.a. ed alla banca popolare di Cesena rispettivamente le somme di
L. 26.241.557 e di L. 35.667.390 dovute in relazione a rapporti di conto
corrente intercorsi tra le banche ricorrenti e la società.
Tutti gli ingiunti proponevano
opposizione, deducendo in particolare l'illegittimità del calcolo degli
interessi (in misura superiore alla legale) e delle valute (operato anticipando
gli addebiti e postdatando gli accrediti) con conseguente ingiustificato
aumento dei debiti.
Le banche deducevano, tra l'altro,
la mancata impugnazione nei termini degli estratti-conto inviati alla debitrice
principale e la conformità del calcolo degli interessi e delle valute agli
accordi intervenuti con la
società Camelot.
In pendenza del giudizio
sopravveniva il fallimento di detta società nel cui stato passivo le predette banche
(nonché la cassa di risparmio di Rimini con la quale la controversia veniva poi
definita transattivamente) insinuavano i rispettivi crediti in via
chirografaria.
Le cause di opposizione ai decreti
ingiuntivi, interrotte a seguito della dichiarazione di fallimento, erano
riassunte dai fideiussori.
Vittoriana Monti proponeva anche,
quale creditore ammesso al passivo, impugnazione dei crediti delle banche ai
sensi dell'art. 100 l.
fall., richiamando i motivi di opposizione ai decreti ingiuntivi.
Nelle relative cause, che venivano
riunite, era disposta consulenza tecnica d'ufficio per accertare le modalità di
calcolo degli interessi e delle valute sui conti correnti intestati alla
società fallita.
Espletata la consulenza, dette
cause erano riunite a quella di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a
favore del Credito romagnolo, mentre la causa di opposizione al decreto
ingiuntivo ottenuto dalla banca popolare di Cesena veniva decisa in separato
giudizio.
Con sentenza del 22 febbraio 1991
il tribunale adito rigettava le domande proposte nelle cause riunite.
La sentenza era impugnata in via
principale da Savino Frigiola (già amministratore unico della società) e da
Vittoriana Monti (moglie del primo) nonché, in via incidentale, da Leonardo
Monti e Maria Grazia Parma.
Il fallimento (dichiarato nel
frattempo chiuso per ripartizione dell'attivo tra i creditori muniti di diritti
di prelazione) ed Elisabetta Russi restavano contumaci, mentre le banche
resistevano ai gravami.
Con sentenza del 26 giugno 1993, la
corte d'appello di Bologna, disattesa l'istanza di riunione con il giudizio
d'appello relativo alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a
favore della banca popolare di Cesena, rigettava l'appello principale e
dichiarava inammissibile quello incidentale.
La corte d'appello osservava, tra
l'altro:
- che era infondata l'eccezione di
difetto di rappresentanza processuale del Credito romagnolo nel proporre il
ricorso per ingiunzione poiché i due funzionari della sede di Rimini che
avevano rilasciato congiuntamente la procura erano leggitimati a farlo in base
a delibere del consiglio di amministrazione della banca;
- che il rifiuto, da parte della
stessa banca, delle offerte (prima irrituale e poi reale) fatte dal Frigiola
era legittimo ai sensi dell'art. 1181 c.c. poiché le stesse non comprendevano
anche gli accessori del credito (interessi e spese legali);
- che le clausole contenute nei
contratti di conto corrente bancari, di determinazione degli interessi alle
condizioni praticate usualmente dalle banche su piazza, rispettavano il
requisito della forma scritta richiesto dall'art. 1284 c.c. e non costituivano
clausole vessatorie;
- che, poiché nel corso dei
pluriennali rapporti di conto corrente intercorsi tra le parti, gli estratti
conto periodici non erano mai stati contestati specificamente nei termini
pattuiti ai sensi dell'art. 1832 c.c. dalla società Camelot, doveva ritenersi
che essi rispecchiassero gli accordi intervenuti tra le parti e fornissero la
prova dei crediti delle banche anche nei confronti dei fideiussori;
- che le fideiussioni
"omnibus" erano valide e che ad esse non era applicabile il nuovo
testo dell'art. 1938 c.c. introdotto con la legge n. 154/1992 non avendo questa
efficacia retroattiva.
Contro tale sentenza hanno proposto
ricorso per cassazione, congiuntamente, la Monti ed il Frigiola, deducendo otto
motivi illustrati da memoria.
Il Credito romagnolo s.p.a. e la
Banca popolare dell'Emilia-Romagna (già Banca popolare di Cesena) hanno
resistito con separati controricorsi, mentre gli altri intimati non si sono
costituiti.
Motivi
della decisione
1 - La sentenza impugnata, come si
è esposto nella parte narrativa, ha definito più cause riunite ai sensi
dell'art. 274 c.p.c.: quella di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal
Credito romagnolo proposta dai fideiussori e quelle proposte ai sensi dell'art.
100 l.
fall. da Vittoriana Monti nei confronti della predetta banca nonché della banca
popolare di Cesena.
Com'é noto (v. tra le altre, le
sentenze n. 2402/1995, n. 12703/1993, n. 5773/1991), il provvedimento di
riunione di più cause connesse lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi
e delle posizioni delle parti in ciascuno di essi; la sentenza che decide
simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve in
altrettante pronunzie quante sono le cause decise e ciascuna pronuncia è
soggetta al rispettivo regime di impugnazione.
Nel caso in esame, pertanto, in
relazione alla causa di opposizione a decreto ingiuntivo, deve ritenersi
applicabile l'ordinario termine di sessanta giorni previsto per il ricorso per
cassazione dall'art. 325 c.p.c.. In relazione alle cause proposte dalla Monti
ai sensi dell'art. 100 l.
fall. resta, invece, applicabile il termine di trenta giorni previsto dall'art.
99, 5° comma 1. fall. richiamato dall'ultimo comma del citato art. 100 (v. per
analoga fattispecie, Cass. n. 190/1979; Cass. n. 3016/1974) a nulla rilevando
l'avvenuta riunione delle cause e l'intervenuta chiusura del fallimento che non
ha determinato l'interruzione del processo né la cessazione della materia del
contendere nelle cause fallimentari come ha affermato la sentenza impugnata
(pagg. 22-24) con statuizioni non censurate e coperte da giudicato.
