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SENTENZE SU INTERESSI ULTRALEGALI E CLAUSOLE USO PIAZZA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Brindisi - Sezione Fallimentare - riunito in Camera di Consiglio con l’intervento dei Magistrati:

1) dr. Vincenzo Fedele Presidente

2) dr. Francesco Giliberti Giudice

3) dr. Roberto Michele Palmieri Giudice – rel.

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile, in prima istanza, iscritta al n. 1926 del R.G. 2004,

TRA

D. S.,

rappresentato e difeso dall’avv.***;

- attore -

CONTRO

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A,

successore di Banca 121 s.p.a, già Banca del Salento s.p.a, in persona del legale rappresentante p.t, rappresentata e difesa dagli avv.ti ***;

- convenuta –

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, D. S. ha convenuto in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a, esponendo che: a seguito di numerosi colloqui sollecitati dal direttore di filiale dell’ex Banca 121 s.p.a, nel corso dell’anno 2001 egli aveva concluso con la predetta banca un piano finanziario denominato “4 You”; tale prodotto gli era stato presentato quale strumento di previdenza integrativa idoneo a consentirgli guadagni su base annua superiori a quelli dei titoli di Stato; al momento della stipula del contratto egli aveva sottoscritto tutta una serie di documenti non ancora compilati e da lui non visionati, stante il rapporto fiduciario intercorrente con il suddetto diretto di filiale, e previa assicurazione di quest’ultimo che di lì a breve gli sarebbe pervenuta copia di tutta la documentazione da lui sottoscritta; egli aveva stipulato il contratto sulla base della duplice assicurazione del direttore di filiale sia che trattavasi di prodotto previdenziale, sia che egli avrebbe potuto in qualsiasi momento sciogliersi dal contratto, ottenendo la restituzione delle somme già corrisposte, maggiorate degli interessi; rassicurato da tale prospettazione dell’investimento, egli si era impegnato a versare la somma di ex lire 300.000 mensili; nel corso del 2003 aveva appreso dai mass media che il prodotto da lui acquistato consisteva non già in un piano previdenziale, sebbene in un finanziamento collegato all’acquisto di titoli di pertinenza della ex Banca 121 s.p.a; tale contratto doveva reputarsi nullo, o comunque annullabile, per le ragioni esposte in atti. Ha chiesto pertanto dichiararsi la nullità o annullamento del contratto in esame, con contestuale condanna della banca convenuta sia alla restituzione delle somme da lui versate, maggiorate della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, sia al risarcimento dei maggiori danni da lui subiti. Il tutto con vittoria delle spese di lite, da distrarsi in favore del suo procuratore anticipatario.

Costituitasi in giudizio, la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ha chiesto il rigetto della domanda, con vittoria delle spese di lite.

A seguito di istanza ex art. 12 d. lgs. n. 5/03, il giudice relatore ha fissato udienza collegiale di discussione della causa per il 17.5.2005. A tale udienza le parti hanno illustrato le rispettive conclusioni e discusso oralmente la causa. Di seguito, previa conferma del decreto del g.r, il Tribunale - ai sensi dell’art. 15 5° co. d. lgs. n. 5/03 - ha riservato il successivo deposito della sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda principale dell’attore è fondata, per quanto di ragione, e deve pertanto essere accolta, nei limiti di cui appresso.

Con il primo motivo di censura, deduce l’attore la nullità del contratto in esame per contrarietà a norme imperative, stante la mancata osservanza, da parte della banca proponente l’investimento, delle previsioni di cui agli artt. 21 e ss. d. lgs. n. 58/98.

La censura è fondata.

Il contratto oggetto del presente giudizio, denominato “4 You”, costituisce la risultante di una serie di operazioni economiche tra di loro funzionalmente collegate. Precisamente, il negozio si articola nella concessione, da parte della banca proponente l’investimento, di un finanziamento destinato esclusivamente all’acquisto di particolari strumenti finanziari, e segnatamente di titoli “Republic of Italy”, nonché di quote del fondo comune di investimento “Spazio Euro. NM”. Quale contropartita della concessione del finanziamento, il risparmiatore - per tutta la durata del rapporto negoziale - è tenuto al pagamento di una rata costante che comprende un tasso di interesse del 6,8% annuo.

Tale essendo il contenuto essenziale del contratto, occorre ora individuarne la natura giuridica, al fine dell’individuazione della disciplina applicabile.

Sul punto, reputa il Collegio che si esula senz’altro, nel caso in esame, sia dalla figura del mutuo semplice, sia da quella del c.d. mutuo di scopo. Ciò in quanto caratteristica precipua del mutuo – almeno nella sua connotazione c.d. reale - è rappresentata dalla messa a disposizione di una somma di danaro in capo al mutuatario, il quale ne acquista la proprietà, con l’obbligo di restituirla alla scadenza, secondo le modalità indicate nel contratto di mutuo. Particolare configurazione del contratto di mutuo è poi rappresentata dal c.d. mutuo di scopo, ricorrente tutte le volte in cui lo scopo del finanziamento assurge a causa del contratto, nel senso che il finanziamento è concesso a condizione (sine qua non) che la somma mutuata venga utilizzata dal mutuatario per una particolare finalità convenzionalmente pattuita. Con la conseguenza che l’impossibilità originaria dello scopo determina nullità del contratto, nel mentre la sua mancata realizzazione dà luogo ai rimedi risolutori (art. 1453 e ss. c.c.) normativamente previsti.

Nulla di tutto ciò accade invece nel contratto in esame. Ciò in quanto la somma asseritamente “mutuata” non è in alcun modo messa a disposizione del cliente, neppure con la limitazione rappresentata dalla sussistenza di un particolare scopo. Piuttosto, il finanziamento resta sul piano puramente nominale, in quanto, per espressa previsione negoziale (art. 1), esso “sarà esclusivamente utilizzato per l’acquisto/sottoscrizione degli strumenti finanziari indicati ai seguenti punti nn. 2 e 3”.