La riduzione dei termini c.d. brevi
di impugnazione prevista dal citato art. 99 l. fall. non resta esclusa a seguito della
sentenza della Corte costituzionale n. 152/1980 (che ha dichiarato
l'illegittimità della norma solo nella parte in cui faceva decorrere detti
termini dall'affissione della sentenza), né, contrariamente alla tesi
prospettata dai ricorrenti nella memoria ex art. 378 c.p.c., si pone in
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., trovando giustificazione nelle esigenze
di celerità del giudizio e non pregiudicando il diritto di difesa delle parti
(v. ordinanza della Corte cost. n. 271/1990 e, tra le altre, Cass. 6 luglio
1988, n. 4426).
Dalle indicate premesse deriva
l'inammissibilità del ricorso proposto da Vittoriana Monti nei confronti di
entrambe le banche nelle cause da lei promosse ai sensi dell'art. 100 l. fall.. Infatti, la
sentenza impugnata è stata notificata il 6 ed il 10 settembre 1993; il termine
di trenta giorni per l'impugnazione, tenendo conto della sospensione dei
termini processuali nel periodo feriale, cominciava a decorrere il 16 settembre
e scadeva il 15 ottobre successivo mentre il ricorso per cassazione è stato
notificato il 4 e il 5 novembre 1993, rispettivamente alla banca popolare
dell'Emilia Romagna ed al Credito romagnolo. In relazione a tali cause, come ha
ritenuto la corte di merito con statuizione non impugnata, il Frigiola era
privo di legittimazione, non avendo egli proposto la domanda ex art. 100 l. fall., di modo che il
ricorso da lui pure proposto con riguardo a tali cause è inammissibile anche
per difetto di legittimazione a proporre l'impugnazione.
Dall'inammissibilità del ricorso e
dalla formazione del giudicato nelle predette cause non deriva, contrariamente
all'assunto del Credito romagnolo, che l'accertamento del credito di detta
banca verso la Camelot
Mode (debitrice principale) faccia stato anche nella distinta
causa di opposizione al decreto ingiuntivo promossa dalla Monti e dal Frigiola
nei confronti della stessa banca nella veste di fideiussori.
Come si è sopra detto il
provvedimento di riunione lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi e
delle posizioni delle parti in ciascuno di essi.
Il giudicato postula l'identità dei
tre elementi costitutivi dell'azione ("personae", "petitum"
e "causa petendi") e la diversità anche di uno solo di tali elementi
impedisce la configurabilità del giudicato stesso.
Nella specie, con riferimento alla
posizione della Monti, deve rilevarsi la diversità dell'ultimo degli indicati
elementi poiché nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo ella ha agito
nella qualità di garante della debitrice poi fallita mentre nelle cause ex art.
100 l.
fall. ha agito quale creditrice ammessa al passivo e tali cause erano
proponibili solo in detta qualità, non essendo astrattamente configurabile
l'esercizio in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. di azioni spettanti al
curatore del fallimento, posto che questi non è legittimato ad impugnare i
crediti ammessi allo stato passivo (cfr. Cass. 27 luglio 1994 n. 7024).
Pertanto, il ricorso proposto dalla
Monti e dal Frigiola nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto
dal Credito romagnolo va esaminato in tutti i suoi motivi.
2 - Con il quinto motivo di detto
ricorso, da esaminarsi preliminarmente per ragioni di priorità
logico-giuridica, denunziandosi violazione degli artt. 1418 e 1355 c.c., si deduce
la nullità della fideiussione "omnibus" per indeterminabilità
dell'oggetto e per essere sottoposta a condizione meramente potestativa,
essendo le banche "libere, a loro discrezione, di concedere altri
finanziamenti al debitore principale, cosi obbligando l'ignaro
fideiussore".
Il motivo è infondato.
E' giurisprudenza costante di
questa corte suprema dalla quale non vi è motivo per discostarsi che, nel
vigore del testo originario dell'art. 1938 c.c., la fideiussione c. d.
"omnibus" deve ritenersi valida ed efficace stante la determinabilità
"per relationem" dell'oggetto del contratto sulla base degli atti di
normale esercizio dell'attività creditizia, sottratti al mero arbitrio della
banca (v. "ex plurimis" Cass. nn. 9719/1992 e 6656/1987).
3 - Strettamente collegato al
motivo esaminato è quello successivo con il quale si denunzia la violazione
delle disposizioni della l. 17 febbraio 1992 n. 154 (entrata in vigore nel
corso del giudizio di appello) e si sostiene che in particolare dovrebbe
trovare applicazione l'art. 10 che, riformulando l'art. 1938 c.c. esige la
previsione dell'importo massimo garantito dal fideiussore per le obbligazioni
future.
La tesi non può essere condivisa.
La norma citata introduce
innovazioni sostanziali che investono la validità del contratto fideiussorio e
delle sue clausole e, quindi, i fatti generatori dei diritti da esso derivanti.
Tale "jus superveniens",
pertanto, non opera rispetto a fideiussioni anteriori ancorché sia pendente
controversia, alla stregua del principio secondo cui la norma sostanziale, in
difetto di previsione di retroattività come nella specie, non può travolgere
diritti già sorti nel vigore della legge precedente mediante una nuova
disciplina in ordine ai requisiti di validità del titolo costitutivo (v. sentenze
nn. 3291/93, 2115 e 3764/94, n. 4117/95).
Per lo stesso ordine di
considerazioni non possono trovare applicazione nella presente controversia la
norma dettata dall'art. 4, 3° comma della citata legge n. 154/92 (secondo il
quale le clausole contrattuali di rinvio agli usi solo nulle e si considerano
non apposte) nonché quella dell'art. 7 della legge stessa (che disciplina la
decorrenza delle valute). Invero, i requisiti di validità dei contratti (o
delle clausole contrattuali) sono regolati dalla legge del tempo in cui essi
vengono conclusi.
4 - Con il primo motivo,
denunziando violazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 112 c.p.c. nonché vizio
di motivazione, i ricorrenti addebitano alla corte territoriale: a) di avere
errato non ritenere provata la pretesa della banca poiché l'efficacia
probatoria dei "saldaconti" di cui all'art. 102 della legge bancaria
di cui al r.d (NDR: così nel testo). 7 marzo 1938 n. 141 è limitata al
procedimento per ingiunzione e non si estende al giudizio di cognizione; b) di avere
qualificato erroneamente i saldaconti come estratti-conto; c) di avere omesso
di pronunciare sull'eccezione degli appellanti relativa alla mancata prova dei
crediti.
Il motivo non merita accoglimento.
La corte territoriale ha ritenuto
provata la pretesa della banca nei confronti della debitrice principale e dei
fideiussori sulla base degli estratti conto prodotti nel corso del giudizio di
opposizione al decreto ingiuntivo e non ha fatto alcun riferimento al
saldaconto previsto dalla citata norma della legge bancaria peraltro solo per
alcuni tipi di istituti di credito (Banca d'Italia, istituti di diritto
pubblico, banche d'interesse nazionale, casse di risparmio) tra i quali non
rientra la predetta banca.
Il richiamo fatto a tale norma non
appare quindi pertinente e di conseguenza non assume alcun rilievo nel caso di
specie il principio affermato dalla sentenza delle sezioni unite di questa
corte n. 6707/94, richiamata dai ricorrenti secondo il quale l'efficacia
probatoria del saldaconto non si estende al procedimento di cognizione.
Poiché la corte di merito si è
riferita solo agli estratti conto di cui all'art. 1832 c.c. periodicamente
inviati alla debitrice principale, è priva di fondamento la censura sopra
indicata sub b).
Né sussiste il vizio di omessa
pronuncia sull'eccezione degli appellanti di mancanza di prova del credito
della banca dal momento che la stessa corte ha respinto tale eccezione,
ritenendo provato il credito.
5 - Col secondo motivo i ricorrenti
denunziano: "violazione degli artt. 1284 e 1346 c.c. nonché mancata
applicazione dell'art. 1418, 2° comma c.c. - violazione degli artt. 2697 c.c,
112 e 187 c.p.c. come richiamati dall'art. 359 c.p.c. - vizio di motivazione
per mancato esame e mancato apprezzamento delle risultanze peritali, cioé di un
punto decisivo della controversia".
Al riguardo sostengono che la corte
di merito avrebbe errato nel riconoscere come validi gli interessi applicati
dalla banca in misura superiore a quella legale in quanto essi andavano
pattuiti per iscritto e specificamente accettati, trattandosi di clausola
vessatoria e, comunque, non potevano essere riferiti genericamente a quelli
usuali perché sulla piazza di Rimini non esistevano tassi uniformi di interessi
praticati dalle banche, come essi ricorrenti avevano chiesto di provare
formulando specifiche richieste e come, del resto, si desumeva dalle risultanze
della consulenza tecnica esperita in primo grado (nelle cause ex art. 100 l. fall.). Il motivo non
merita accoglimento. Rileva
anzitutto il collegio che è giurisprudenza costante di questa corte (v., tra le
altre, sentenza n. 9839/92) che la clausola con la quale viene pattuita la
corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale non rientra tra
le clausole che debbano essere specificamente approvate per iscritto a norma
dell'art. 1341 c.c..
Quanto all'indicazione per "relationem" del
tasso pattuito ("condizioni praticate usualmente dalle banche su
piazza") è pure da rilevare che è giurisprudenza consolidata di questa
corte, dalla quale non vi è motivo per discostarsi, che l'obbligo della forma
scritta "ad substantiam", imposto dall'art. 1284 u.c.c.c. non
comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il
tasso di interesse, ma, in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del
contratto deve essere determinato o determinabile, il detto obbligo è da
ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti
indicano criteri oggettivi che consentono la quantificazione del tasso di
interesse, ancorché ciò avvenga "per relationem" mediante il richiamo
ad elementi estranei al contratto come quando in un contratto di conto corrente
bancario si faccia riferimento, al predetto fine, alle condizioni praticate
usualmente dalle aziende di credito sulla piazza (v. sentenze nn. 2765/92,
4617/90, 2644/89, 9518/87, 1112/84).
Siffatto tipo di clausola non si riferisce ad un uso
normativo ma vale ad ancorare la misura degli interessi a fatti oggettivi,
certi e di agevole riscontro (essendo i tassi medi pubblicati dal bollettino
della Banca d'Italia e costituendo il tasso ufficiale di sconto un preciso
punto di riferimento per tutti gli altri tassi).
I tassi che le aziende di credito praticano di solito
sono fissati con criteri obiettivi no influenzabili dal singolo istituto
bancario.
Il correntista, pertanto, al momento della stipulazione
del contratto, è in grado di sapere, secondo l'ordinaria diligenza, che gli
interessi sono suscettivi di variazione nel tempo ed è in grado di verificare,
nel corso del rapporto, l'andamento degli stessi, adeguando di conseguenza il
proprio comportamento.
Nella specie, in particolare, come
risulta dalla sentenza impugnata (pag. 29), il contratto di conto corrente
conteneva una clausola - specificamente approvata per iscritto - che prevedeva
la possibilità di modificare le condizioni praticate anche con semplici avvisi
nei locali dell'istituto né gli stessi ricorrenti assumono che tali avvisi non
siano stati dati durante il pluriennale rapporto intercorso con la banca.
Non vertendosi in ipotesi di uso
normativo, la mancanza di una totale uniformità o precisa corrispondenza tra i
tassi di interesse praticati dalle varie banche sulla piazza di Rimini non è di
per sé idonea ad incidere sulla validità della clausola contrattuale di
determinazione degli interessi ai sensi dell'art. 1284 u.c.c.c..
La corte di merito ha mostrato
conseguentemente ed esattamente di ritenere irrilevanti a tal fine le istanze
istruttorie avanzate dagli appellanti e le risultanze della consulenza tecnica
d'ufficio in ordine all'inesistenza di coincidenza tra i tassi praticati dalle
banche in Rimini e non è, pertanto, incorsa nella denunciata violazione
dell'art. 112 c.p.c. ed in vizio di motivazione su punto decisivo.
Neppure sussiste la dedotta
violazione dell'art. 2697 c.c.. Nella sentenza impugnata l'esistenza del patto
di interessi ultralegali è stata affermata in base alla sottoscrizione del
modulo contrattuale che conteneva la clausola suddetta.
La c.d. approvazione tacita del
conto non è stata valutata dalla stessa sentenza nel senso che potesse supplire
alla mancanza dell'avvenuta osservanza dei requisiti formali richiesti dalla
legge "ad substantiam", bensì in funzione della corretta
applicazione, da parte della banca, dei tassi vigenti nei periodi cui si
riferivano gli estratti-conto non contestati. E l'argomentazione deve essere
condivisa perché, una volta accertata l'esistenza di patto scritto circa la
corresponsione degli interessi bancari, l'approvazione ripetuta di estratti
conto può valere, per la sua natura confessoria, a far ritenere che il concreto
ammontare degli interessi computati dalla banca sia avvenuto in conformità del
criterio dettato in via preventiva con la clausola (cfr. Cass. 1112/1984 in
motivazione).