Alla luce di tali caratteristiche del contratto in esame, reputa il Collegio che esso esula senz’altro dalla fattispecie del mutuo, ponendosi piuttosto quale contratto atipico, la cui causa è da ricercarsi nel particolare collegamento negoziale sussistente tra le operazioni di riferimento. In particolare, reputa il decidente che la causa del contratto in esame sia da ricercarsi non solo – e non tanto – nel finanziamento di somme di danaro da parte della banca proponente l’investimento quanto, piuttosto, anche nella vendita di particolari prodotti finanziari da parte della banca medesima. Vendita attuata non già mediante acquisto diretto ed immediato di tali prodotti da parte del cliente, sibbene attraverso la concessione di un finanziamento da destinarsi al relativo acquisto.

Chiarita la natura giuridica del contratto in esame (contratto atipico con finalità, collegata, sia di finanziamento di somme, sia di acquisto di prodotti finanziari), occorre ora valutare se la banca proponente l’investimento abbia assolto agli obblighi normativamente previsti.

Sul punto, la particolare causale del contratto in esame – caratterizzata, si ribadisce, anche e soprattutto dalla vendita di strumenti finanziari – impone l’applicazione delle previsioni di cui agli artt. 21 e ss. d. lgs n. 58/98 (Testo Unico della Finanza – TUF).

Orbene, tali previsioni impongono all’istituto di credito uno specifico obbligo di informazione circa le caratteristiche fondamentali del contratto. Precisamente, grava sul proponente l’investimento uno specifico obbligo (art. 21 lett. a TUF) di diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse del cliente, obbligo che impone in particolare all’operatore finanziario un’azione tesa alla garanzia della massima informazione (art. 21 lett. b TUF) nei confronti del risparmiatore.

Ed è appena il caso di precisare che trattasi di obblighi a contenuto più stringente di quelli, generici, di correttezza ed informazione (artt. 1337-1375 c.c.), gravanti su qualunque parte del rapporto negoziale. La qual cosa deriva anzitutto dalla particolare natura del contratto in esame, il quali presenta un elevato grado di rischio, ed espone pertanto il risparmiatore ad una perdita potenzialmente illimitata della somma da lui mensilmente investito. In secondo luogo, non va trascurato che l’aderente all’investimento è spesso un soggetto privo delle cognizioni tecniche necessarie per operare in un settore altamente specializzato, quale quello del mercato dei valori mobiliari. Per tal ragione, deve ritenersi condicio sine qua non della validità del contratto la circostanza che, in sede di stipula dell’accordo negoziale, il risparmiatore abbia avuto adeguata informazione circa il tipo e le caratteristiche essenziali del contratto stesso. La qual cosa è tanto più vera se si considera che - a differenza di quanto accade in un normale schema negoziale, ove di norma non compaiono terzi garanti che vigilano ab origine sulla regolarità dell’accordo - l’attività del proponente l’investimento non è libera, ma è a sua volta soggetta a vigilanza da parte di soggetti terzi rispetto al singolo contratto, e segnatamente della CONSOB e della Banca d’Italia (artt. 5 e ss. TUF). Soggetti, questi ultimi, dotati di penetranti poteri nei confronti del proponente l’investimento, poteri articolantisi non solo in richieste di informazioni (art. 8 TUF), ma anche, più in generale, in attività di vigilanza ispettiva e regolamentare (artt. 6-7 TUF), nonché di convocazione degli organi dirigenti. Il tutto nel superiore interesse perseguito dal legislatore del 1998, che è quello – in armonia con l’esigenza costituzionale (art. 47 Cost. ) di tutela del risparmio - di assicurare massima trasparenza e correttezza dei comportamenti dei soggetti abilitati (art. 5 TUF), oltre che una sana e prudente gestione dei vari servizi finanziari da parte di questi ultimi.

In quest’ottica, non stupisce che, in deroga al principio della libertà delle forme che regola l’autonomia privata, il TUF abbia espressamente previsto (art. 23) la forma scritta ad substantiam dei contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento. Ciò in quanto, evidentemente, la sola forma scritta è stata ritenuta idonea a garantire l’adeguata informazione del risparmiatore, la sua conoscenza, cioè, del complesso dei diritti e doveri scaturenti dall’accordo negoziale.

Per tali ragioni, ritiene il Collegio che le norme regolanti i servizi di investimento di prodotti finanziari - in quanto volte alla tutela sia del singolo investitore, sia, più in generale, dell’intero mercato dei valori mobiliari – abbiano natura e portata di norme imperative. La qual cosa implica, da un lato, la non derogabilità di dette norme ad opera delle parti, e sotto altro profilo, la nullità per illiceità della causa sia dei contratti che, pur tuttavia, siano stati stipulati (c.d. nullità virtuali, arg. ex artt. 1418 – 1343 c.c.), sia delle transazioni (art. 1972 c.c.) eventualmente compiute dalle parti.

Venendo ora al caso in esame, e riprendendo quanto prima esposto, reputa il Collegio che l’istituto di credito convenuto ha violato i primari doveri di informazione stabiliti dal TUF. Invero, sussiste in capo alla banca una palese violazione dei doveri di informazione e correttezza sanciti dall’art. 21 TUF, posto che detta banca ha taciuto all’attore circostanze decisive nell’economia del contratto. Precisamente, nonostante il contratto faccia riferimento, tra gli allegati, ai prospetti informativi sia del “Republic of Italy Programme”, sia dell’offerta al pubblico di quote dei fondi comuni di investimento mobiliare gestiti da “Spazio Finanza s.p.a”, nondimeno tali allegati non risultano in alcun modo depositati nel presente giudizio.