6 - Con il terzo motivo i
ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere ritenuto infondate le
doglianze attinenti allo "scarto di valute" (anticipazioni di
addebiti o posticipazioni di accrediti sul conto corrente) e denunziano al
riguardo: a) violazione degli artt. 1173, 1175, 1321, 1326, 1362, 1375 c.c.; b)
mancata applicazione degli artt. 2043 e 2058 c.c.; c) mancata applicazione
dell'art. 2041 c.c. in relazione all'art. 112 c.p.c..
Il motivo non merita accoglimento.
In relazione alla censura sub a)
deve considerarsi che la corte territoriale ha affermato che tra le parti del
rapporto di conto corrente bancario erano intervenuti degli accordi in ordine
"agli scarti di valuta" nel senso risultante dagli estratti-conto
inviati dalla banca alla Camelot Mode non essendo mai state mosse contestazioni
al riguardo nel corso del rapporto pluriennale intercorso tra le stesse parti.
I ricorrenti, attraverso la
deduzione - peraltro generica - di violazione di norme di legge, sostengono in
realtà l'inesistenza di qualsiasi pattuizione al riguardo in contrasto con
l'apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito che non è censurabile in
questa sede non essendo stato criticato sotto il profilo del vizio di
motivazione.
Il richiamo alle norme
sull'illecito aquiliano contenuto nella censura sub b) non è pertinente.
Invero, la contestazione in ordine a determinate partite del conto corrente non
può configurare un illecito extracontrattuale ma inequivocamente, in ipotesi,
un inadempimento al relativo contratto.
Per quanto concerne, infine, la
doglianza sub c) si osserva che non sussiste la dedotta violazione dell'art.
112 c.p.c. poiché l'azione di indebito arricchimento, non essendo stata
proposta specificamente, non poteva essere esaminata d'ufficio dal giudice.
La specificità del titolo di azione
di indebito arricchimento, infatti, fa sì che la questione della sua
individuazione esorbiti dai limiti della mera qualificazione della domanda
originariamente formulata ed esclude che essa azione si possa ritenere proposta
per implicito in una domanda fondata su un altro titolo (v. tra le altre, Cass.
n. 6612/92, n. 1738/83). 7 - Anche il quarto motivo di ricorso è articolato in
diverse critiche al giudizio espresso nella sentenza impugnata in ordine
all'intervenuta approvazione tacita degli estratti conto.
Con la prima censura i ricorrenti
deducono che la corte di merito avrebbe errato nel ritenere che le
contestazioni da loro mosse non fossero specifiche e sarebbe, pertanto, incorsa
nella violazione o falsa interpretazione dell'art. 1832 c.c., dando luogo a vizio
logico-giuridico della motivazione.
La censura non merita accoglimento.
La corte territoriale, come si è
già detto, ha rilevato che gli estratti-conto inviati dalla banca alla società
Camelot nel corso del pluriennale rapporto di conto corrente non erano mai
stati contestati ed ha perciò ritenuto che gli stessi rispecchiassero gli
accordi intervenuti tra le parti richiamando al riguardo l'art. 1832 c.c.
"laddove stabilisce che l'estratto conto si intende approvato se non è
contestato specificamente nel termine pattuito che nel caso in esame è appunto
di 40 giorni dal ricevimento".
Non sussiste, pertanto, la dedotta
violazione di legge né il vizio di motivazione posto che, come ha affermato
ripetutamente questa suprema corte, le risultanze dell'estratto di conto
corrente possono essere disattese solo in presenza di tempestive contestazioni
specifiche dirette contro determinate annotazioni (v. tra le altre, sentenze
nn. 2765/92, 3176/88, 5409/83).
Con la seconda censura si addebita
alla corte d'appello di avere affermato che "i fideiussori non sono
autorizzati a sollevare contestazioni relative alla definitività" degli
estratti conto mentre, da un lato, l'art. 1945 c.c. consente specificamente al
fideiussore di proporre tutte le eccezioni che sarebbero consentite al debitore
principale e dall'altro che l'art. 2900 c.c. lo consente genericamente secondo
i principi generali in materia di surroga.
Anche questa censura è infondata.
La corte territoriale ha affermato che i fideiussori non potevano sollevare
alcuna contestazione in ordine alla definitività degli estratti conto in virtù
di specifica clausola contrattuale (lettera "g") e tale accertamento
di fatto non è stato censurato né e censurabile in questa sede.
D'altra parte deve osservarsi che
la definitività degli estratti conto non tempestivamente contestati dal
correntista vale anche nei confronti del fideiussore: questi, pertanto, se
convenuto per il pagamento del saldo non può sollevare alcuna contestazione in
merito (v., tra le altre, Cass. n. 1101/95, n. 7958/90).
Con la terza censura si deduce che
la sentenza impugnata avrebbe male applicato l'art. 1832 c.c. anche ai
rendiconti periodici ed avrebbe violato la stessa norma nel ritenere che
l'addebito degli "scarti di valuta" non rientrasse nell'ipotesi prevista
dal secondo comma e "nel caso della sempre ammissibile contestazione della
validità degli atti giuridici dai quali le poste traggano il proprio
fondamento".
La censura non merita accoglimento
sotto entrambi i profili. Quanto al primo è sufficiente richiamare il principio
consolidato nella più recente giurisprudenza di questa corte (sentenze n.
4310/77, n. 1112/84) secondo il quale, si sensi dell'art. 1832 c.c.
"estratto conto" è anche quello che concerne una delle chiusure che
periodicamente intercorrono durante le svolgimento del rapporto di conto
corrente che includa tutte le voci a credito e a debito ricadenti nel periodo
considerato.
In ordine al secondo profilo deve
osservarsi che non è concludente il richiamo agli errori di scritturazione, di
calcolo, per omissioni o duplicazioni di cui all'art. 1832, 2° comma c.c. né è
pertinente il richiamo al principio secondo il quale l'approvazione del conto
non estende la sua efficacia alla validità del titolo giuridico in base al
quale l'annotazione stessa è stata effettuata.
Infatti, in relazione agli
"scarti di valuta" la sentenza impugnata ha ritenuto, da un lato, con
accertamento di fatto incensurabile in questa sede, che le
"datazioni" delle operazioni erano concordate tra le parti e,
dall'altro lato, ha esattamente considerato che la questione relativa non
concerneva contestazioni riguardanti la mancanza di un titolo giuridico per i
singoli accreditamenti o addebitamenti nel conto corrente, ma si risolveva in
una questione di fatto attinente alla decorrenza delle varie operazioni sicché
rientrava tra quelle per le quali operava l'efficacia preclusiva
dell'approvazione degli estratti conto.