Pertanto, nonostante il contratto preveda, quale sua componente essenziale, l’acquisto dei predetti valori mobiliari, sono state totalmente sottaciute al risparmiatore – o comunque non vi è prova di tale specifica informazione, stante l’assenza di tali allegati – le informazioni principali concernenti gli strumenti finanziari oggetto di acquisto. Precisamente, sono state sottaciute all’attore le informazioni fondamentali concernenti tali sedicenti titoli emessi dalla “Republic of Italy”, e segnatamente quelle relative a: 1) la natura giuridica della società emittente le azioni in esame, il suo volume di affari, il suo capitale sociale, se esso fosse o meno interamente versato, ecc; 2) gli eventuali rapporti di collegamento e/o partecipazione societaria; 3) la redditività media dei titoli negoziati, mediante riferimento comparativo all’utile ricavato dalle precedenti collocazioni di detto titolo sul mercato. Informazioni che, sole, avrebbero consentito al risparmiatore una piena consapevolezza degli strumenti finanziari che si accingeva ad acquistare. Informazioni che, nondimeno, sono state, nella specie, del tutto omesse.

Informazioni analoghe la banca proponente l’investimento avrebbe poi dovuto fornire in relazione al sedicente fondo comune di investimento denominato “Spazio Euro.NM”, le cui quote il risparmiatore, per contratto, andava ad acquistare. E non diversamente da quanto sopra, anche di tale Fondo si sconosce la benché minima informazione.

Ciò fa si che, al momento della stipula del contratto, l’attore fosse del tutto all’oscuro circa i valori mobiliari negoziati con la banca convenuta. In sostanza, egli ha acquistato “al buio” strumenti finanziari di cui, per legge (artt. 21 e ss. TUF), egli aveva il diritto di conoscerne le principali caratteristiche. La qual cosa costituisce l’antitesi del principio di trasparente e corretta informazione delle vicende concernenti l’acquisto di valori mobiliari, cui – in attuazione dell’art. 47 Cost. – si ispira il TUF.

Ne consegue, in accoglimento della specifica censura di parte attrice, la dichiarazione di nullità del contratto in esame, stante la sua contrarietà alle norme imperative (art. 21 TUF, in relazione agli artt. 1418-1343 c.c.) di legge.

Per quanto tali considerazioni appaiano di per sé sufficienti all’accoglimento della domanda dell’attore, ragioni di completezza inducono il Collegio - in relazione all’ulteriore censura sollevata da parte attrice - a dichiarare la nullità anche di singole clausole del contratto in esame, per contrarietà alle prescrizioni di cui agli artt. 1469 bis e ss. c.c.

Sul punto, premette il Collegio che, in astratto, la normativa sulle c.d. clausole vessatorie trova senz’altro applicazione alla fattispecie in esame, stante la qualità di consumatore rivestita dall’attore, qualità certificata dall’apposita “spunta” contenuta nella parte iniziale dell’accordo.

Tanto premesso, rileva il decidente che un primo profilo di squilibrio che il contratto prevede a vantaggio della banca proponente l’investimento ed in danno dell’attore è rappresentato dalle modalità di esercizio del diritto di recesso spettante a quest’ultimo. Invero, tale facoltà prevede, quale contropartita (Sez. II, n. 8), l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere alla banca, “oltre agli interessi e gli altri oneri maturati fino all’esercizio di detta facoltà, un importo determinato dalla somma delle rate ancora a scadere, comprensive di capitale ed interessi, attualizzata al tasso IRS (Interest Rate Swap) corrispondente al periodo intercorrente tra la data di esercizio della facoltà di anticipata estinzione e la data di naturale scadenza del finanziamento”.

Trattasi, a tutta evidenza, di una clausola limitativa del diritto di recesso, non bilanciata da analoga facoltà concessa al consumatore per l’ipotesi di recesso della banca. Per tale ragione, detta clausola deve reputarsi nulla, ai sensi dell’art. 1469 bis 3° co. n. 5 c.c.

Altro profilo di squilibrio del sinallagma contrattuale è poi rappresentato dal fatto che la banca fa acquistare dall’attore prodotti finanziari riconducibili alla banca stessa, lucrando un tasso di interesse certo e definito (nella specie, il 6,8% annuo). In tal modo, la banca si autofinanzia, riuscendo non soltanto a collocare sul mercato titoli di altrimenti difficile negoziazione - essendo gli stessi quotati non in Borsa, ma, a tutto voler concedere, in mercati non regolamentati – ma a collocare titoli propri (o comunque ad essa riconducibili), lucrando in tal modo su un’operazione rivolta a suo prevalente, se non esclusivo, favore.

A fronte di un guadagno certo della banca (il tasso di interesse del 6,8% annuo convenzionalmente pattuito), all’attore sono invece attribuiti margini di redditività del tutto aleatori. Invero, lo stesso contratto (Sez. 1, punto 6) dà atto del fatto che “le operazioni eventualmente eseguite su strumenti finanziari non negoziati in mercati regolamentati possono comportare gravi difficoltà di liquidare gli strumenti finanziari acquistati e comunque di valutarne il valore effettivo”, per aggiungere poi che tali operazioni “sono caratterizzate da una rischiosità molto elevata, con possibilità di perdite anche eccedenti l’esborso originario, il cui preventivo apprezzamento è ostacolato dalla loro complessità”. In maniera ancora più significativa, con riferimento all’acquisto di quote del suddetto fondo comune di investimento, è lo stesso contratto a riconoscere che “non v’è garanzia del rendimento futuro delle stesse”.

Riepilogando, con l’operazione in esame la banca acquista un doppio vantaggio, rappresentato sia dal fatto che la stessa si autofinanzia (in quanto vengono acquistati prodotti ad essa stessa riconducibili, e di altrimenti difficile collocazione sul mercato), sia dal fatto che essa lucra anche un tasso di interesse da un’operazione, già di per sé, economicamente vantaggiosa.

Di contro, l’attore finanzia la banca, e lo fa a sue spese, in quanto acquista prodotti della banca stessa, pagando un tasso fisso certo (il 6,8% annuo), senza però avere alcuna garanzia circa la redditività futura del proprio investimento, ed anzi dovendo mettere in conto “…una rischiosità molto elevata, con possibilità di perdite anche eccedenti l’esborso originario”.

Per tali caratteristiche, il contratto atipico in esame realizza una figura sinora ignota al panorama giuridico italiano, quella, cioè, del “contratto aleatorio unilaterale”. Invero, l’alea – quale elemento attinente alla causa del contratto – è tutta concentrata nella sfera giuridica del risparmiatore, che paga un saggio di interesse fisso senza una aspettativa (seppur in termini soltanto aleatori) di corrispondente vantaggio, nel mentre la banca si giova di tale saggio (nonché del primario beneficio dell’autofinanziamento) senza, di contro, obbligarsi – neppure in via ipotetica, secondo i dettami dell’alea - ad alcuna corrispondente prestazione nei confronti della controparte.

È evidente, allora, lo squilibrio contrattuale derivante da tale genere di operazione. Dal che consegue anzitutto la nullità della clausola contrattuale (Sez. I, n. 6, quarta ipotesi) prevedente l’accettazione, da parte del consumatore, del rischio “di perdite anche eccedenti l’esborso originario”, per contrarietà alla previsione di cui all’art. 1469 bis 1° co. c.c.

In secondo luogo, il prevedere il contratto in esame un’alea di tipo soltanto unilaterale non consente, ad avviso del Collegio, di ritenerlo meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.). Ciò in quanto l’ordinamento non può ammettere la validità di contratti atipici che, lungi dal prevedere semplici modalità di differenziazione dei diversi profili di rischio, trasferisca piuttosto in capo ad una sola parte tutta l’alea derivante dal contratto, attribuendo invece alla controparte profili certi quanto alla redditività futura del proprio investimento. L’insanabile squilibrio iniziale tra le prestazioni oggetto del sinallagma contrattuale rende allora l’intero contratto in esame – e non soltanto le singole clausole sopra indicate – radicalmente nullo, non soltanto per contrasto con gli art. 21 e ss. TUF, ma anche per sua contrarietà alla previsione di cui all’art. 1322 c.c, non essendo detto negozio volto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Naturalmente, la nullità del contratto determina - in applicazione delle norme sull’indebito oggettivo (art. 2033 e ss. c.c.) ed in accoglimento della domanda principale dell’attore - la condanna della banca alla restituzione, in favore del S., delle somme da quest’ultimo percepite in esecuzione del contratto nullo.

Quanto alla decorrenza degli interessi legali sulla somma da restituire, rileva il Collegio che non sono emersi nel presente giudizio elementi tali da escludere la buona fede iniziale del convenuto (buona fede che, come è noto, si presume – art. 1147 c.c.). Per tale ragione, in ossequio al disposto dell’art. 2033 c.c, gli interessi legali sulla somma da restituire devono essere computati dal 30.7.2004 – data di notifica dell’atto di citazione e conseguente dies a quo di decorrenza della mora - al soddisfo.

Quanto alla richiesta di rivalutazione monetaria della somma, occorre ricordare che, trattandosi di obbligazione di valuta, il creditore aveva l’onere di dimostrare il maggior danno subito per effetto del ritardato adempimento (art. 1224, 2° co, c.c.), mediante riferimento, ad es, alla redditività media del capitale da lui utilizzato.

A tali oneri l’attore non ha assolto, sicché la sua domanda relativa alla rivalutazione monetaria deve essere rigettata.

Va del pari rigettata l’ulteriore domanda dell’attore di condanna della controparte al risarcimento dei danni precontrattuali ed extracontrattuali, stante l’assenza di prova, da parte dell’attore – a tanto onerato, in virtù dei principi generali (art. 2697 c.c.) - di un pregiudizio economico ulteriore rispetto a quello espressamente risarcito.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, con distrazione in favore del procuratore anticipatario dell’attore.

P.Q.M.

Il Tribunale di Brindisi - Sezione Fallimentare - pronunciando sulla domanda proposta da D. S. con atto di citazione ritualmente notificato a Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (quale successore a titolo universale di Banca del Salento s.p.a.), nel contraddittorio delle parti costituite così provvede:

1) accoglie la domanda principale dell’attore, per quanto di ragione, e per l’effetto condanna l’istituto di credito convenuto alla restituzione, in favore dell’attore, delle somme da quest’ultimo corrisposte in esecuzione del contratto in esame, oltre interessi legali su tali somme, dal 30.7.2004 al soddisfo;

2) rigetta l’ulteriore domanda risarcitoria dell’attore;

3) condanna il convenuto al rimborso, in favore del procuratore anticipatario dell’attore, avv. G. Romano, delle spese di lite da questi sostenute, che si liquidano in complessivi € 3.330, di cui € 330 per spese, € 1.000 per diritti ed € 2.000 per onorari, oltre spese generali, CAP e IVA come per legge.

Brindisi, 21.6.2005

Il Giudice est.

(Roberto Michele Palmieri)

Il Presidente"

 

TRIB. MILANO, SEZ. XI, 05/08/2003

La clausola, contenuta in un contratto di conto corrente bancario, la quale determini il saggio di interesse con rinvio agli interessi d'uso o praticati su piazza è nulla in quanto costituisce violazione espressa delle norme di cui agli articoli 4 della legge 17 febbraio 1992 n. 154 e 117 del decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385 (cosiddetto testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).

 

TRIB. TORINO, 07/01/2003

Nel caso in cui si rapporti in senso generico all' "uso in piazza" la condizione del contratto di conto corrente bancario che contenga la convenzione di massimo scoperto, tale clausola è nulla per indeterminatezza.

 

APP. LECCE, 22/10/2001

In tema di contratti bancari regolati in conto corrente, la mancata impugnazione dell'estratto conto nei termini previsti comporta l'approvazione tacita delle operazioni materiali e della loro conformità agli accrediti ed addebiti, ma non pregiudica le contestazioni sulla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori da cui tali operazioni derivano; pertanto, non si può ritenere precluso il reclamo proposto dal correntista, che faccia valere la nullità della clausola relativa alla determinazione degli interessi secondo il c.d. uso piazza.