L'ultimo profilo di censura, con il
quale i ricorrenti deducono violazione dell'art. 2697 c.c. sul rilievo che la
banca non avrebbe fornito la prova dell'invio per mezzo di raccomandata
dell'estratto conto finale di chiusura del rapporto, è inammissibile perché
riguarda una questione nuova (coinvolgente valutazione delle risultanze
processuali) non dedotta nel giudizio d'appello e, pertanto, inammissibile in
questa sede.
8 - Col settimo motivo i ricorrenti
denunziano violazione degli artt. 2384, 83 e 115 c.p.c. e sostengono che la
corte di merito avrebbe errato nel ritenere, sulla base di documenti peraltro
tardivamente prodotti, che i funzionari della banca che avevano firmato la
procura per il procedimento monitorio avessero il potere di rappresentanza.
Il motivo non merita accoglimento
per l'assorbente considerazione che il preteso difetto di legittimazione
processuale è stato comunque sanato con effetto retroattivo dalla costituzione
nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo del legale rappresentante
della banca (consigliere delegato dott.
Cirri) come risulta dal ricorso per cassazione (pag. 34). E' noto, infatti,(v.
per tutte: Cass. n. 1186/87) che qualora la persona giuridica sia stata
presente nel processo per mezzo di persona fisica non abilitata a
rappresentarla, il difetto di legittimazione processuale è sanato con effetto
retroattivo, rispetto alle eventuali nullità da esso dipendenti, mediante la
costituzione, in qualsiasi stato e grado del processo (sempreché il giudice non
abbia rilevato quel difetto traendone le debite conseguenze in ordine
all'inammissibilità della domanda o dell'impugnazione), del legale
rappresentante della persona giuridica stessa il quale ratifichi espressamente
o tacitamente (come è avvenuto nella specie) la condotta precedente a tale
costituzione.
9 - Con l'ottavo ed ultimo motivo i
ricorrenti denunziando violazione degli artt. 1181, 1175, 1208, 1220, 1223 e
643 c.p.c. nonché vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per
avere ritenuto giustificato il rifiuto, da parte della banca, dell'offerta
della somma di L. 26.241.557 effettuata in un primo tempo in modo informale e
poi in forma reale dopò la notifica del decreto ingiuntivo. Secondo i
ricorrenti, invece, la banca avrebbe dovuto accettare il pagamento "a
copertura della pura sorte", facendo riserva di azione per il recupero
delle spese della ingiunzione già richiesta, costituendo tali spese
un'obbligazione distinta rispetto a quella concernente il debito.
Il motivo è infondato.
La corte d'appello (pagg. 24-26
della sentenza) ha rilevato che le offerte fatte dal Frigiola erano incomplete
perché non comprendevano anche gli interessi e le spese e ha ritenuto
giustificato, ai sensi dell'art. 1181 c.c., il rifiuto del Credito romagnolo,
considerando che l'offerta deve comprendere oltre la somma dovuta a titolo di
capitale, anche gli interessi e le spese comprese quelle già affrontate dal
creditore per il recupero del credito e che i debiti per interessi e spese non
sono debiti distinti rispetto al debito principale ma accessori di
quest'ultimo.
L'apprezzamento di fatto in ordine
alla incompletezza delle offerte è sorretto da adeguata e logica motivazione,
né può dubitarsi dell'esattezza dell'affermazione dell'accessorietà del debito
per interessi e spese rispetto al debito principale, posto che ai sensi
dell'art. 1208 n. 3 c.c., affinché l'offerta sia valida, è necessario che essa
"comprenda la totalità delle somme o delle cose dovute, dei frutti, degli
interessi e delle spese liquide e una somma per le spese non liquide, con
riserva di supplemento se è necessario". Non vertendosi in ipotesi di
debiti distinti non giova ai ricorrenti il richiamo fatto alla pronuncia di
questa corte n. 1034 del 1967 la quale ha affermato che il principio sancito
dall'art. 1181 c.c. - secondo cui il creditore può rifiutare un adempimento
parziale anche se la prestazione è divisibile (salvo che la legge o gli usi
stabiliscano diversamente) - non è applicabile allorché si tratti di debiti
distinti.
In conclusione il ricorso proposto
nelle cause promosse dalla Monti ai sensi dell'art. 100 l. fall. deve essere
dichiarato inammissibile, mentre va rigettato quello proposto nei confronti del
Credito romagnolo nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo. Ricorrono
giusti motivi per compensare interamente tra le parti costituite le spese di
questa fase di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il
ricorso proposto nei confronti della Banca popolare dell'Emilia-Romagna e del
Credito romagnolo nelle cause di impugnazione dello stato passivo. Rigetta il
ricorso nei confronti del Credito romagnolo nella causa di opposizione a
decreto ingiuntivo. Compensa interamente tra le parti costituite le spese del
giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre
1995.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 18
MAGGIO 1996
CASS. CIV., SEZ. III, 25/08/1992, N.9839
L'obbligo della forma scritta ad
substantiam per la pattuizione di interessi eccedenti la misura legale si deve
ritenere ugualmente soddisfatto quando nel documento contrattuale le parti
abbiano indicato criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta
quantificazione del tasso d'interesse, ancorché ciò avvenga per relationem
mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso (nella specie, le
clausole negoziali fissavano gli interessi dei conti correnti riferendosi alle
condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza).
La clausola con
cui viene pattuita la corresponsione di interessi in misura superiore a quella
legale non rientra tra le clausole (c.d. vessatorie) che debbono essere
specificamente approvate per iscritto.
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE
III CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.
Magistrati:
Dott. Franco
BILE Presidente
" Giorgio
CHERUBINI Consigliere
" Lorenzo
PITTÀ "
" Francesco
SOMMELLA "
" Vito
GIUSTINIANI Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
Ric. N. 12598/88
ATTUCCI ENRICO - ATTUCCI GIOVANNI e
MARINARI LORENZA elettivamente domiciliati in Roma Piazza Del Fante n. 2 c/o lo
studio dell'Avv. Paolo Napoletano rappresentato e difeso dall'Avv. Graziella
Tani Bindi giusta procura a margine del ricorso.
Ricorrente
contro
BANCA NAZIONALE AGRICOLTURA.