Il reclamo, da parte del correntista, di somme indebitamente trattenute dalla banca su un'apertura di credito in conto corrente, a titolo di interessi, è soggetto a prescrizione decennale, che inizia a decorrere dalla chiusura del rapporto.

Qualora sia stata pronunciata sentenza nei confronti di un'impresa commerciale poi dichiarata fallita e, successivamente al fallimento, questa sia stata impugnata dalla curatela, la prosecuzione del processo deve avvenire davanti al giudice naturale dell'impugnazione, al quale soltanto spetta il potere - dovere di definirlo senza che la soluzione possa essere influenzata dai provvedimenti emessi, nel corso del procedimento di appello, da altro giudice (nella specie, dal decreto di approvazione dello stato passivo).

La determinazione in misura ultralegale del tasso di interesse del conto corrente può legittimamente avvenire "per relationem", se ed in quanto i criteri cui correlarla presentino sufficiente certezza ed univocità. Nel regime anteriore all'entrata in vigore della legge sulla trasparenza e del t.u. bancario non soddisfacevano tale requisito le clausole che facessero riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito e attribuissero alla banca la facoltà di modificarle unilateralmente in qualsiasi momento. In ogni caso non può la mancanza della forma scritta imposta dalla legge essere surrogata dall'approvazione tacita degli estratti di conto corrente.

Per i contratti bancari conclusi anteriormente all'entrata in vigore della normativa sulla trasparenza bancaria, la clausola che rinvia, per la determinazione del tasso ultralegale degli interessi, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, può ritenersi valida soltanto in presenza di discipline vincolanti fissate su larga scala con accordi interbancari (nella specie, la validità della clausola è stata esclusa, posto che da oltre sedici anni mancano accordi di cartello, che il "prime rate" non è vincolante per gli istituti bancari e che, comunque, il contratto non richiamava una fonte dotata di un sufficiente grado di univocità).

Alla luce della disciplina codicistica la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alla banca dalla clientela è nulla in quanto non basata su un uso normativo, tale non potendosi considerare le norme bancarie uniformi.

E' nulla la clausola, contenuta in un contratto bancario regolato in conto corrente, con cui si prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista (nella specie, la nullità è stata pronunciata in relazione ad un contratto stipulato anteriormente all'entrata in vigore della delibera con la quale il comitato interministeriale per il credito e il risparmio ha stabilito, in attuazione dell'art. 120 comma 2 d.lg. n. 385 del 1993, introdotto dall'art. 25 comma 2 d.lg. n. 342 del 1999, modalità e criteri per la disciplina dell'anatocismo nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria).

 

CASS. CIV., SEZ. II, 25/01/2000, N.819

Al creditore non può essere riconosciuta la facoltà di imputare i pagamenti ricevuti ad estinzione del debito, ad interessi extralegali, ove questi ultimi non siano stati fatti oggetto di una valida pattuizione ai sensi dell'art. 1284, comma 3, c.c. Ove invece sia mancata una tale pattuizione, il debitore può sì, per sua determinazione, pagare gli interessi in misura superiore a quella legale assolvendo in tal modo ad un'obbligazione naturale (dal che la conseguente irripetibilità di quanto pagato), ma se egli non abbia a manifestare un tal tipo di volontà, il creditore non può certo destinare le somme da lui ricevute al soddisfacimento di quella che finisce per presentarsi come un'obbligazione meramente naturale del "solvens", invece che all'estinzione della obbligazione effettivamente pattuita, la quale sola gli consente l'esercizio di azioni giudiziarie.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Michele LUGARO - Presidente -

Dott. Carlo CIOFFI - Consigliere -

Dott. Giovanni SETTIMJ - Rel. Consigliere -

Dott. Giovanna SCHERILLO - Consigliere -

Dott. Francesca TROMBETTA - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

TOTARO ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato ASTOLFO DI AMATO, che lo difende, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

MEROLA GIOVANNI;

- intimato -

e sul 2^ ricorso n^ 02093/97 proposto da:

MEROLA GIOVANNI, elettivamente domiciliato in ROMA PZZA CAVOUR, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, difeso dall'avvocato GIOACCHINO DE PIETRA, giusta delega in atti;

- controricorrente e ricorrente incidentale -

contro

TOTARO ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato ASTOLFO DI AMATO, che lo difende, giusta delega in atti;

- controricorrente al ricorso incidentale -

avverso la sentenza n. 27/96 della Corte d'Appello di NAPOLI, depositata il 13/01/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/01/99 dal Consigliere Dott. Giovanni SETTIMJ;

udito l'Avvocato DI AMATO ASTOLFO, difensore del ricorrente principale che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso, incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MELE che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e accoglimento del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione 26 febbraio 81, Antonio Totaro - premesso che aveva versato a Giovanni Merola la somma di L. 368.000.000 a saldo del prezzo concordato con scrittura privata 19 agosto 1980 per l'acquisto d'un cospicuo complesso immobiliare sito in Torre del Greco, compravendita da formalizzare con stipula del definitivo fissata per il 31 agosto 1981; che il promittente venditore aveva, nel frattempo, promesso in vendita a terzi alcuni dei detti immobili - conveniva innanzi al Tribunale di Napoli Giovanni Merola per sentir dichiarare trasferiti in proprio favore gli immobili de quibus.

Costituendosi, il Merola contestava le avverse deduzioni e pretese esponendo che, per esigenze della propria impresa, aveva fatto ricorso al Totaro ottenendone un finanziamento di L. 205.000.000 con interessi del 50% annuo rilasciandogli assegni per L. 380.000.000 e restituendo poi, nel corso del rapporto, oltre L. 280.000.000; che il Totaro, rimasto in possesso di assegni per L. 368.000.000, in sostituzione di tale garanzia nel 1980 gli aveva imposto la sottoscrizione della vendita simulata degli immobili de quibus, finalizzata a celare un mutuo con patto commissorio. Chiedeva, pertanto, che il Tribunale, accertata la nullità dei contratti (simulato di compravendita e dissimulato di mutuo), nonché l'ammontare del suo debito sino al 1976 ed i pagamenti fatti sino a quel tempo, dichiarasse estinta la sua obbligazione verso il Totaro condannando quest'ultimo alla restituzione di quanto illegittimamente percetto ed al risarcimento dei danni per la trascrizione della domanda giudiziale.

Con altra citazione del 28 settembre 1981, il Totaro chiedeva che fosse dichiarata l'autenticità della sottoscrizione del Merola sulla scrittura privata del 19 agosto 1980 e, quindi, la validità della vendita effettuata in suo favore, depositando anche, in corso di giudizio, altra scrittura, contenente un conteggio di quanto dovutogli, assuntivamente approvato e sottoscritto dal Merola.

Questi contestava anche tale domanda e disconosceva la sottoscrizione risultante sul conteggio ex adverso prodotto.

Con sentenza 27 dicembre 1984, il Tribunale di Napoli rigettava le domande del Totaro ed, in parziale accoglimento di quelle del Merola, dichiarava la nullità del contratto preliminare 19 agosto 1980.

Il Totaro proponeva appello dolendosi che il primo giudice avesse erroneamente qualificato la scrittura privata come contratto preliminare, anziché definitivo, e ritenuto sussistente il patto commissorio.

Il Merola si costituiva con appello incidentale dolendosi che il primo giudice avesse erroneamente ritenuto sussistere ancora un suo debito di L. 368.000.000 - non ostante egli avesse già restituito alla controparte una somma superiore a quella mutuata - ed irripetibile quanto corrisposto a titolo d'interessi in misura superiore a quella legale.

Con sentenza 7 gennaio 1987, la Corte d'Appello di Napoli rigettava entrambe le impugnazioni attribuendo, peraltro, natura di contratto definitivo alla scrittura privata del 19 agosto 1980 ed ordinava la cancellazione della trascrizione delle due domande giudiziali proposte dal Totaro nei confronti del Merola.

Il Merola impugnava per cassazione detta sentenza con ricorso 3 giugno 1987; il Totaro resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale; il Merola resisteva, a sua volta, con controricorso al ricorso incidentale e proponeva anch'egli ricorso incidentale.

Con sentenza 4 novembre 1991 n. 11743, questa Corte:

1) decidendo sulle censure mosse dal Merola in ordine alla determinazione dell'ammontare del proprio debito per capitale ed interessi: rilevava che la Corte di merito aveva determinato il debito del Merola in L. 368.000.000 sulla base della ritenuta coincidenza tra una scrittura, intitolata "situazione al 29 febbraio 1980" (e recante una sigla attribuita al Merola sebbene da questi disconosciuta) ed un prospetto predisposto dal Totaro; riteneva che la Corte di merito avesse erroneamente attribuito valore di scrittura privata riconosciuta (e, quindi, di prova precostituita) al prospetto prodotto dal Totaro, giacché non aveva considerato, in violazione dell'art. 2702 c.c., che tale efficacia poteva derivare solo dalla provenienza e dalla sottoscrizione della scrittura dalla parte contraria a quella che di essa intendeva avvalersi, mentre, nella specie, la scrittura era stata redatta dal Totaro e non era stata sottoscritta dal Merola; che, inoltre, tale errore aveva indotto anche l'ulteriore errore di non aver considerata necessaria la verificazione della sigla risultante sulla cartula datata 20 febbraio 1980, attribuita al Merola ma da questi disconosciuta;

2) decidendo sulle censure mosse dal Totaro in ordine all'affermazione, contenuta in motivazione, che sulla somma di L. 368.000.000 dovessero corrispondersi gli interessi legali dal 1° settembre 1981, mentre la controparte s'era impegnata, con la cartula del 20 febbraio 1980, a corrispondere gli interessi del 25% e nella stessa misura fossero dovuti gli interessi moratori: riteneva la sentenza viziata d'ultrapetizione per essersi la Corte di merito pronunziata su questione non prospettata specificamente dalle parti con gli atti d'impugnazione; accoglieva il ricorso principale del Merola, dichiarandone inammissibile il ricorso incidentale ed accoglieva il secondo motivo del ricorso incidentale del Totaro, rigettandone il primo; cassava in relazione ai motivi accolti e rinviava ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli.

Con atto di riassunzione 29 febbraio 92, il Merola conveniva nuovamente il Totaro innanzi alla Corte d'Appello di Napoli onde - accertato che sugli importi da lui versati al creditore gli interessi legali dovevano essere calcolati con riguardo alle date dei singoli prestiti nonché degli importi restituiti tra il 1974 ed il 1981 e che interessi extra legali non erano dovuti, in quanto usurari e non suffragati da atto scritto - sentir dichiarare estinto il proprio debito nei suoi confronti.

Costituendosi con comparsa 6 aprile 1992, il Totaro chiedeva, in via istruttoria, "la verificazione della situazione al 29 febbraio 1980" e l'ammissione di una prova testimoniale; nel merito, il rigetto dell'appello incidentale del Merola, ribadendo la modesta entità degli interessi corrispostigli e la loro irripetibilità.

Con sentenza 13 gennaio 1996, la Corte d'Appello di Napoli - accolta, a seguito di perizia grafologica, l'eccezione del Merola in ordine alla non autenticità della sigla da lui apparentemente apposta in calce alla scrittura privata del 1980; ritenuta tale scrittura inutilizzabile ai fini del giudizio; ritenuti irripetibili gli interessi in misura superiore alla legale corrisposti dal Merola sino al 1977, in quanto manifestazione di un'obbligazione naturale; ritenuti dovuti, successivamente a tale data, i soli interessi legali, in mancanza d'una pattuizione scritta per tassi superiori - dichiarava irripetibili gli interessi corrisposti dal Merola sino al febbraio 1977 e dovuti in misura legale quelli successivi.