Intimata
Ric. N. 852/89
BANCA NAZIONALE AGRICOLTURA S.p.A.
con sede in Roma - Via Salaria n. 231 in persona dei legali rappresentanti - Avv.
Luca Ferramosca Condirettore Centrale e Dott. Lucio Sordini Direttore di Sede
Principale elettivamente domiciliato in Roma - Via G.G. Belli n. 27 c/o lo
studio dell'Avv. Massimo Morgia che lo rappresenta e lo difende giusta procura
a margine del controricorso e ricorso incidentale.
Controricorrente
e ricorrente incidentale
contro
ATTUCCI ENRICO - ATTUCCI GIOVANNI e
MARINARI LORENZA.
Intimati
Visto il ricorso avverso la
sentenza n. 1437 della Corte di Appello di Roma del 13.4.88/8.6.88 (R.G.
565/86).
Udito il Consigliere Relatore Dr.
Vito Giustiniani nella pubblica udienza del 28.1.92.
E' comparso l'avv. M. Morgia che ha
chiesto l'accoglimento del ricorso incidentale ed il rigetto del principale.
Sentito il P.M. in persona del
Sost. Proc. Gen. Dr. Leo che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Svolgimento
del processo
Con decreto ingiuntivo,
emesso il 23.2.83 il Presidente del Tribunale di Roma ingiungeva alla AR.CON.
S.p.A. debitrice principale ed ai sigg. Attucci Enrico, Attucci Giovanni,
Marinari Lorenza, Benvenuti Alessandro e Ghia Zarina, quali avvallanti e
fideiussori, di pagare in solido tra loro e senza dilazione, in favore della
Banca Nazionale dell'Agricoltura la somma di L. 21.246.639 con gli interessi al
tasso convenzionale del 21,25%, pari all'importo di due effetti cambiari,
scaduti, emessi dalla ARCON S.p.A. quale mezzo tecnico di smobilizzo dello
scoperto del C/C 14297/U, nonché del saldo debitore dello stesso conto,
intrattenuto dalla Società predetta presso l'Agenzia EUR di Roma della Banca
istante.
Con altro decreto
in data 24.2.83 il Presidente del Tribunale di Roma ingiungeva alla S.p.A.
Rolling, quale debitrice principale, nonché ai predetti Attucci Enrico, Attucci
Giovanni, Marinari Lorenza, Benvenuti Alessandro e Ghia Zarina, quali
avvallanti e fideiussori, di pagare in solido e (limitatamente alla somma di L.
20.000.000, quanto alla debitrice principale) senza dilazione, in favore della
Banca Nazionale dell'Agricoltura, la somma di L. 248.257.343, risultante,
quanto a L. 20.000.000 dall'importo di tre effetti cambiari scaduti emessi
dalla Rolling S.p.A., e, quanto al resto, del saldo debitore del C/C 12846/U
intrattenuto dalla società predetta presso l'Agenzia EUR di Roma della Banca
istante.
Avverso i decreti
proponevano opposizione con distinti atti, Marinari Lorenza, Attucci Giovanni e
Attucci Enrico, i quali tutti eccepivano: 1) la nullità di inefficacia del
contratto di fideiussione a causa della mancata approvazione specifica ai sensi
degli art. 1341 e 1342 Cod. Civ., delle clausole - tipiche della c.d.
"fideiussioni omnibus" - con le quali essi opponenti avevano prestato
garanzia; 2) l'insussistenza di una obbligazione di pagamento di interessi in
misura extra-legale per difetto di pattuizione scritta.
Il solo Attucci
Giovanni nell'opposizione al decreto n. 2673 eccepiva, altresì, in via
preliminare la sopravvenuta inefficacia del decreto stesso (notificato la prima
volta il 29.4.83) per il decreto del termine di cui all'art. 644 cpc, da
ritenersi non sanata dalla successiva notifica del decreto in data 29/6/83,
disposta dal Presidente del Tribunale ex art. 647 cpc. La Banca Nazionale
dell'Agricoltura si costituiva e contestava le opposizioni.
Quanto
all'eccezione dell'Attucci Giovanni deduceva che il decreto doveva ritenersi
notificato nei termini per la compiuta giacenza del plico. Nel merito sosteneva
la piena validità del contratto di fideiussione.
Con sentenza
4/7-2/11/1985 il Tribunale di Roma rigettava le opposizioni proposte;
dichiarava l'inefficacia sopravvenuta del decreto n. 2673/83 del 24.2.83 nei
confronti di Attucci Giovanni e - giudicando nel merito - lo condannava a
pagare alla B.N.A. la somma di L. 248.257.343, con gli interessi nella misura
del 26,75% dal 29.6.83 al saldo.
Sull'appello di
parte degli opponenti e della B.N.A. la Corte d'Appello di Roma riuniva i
gravami e li rigettava. Condannava in solido Attucci Enrico, Attucci Giovanni e
Marinari Lorenza alle spese del grado, in ragione della metà, in favore della
B.N.A..
Riteneva la Corte
che il motivo di gravame afferente il rito era privo di fondamento, attesa la
nullità della notifica e quindi l'inefficacia del decreto ingiuntivo nei
confronti di Attucci Giovanni.
Avendo poi la
B.N.A. invocato anche la decisione sul merito nel giudizio di cognizione
instauratosi ed avendo l'Attucci Giovanni accettato il contraddittorio,
impeccabile si palesava la decisione del Tribunale sul punto.
Ribadiva, quindi,
la Corte - pronunciando sull'appello degli stessi Attucci e di Marinari Lorenza
che non vi era nullità ed inefficacia dei contratti di fideiussione, poiché
l'oggetto dell'obbligazione accessoria era determinabile per relationem; che,
al riguardo, sterile si palesava la critica del richiamo fatto dal Tribunale
all'art. 1349 c.c., con riferimento alla rimessione al terzo della
determinazione dell'oggetto della prestazione. La non determinatezza dell'oggetto
non rendeva poi il patto di fideiussione tale da essere ricondotto in una delle
previsioni di cui all'art. 1341 c.c..
Propongono
ricorso in cassazione gli Attucci e la Marinari con due motivi. Resiste la
B.N.A. con controricorso e propone ricorso incidentale con un motivo,
illustrato da memoria.
Motivi
della decisione
Preliminarmente i
due ricorsi vanno riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., trattandosi di
impugnazioni proposte separatamente avverso la stessa sentenza.
Con il primo
motivo i ricorrenti denunziano: "Violazione, falsa e/o omessa applicazione
degli artt. 1325, 1346, 1349, 1355, 1418, 1938, 1941 cod. civ. e in genere dei
principi sulla determinatezza e determinabilità dell'oggetto del contratto,
nonché carenza di motivazione".