Con atto notificato il 3 gennaio 1997 Antonio Totaro ricorreva per cassazione con un unico articolato motivo.

Resisteva il Merola con controricorso e ricorso incidentale.

Seguivano controricorso del Totaro al ricorso incidentale del Merola e memoria illustrativa di quest'ultimo.

Motivi della decisione

I due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e concernenti questioni connesse vanno riuniti.

Ricorso principale

Si duole il ricorrente con l'unico motivo - denunziando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c. - che la Corte di merito abbia recepito pedissequamente le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, senza prendere in considerazione, e senza di ciò dare ragione, le critiche mosse dal consulente di parte, per il che, essendo le argomentazioni del consulente d'ufficio inattendibili e lacunose, gli stessi vizi si sarebbero riverberati sulla sentenza.

Sotto un primo profilo, il ricorrente imputa alla Corte di merito di non aver proceduto ad una specifica disamina d'una serie di rilievi effettuati dal proprio consulente tecnico di parte nel corso degli accertamenti peritali e d'essersi limitata ad affermare che ai detti rilievi era stata data esauriente risposta dal consulente tecnico d'ufficio negando che vi fosse necessità d'un supplemento di consulenza.

In tale decisione del giudice del merito il ricorrente ha ravvisato un vizio di difetto di motivazione, ma la censura non è fondata.

In generale, non si può fondatamente rimproverare al giudice del merito, come fa il ricorrente, di non aver effettuato valutazioni e raggiunto convincimenti autonomi sugli accertamenti effettuati dal consulente tecnico d'ufficio e d'aver recepito le argomentazioni sviluppate e le conclusioni rassegnate da quest'ultimo disattendendo quelle del consulente di parte: in materia che richiede un'elevata qualificazione professionale specifica, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito - nella cui esclusiva competenza rientra pervenire a siffatta determinazione, incensurabile in questa sede - la formulazione di considerazioni personali determinanti e di valutazioni comparative che mancherebbero del supporto di un'appropriata preparazione scientifica, tanto più nel contrasto tra le argomentazioni dell'esperto nominato dall'ufficio, assistite dalla presunzione d'imparzialità, e quelle dell'esperto di parte, quanto meno influenzate dall'esigenza di sostenere le ragioni del preponente.

A maggior ragione, quando le considerazioni del consulente tecnico di parte abbiano formato oggetto di specifica valutazione e di conseguenziale parere ad opera del consulente d'ufficio, il giudice, ove abbia ritenuto adeguatamente svolta l'una ed argomentato l'altro in guisa da condividerne le conclusioni, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del proprio convincimento, giacché, per quanto peritus peritorum, non è, tuttavia, generalmente in grado di risolvere in coscienza e con sufficiente cognizione di causa contrasti complessi di carattere essenzialmente tecnico; può, dunque, il giudice limitarsi ad affermare la propria adesione alle conclusioni rassegnate dal consulente d'ufficio, in quanto così il richiamo a determinate decisive considerazioni da questi effettuate, come la decisione di non rinnovare la consulenza, implicano l'avvenuto esame comparativo dei rilievi di parte e delle risposte del consulente d'ufficio e, sul punto, costituiscono motivazione adeguata insuscettibile di censure in sede di legittimità.

Il che è quanto rilevabile nella sentenza in esame, nella quale, sinteticamente richiamate le argomentazioni salienti poste dal consulente d'ufficio alla base delle rassegnate conclusioni e ritenutele logiche e convincenti, la Corte di merito ha evidenziato come le difformi argomentazioni del consulente di parte fossero state esaurientemente valutate e disattese dal C.T.U. prima di pervenire alle dette conclusioni, per il che non appariva necessario un supplemento di consulenza.

Con una seconda prospettazione, il ricorrente sviluppa una serie di critiche alla consulenza d'ufficio per concludere che le relative argomentazioni sono, a suo avviso, inattendibili e lacunose, difetti riverberatisi sulla sentenza della quale sono state recepite.

Censura posta in tal guisa non è ammissibile, in quanto si risolve nella prospettazione d'una questione di mero fatto.

Questa Corte ha ripetutamente evidenziato come, quando sia denunziato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell'omesso od insufficiente esame di fatti, di circostanze, di rilievi mossi alle risultanze d'ordine tecnico ed al procedimento pure tecnico seguito dal consulente d'ufficio, è necessario che il ricorrente non si limiti a censure apodittiche d'erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione od anche d'omesso approfondimento di determinati temi d'indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle cui è pervenuto il consulente d'ufficio e recepite dal giudice; è, per contro, necessario che il ricorrente non solo precisi e specifichi, svolgendo concrete e puntuali critiche se pure sintetiche, le risultanze e gli elementi di causa dei quali lamenta la mancata od insufficiente valutazione, ma evidenzi, in particolare, le esatte controdeduzioni alla consulenza d'ufficio che assuma essere state neglette, nonché quali fossero l'esatto contenuto e le finalità degli eventuali mezzi di prova contrari richiesti e non ammessi ed in quali esatti termini tale richiesta fosse stata effettuata.

Ciò in quanto, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione, è condizione d'ammissibilità del motivo il consentire al giudice di legittimità di procedere alla valutazione della decisività, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice a quo, dei mezzi istruttori non ammessi e/o delle risultanze assunte erroneamente od insufficientemente valutate; mentre è, poi, ovvio come una censura che si sostanzi, di fatto, in un'istanza d'ulteriore diversa indagine istruttoria, della quale non si deduca né dimostri che abbia già formato oggetto di specifica adeguata richiesta in sede di merito, non possa trovare ingresso in sede di legittimità.

Orbene, esaminando il caso di specie, devesi rilevare come, anzi tutto, nelle deduzioni del ricorrente non risulti adeguatamente esplicitato se, in quali termini, in quali occasioni e con quali atti, alla Corte di merito fossero stati segnalati errori del consulente d'ufficio, così nel rilievo e nell'elaborazione dei dati posti a base della relazione commessagli come nello svolgimento dell'iter logico iniziato con l'analisi di quei dati e terminato con le rassegnate conclusioni; così come neppure risulta se, in quali esatti termini e con quali precise finalità, alla Corte stessa fossero stati richiesti una nuova consulenza od un supplemento di quella già espletata, richieste tanto più necessarie attese le critiche che si assume fossero state rivolte all'opera svolta dal consulente d'ufficio.