Assumono i
ricorrenti Attucci Enrico, Attucci Giovanni e Marinari Lorenza che la
fideiussione cosiddetta omnibus prestata a garanzia di qualsiasi obbligazione
presente o futura del debitore principale, non contenendo alcuna indicazione
dei criteri o dei limiti, dai quali dedurre la natura e l'entità delle
obbligazioni del debitore al momento della stipulazione della garanzia, è nulla
per assoluta indeterminabilità dell'oggetto contrattuale.
Né - ad avviso
dei ricorrenti - un generico rinvio a tutte le obbligazioni che sorgeranno a
carico del debitore garantito può costituire un criterio di determinazione
"per relationem" dell'oggetto della garanzia, trattandosi di un
rinvio in bianco a debiti futuri, laddove la determinabilità del debito e del
rischio devono essere valutabili al presente, al momento, cioè, della stipula
della garanzia e non per il futuro quando la garanzia opererà.
Rilevano che,
nella specie, la fideiussione garantiva: "qualsiasi altra obbligazione che
il debitore principale si trovasse in qualsiasi momento ad avere verso codesta
Banca in relazione ad operazioni consentite a terzi per qualsivoglia titolo o
causa" e deducono che tutto ciò consente alla banca di concludere, a suo
arbitrio, i negozi della più varia ed insospettata indole, per un ammontare non
determinato e non determinabile, sicché al garante viene tolto, fin
dall'inizio, il calcolo ed il controllo degli oneri che ne derivano a suo
carico.
Né - assumono -
la determinazione dell'oggetto del contratto può ritenersi affidata ex art.
1349 c.c. ad un terzo, considerandosi come terzo il debitore garantito, atteso
che il debitore non può ritenersi terzo rispetto al rapporto dal quale viene a
dipendere il suo contratto bancario. Di tal che egli - lungi dall'essere un
terzo arbitratore - è interessato a coinvolgere il fideiussore nei propri
indebitamenti con la
banca. Consegue - ad avviso dei ricorrenti - che il contratto
di fideiussione omnibus - quale contratto atipico - non coincidente col
contratto tipico di fideiussione ex art. 1936 e segg. c.c., è nullo non
soltanto per la indeterminatezza dell'oggetto, ma anche per la illiceità della
causa (apprezzabile solo nei contratti atipici) e perché contrario ai principi
di correttezza e buona fede in materia di obbligazioni.
La censura non ha
fondamento. È giurisprudenza costante di questa Corte Suprema, dalla quale non
vi è motivo di discostarsi (Cass. n. 4783 del 1984; Cass. n. 6656 del 1987;
Cass. n. 3362 del 1989; Cass. 3386 del 1989; Cass. n. 2790 del 1991) che la
fideiussione cosiddetta omnibus va inquadrata nello schema contrattuale della
fideiussione e non è un contratto atipico a sé stante; che la garanzia
personale, prestata in favore di un istituto di credito per tutte le
obbligazioni derivanti da future operazioni bancarie con un terzo (al pari
delle clausole del relativo contratto, con cui il garante dispensi l'istituto
medesimo dall'onere di conseguire specifica autorizzazione per nuove
concessioni di credito in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali del
debitore principale) deve ritenersi valida ed efficace, in considerazione della
determinabilità per relationem dell'oggetto della fideiussione, sulla base di
atti di normale esercizio dell'attività creditizia, sottratti, cioè, al mero
arbitrio della banca, nonché in considerazione della disponibilità dei diritti
del fideiussore, in ordine alla valutazione dell'opportunità dei finanziamenti
in presenza di mutate situazioni economiche del debitore principale. È dato,
peraltro, rilevare che, nel caso di specie, la fideiussione è stata prestata in
base a clausole ampie, con ogni dispensa, sicché soltanto nel caso la banca
avesse agito, violando i principi generali della correttezza e della buona
fede, i rilievi dei ricorrenti avrebbero potuto avere rilevanza.
Sennonché i
ricorrenti, nel caso di specie, non contestano alla banca la violazione
concreta dei menzionati principi, bensì, in astratto, la validità stessa della
fideiussione omnibus per l'indeterminatezza dell'oggetto dell'obbligazione al
momento della stipula del contratto e la conseguente illegittimità che la
determinabilità dell'oggetto venga, in sostanza, rimessa poi allo stesso
debitore garantito, che non è un terzo, ma una delle parti del contratto, che
definiscono trilatero.
Tutte questioni
già esaminate e risolte nelle ricordate sentenze n. 3362 e n. 3386 del 1989 di
questa Corte, per cui superfluo si palesa il riesporne i principi, ormai
consolidati. In particolare, quanto al rilievo che il debito garantito
dev'essere determinato al presente, e non al futuro, in base a parametro di
normale prevedibilità, si è replicato nelle menzionate sentenze, che, posta la
distinzione fra oggetto del negozio e oggetto del rapporto, la prefigurazione,
nel negozio, del bene futuro che, alla scadenza, rappresenterà l'oggetto
concreto del rapporto di garanzia, si realizza giuridicamente con
l'indicazione, nello stesso contesto dell'atto, del procedimento attuale,
idoneo alla determinazione del requisito mancante; e che, del resto, la
condizione in cui si trovano i contraenti di poter stabilire soltanto ex post
l'effettivo ammontare della somma dovuta dal debitore principale, e, quindi,
l'effettiva dimensione del rischio assunto dal garante, è un inconveniente
comune a tutti i sistemi imperniati su un meccanismo esterno di determinazione
dell'oggetto della prestazione (clausola oro, numeri indice ecc.) sistemi la
cui applicazione conduce a risultati talora ben diversi da quelli prevedibili
al tempo della conclusione del contratto e ciononostante non vi è dubbio che
tali contrasti siano validi.
In ordine al
rilievo che dall'attività del terzo nella determinazione dell'oggetto
contrattuale non si possa trarre argomento per stabilire un criterio di
validità della fideiussione omnibus (art. 1349 c.c.), è dato rilevare che se è
vero che (Cass. n. 4738 del 1984 e Cass. n. 3362 del 1989) la disposizione
dell'art. 1349 c.c. non è invocabile, perché essa riguarda l'affidamento a un
terzo estraneo al compito di determinare la prestazione dedotta in contratto -
il che non si attaglia agli elementi caratteristici della fideiussione omnibus
- è pur vero che, nel caso di specie, il problema non si pone, in quanto la
Corte d'Appello, nella motivazione della sentenza impugnata, non ha posto a
fondamento della decisione la norma avanti indicata, bensì il principio della
determinabilità "per relationem" dell'obbligazione del fideiussore
nella specchiatura affermata dalla giurisprudenza di questa Corte, come avanti
menzionata. È poi appena il caso di rilevare che le modifiche apportate
dall'art. 10 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 agli artt. 1938 e 1956 cod.
civ., promulgata nel corso della pubblicazione della presente sentenza, non
hanno influenza alcuna su questa decisione, in quanto il citato art. 10 avrà
efficacia, per volontà del legislatore - giusta il successivo art. 11 -
"trascorsi centoventi giorni" dalla data di entrata in vigore della
legge, questa pubblicata sulla G.U. n. 45 del 24 febbraio 1992.
Pertanto, nel
caso in esame, va affermato che la natura delle obbligazioni del debitore
principale, anche dipendenti da rapporti di terzi con la banca, è individuabile
sin dall'origine, dovendo le obbligazioni essere contenute, per norma di legge
e di contratto, nell'ambito delle operazioni bancarie comunemente intese,
sicché per la quantificazione in futuro del debito è irrilevante la preventiva
individuazione, nel momento della stipula del contratto, dell'operazione
bancaria da effettuarsi successivamente (sempreché - si intende - l'operazione
sia lecita), anche perché il fideiussore, nel momento della stipula, è libero
di assumere l'impegno di garanzia a seguito di una consapevole valutazione
della capacità, serietà ed onestà della persona da garantire, con la
conseguenza che eventuali leggerezze non possono non ricadere su sé stesso.
Il primo motivo
di ricorso va, dunque, respinto.
Con il secondo
motivo i ricorrenti lamentano: "Violazione degli artt. 1284, terzo comma,
e 1341, secondo comma, cod. civ. ed omessa, insufficiente motivazione (art. 360
c.p.c.)". Sostengono che la Corte ha errato nel riconoscere come validi
gli interessi applicati dalla banca in misura superiore alla legale, in quanto,
trattandosi di clausola vessatoria, essi andavano pattuiti per iscritto ed
accettati espressamente; comunque, non potevano essere riferiti genericamente a
quelli correnti sulla "piazza".
La censura, come
proposta, prospetta questioni nuove.
In primo grado, i
ricorrenti avevano sostenuto, per la legittimità della richiesta del creditore,
la necessità di un proprio patto scritto derogativo della misura legale; patto
che assumevano - invece, mancasse. In grado d'appello hanno sostenuto che la
questione era assorbita dalla nullità complessa del contratto di fideiussione.
Ora invocano l'obbligo - per quanto attiene agli interessi ultralegali -
dell'approvazione specifica per iscritto ai sensi dell'art. 1341, secondo
comma, cod. civ. e l'illegittimità del riferimento generico alla misura
praticata sulla piazza.
Rileva il Collegio che - a parte
la novità della questione come proposta - è giurisprudenza costante di questa
Corte che la clausola con la quale viene pattuita la corresponsione di
interessi in misura superiore a quella legale non rientra fra le clausole che
debbono essere specificamente approvate per iscritto a norma dell'art. 1341
c.c. (Cass. 7 luglio 1976, n. 2546; Cass. 13 febbraio 1968, n. 487).
Quanto all'indicazione "per
relationem" del tasso pattuito (condizioni praticate su piazza) è da
rilevare che è giurisprudenza di questa Corte che: "L'obbligo della forma
scritta ad substantiam, imposto dall'art. 1284, ultimo comma, cod. civ. per la
pattuizione di interessi eccedenti la misura legale, non comporta che il
documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il tasso di
interesse, ma, in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del contratto
deve essere determinato o determinabile, il detto obbligo è da ritenersi
ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indicano
criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta quantificazione del tasso
di interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, mediante il richiamo ad
elementi estranei al documento stesso, come quando, in un contratto di
conto corrente bancario, si faccia riferimento, al predetto fine, alle
condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, giacché
tali condizioni vengono fissate su scala nazionale con accordi di cartello, per
modo che il rinvio al tasso usuale vale ad ancorare la misura degli interessi a
fatti oggettivi, erti e di agevole riscontro, non influenzabili dal singolo
istituto bancario" (Cass. 12 novembre 1987, n. 8335). Anche nel caso in
esame, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, la
riferibilità agli usi di piazza - per quanto concerne gli interessi - contenuta
nelle clausole contrattuali è, quindi, di eguale riscontro e perciò
determinabile.
Ne deriva che
correttamente la decisione impugnata ha ritenuto la piena validità del patto
relativo agli interessi, attesa l'autonomia negoziale delle parti al riguardo,
onde il rigetto anche del secondo motivo di ricorso.
Passando
all'esame del ricorso incidentale, va osservato che la B.N.A. denunzia:
"Violazione dell'art. 92, secondo comma, c.p.c., in relazione all'art.
360, n. 3, c.p.c.".
Assume che la
Corte d'Appello non ha giustificato la disposta parziale compensazione delle
spese processuali.
La censura non ha
alcun fondamento.
È dato rilevare
che la Corte d'Appello ha pronunciato la compensazione - per la metà - delle
spese processuali tra le parti, ponendo l'altra metà a carico degli
"opponenti appellanti", attesa la "prevalente soccombenza"
di questi ultimi. Ha ritenuto, cioè, che, sia pur in piccola parte, vi fosse -
e giustamente - una soccombenza della banca (quanto meno nei confronti di uno
dei coobbligati, Attucci Giovanni).
Orbene, è jus
receptum che la compensazione totale o parziale delle spese di lite rientra nei
poteri discrezionali del giudice del merito, col solo limite che esse non
possono essere poste totalmente a carico della parte vittoriosa. Pertanto, la
compensazione delle spese processuali, per il suo carattere squisitamente
discrezionale, è insindacabile in sede di legittimità, salvo che non risulti
fondata su motivi illogici ed erronei, il che, indubbiamente, non si è
verificato nel caso in esame.
Il ricorso
incidentale va, dunque, respinto.
Sussistono giusti
motivi per disporre la compensazione integrale delle spese tra le parti di
questo giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte riunisce
i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa le spese.
Così deciso in
Roma, nella camera di consiglio della Corte Suprema di Cassazione, Terza
Sezione Civile, il 28 gennaio 1992.
DEPOSITATA IN
CANCELLERIA IL 25 AGOSTO 1992.