Il ricorrente si limita a prospettare alcuni elementi tecnici di giudizio ed a trarne le proprie personali conclusioni per dimostrare l'assunta erroneità delle argomentazioni del consulente d'ufficio, così traducendosi il motivo non in una specifica censura ma in una semplice prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice a quo del tutto irrilevante in questa sede, attenendo all'ambito della discrezionalità del giudice del merito nella valutazione dei fatti e nella formazione del proprio convincimento, dei quali si finisce per chiedere una revisione, e non ai vizi del convincimento stesso rilevanti ex art. 360 c.p.c.

Giova sottolineare come, nel difetto d'una valida specifica censura in ordine alla mancata ammissione d'un supplemento di consulenza tecnica, trovi anche conferma quanto già evidenziato trattando dell'idoneità della motivazione dell'impugnata sentenza sul punto.

Il ricorso principale va, dunque, rigettato.

Ricorso incidentale

Con motivo unico ma articolato in due distinte censure, il ricorrente incidentale - denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 1194, 1284, 1815, 2034, 2697 c.c. e degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c. nonché vizio di motivazione - si duole che la Corte di merito abbia omesso di pronunziarsi sulle sue domande intese, l'una, all'accertamento della misura degli interessi da lui dovuti e, l'altra, alla determinazione dell'eventuale suo debito residuo.

La censura è fondata.

La valutazione del motivo, diretto all'accertamento di più errores in procedendo, implica l'esame d'alcune parti dei principali atti del presente giudizio, peraltro già richiamati nell'esposizione in fatto.

A fronte dell'originaria domanda del Totaro intesa ad ottenere il trasferimento d'un certo numero d'immobili in esecuzione del preliminare 19 agosto 1980, il Merola contestava la domanda deducendo violazione del divieto di patto commissorio e chiedeva, in via riconvenzionale, dichiararsi la nullità del preliminare ed altresì accertarsi l'ammontare delle somme mutuategli e dei relativi interessi in misura legale nonché delle somme restituite e di quanto a sua volta controparte dovesse rendergli.

Il Tribunale dichiarava la nullità del preliminare e rigettava la domanda del Totaro, ma rigettava anche la riconvenzionale del Merola ritenendolo ancora debitore della somma di L. 368.000.000, corrispondente al prezzo di vendita degli immobili.

Sulle impugnazioni d'entrambe le parti, la Corte d'Appello di Napoli, con la sentenza 7 gennaio 1987, rigettava entrambi i gravami ma - quanto a quello del Merola, che aveva denunziato come errore del primo giudice il non aver considerato i suoi versamenti superiori alla somma mutuatagli e l'aver ritenuto irripetibili gli interessi corrisposti in misura superiore alla legale - precisando in motivazione che alla data del preliminare di compravendita dichiarato nullo le somme versate in conto debito non coprivano neppure gli interessi nella misura del 25%, irripetibili in quanto corrisposti in adempimento di un'obbligazione naturale, ma che sul residuo debito di L. 368.000.000 gli interessi erano dovuti in misura legale a decorrere dal 1° settembre 1981, giorno successivo al periodo di riferimento del conteggio posto a base della determinazione del prezzo di vendita degli immobili.

Questa Corte, adita a sua volta da entrambe le parti, cassava con rinvio la detta sentenza, ritenendo le censure del Merola fondate nel loro complesso, nella considerazione che entrambi i documenti posti a base della decisione sulla determinazione del debito in L. 368.000.000 erano inidonei allo scopo, essendo l'uno - il prospetto redatto dal Totaro - di provenienza dalla stessa parte che intendeva avvalersene e l'altro - il conteggio recante l'apparente sigla del Merola - disconosciuto dalla parte cui era stato attribuito e non verificato nella sottoscrizione.

Riassumendo il giudizio in sede di rinvio, il Merola, nella considerazione che del rapporto non sussistesse alcun'altra documentazione se non quella posta a base dell'accertamento delle somme da lui ricevute in mutuo per L. 242.075.000 e restituite per L. 232.000.000, ribadiva la domanda di determinazione del proprio residuo debito tenendo conto dei soli interessi legali in difetto di prova d'una convenzione per interessi in misura superiore.

Con la sentenza 13 gennaio 1996 qui impugnata, la Corte di merito ha escluso che, ai fini della decisione, si potesse tener conto così del prospetto proveniente dal Totaro, in quanto ciò avrebbe importato violazione dell'art. 2702 c.c. come già rilevato dalla sentenza d'annullamento, come della scrittura 29 febbraio 1980 apparentemente proveniente dal Merola, per essere stata accertata la non autenticità della sigla su di essa apposta.

Ricordato, quindi, come l'importo complessivo delle somme mutuate, sul quale non sussisteva contestazione, ammontasse a L. 242.000.000 circa, la Corte di merito ha ritenuto, anzi tutto, che su tale somma gli interessi fossero dovuti nella misura del 25% "così come indicato dalla sentenza di secondo grado a pag. 11, interessi così dichiarati dal Totaro (vedi sempre sentenza della Corte d'Appello di Napoli)"; in secondo luogo, che non potesse trovare integrale accoglimento l'eccezione del Merola, per il quale gli interessi sulla somma mutuata dovevano essere computati in misura legale, in quanto questi avevano spontaneamente corrisposto gli interessi in misura extralegale sino al 1977 adempiendo ad un'obbligazione naturale, onde quanto pagato a tal titolo sino al 1977 non era ripetibile, mentre per il periodo successivo dovevano essere corrisposti i soli interessi legali in difetto di valida pattuizione.

Decidendo sul primo punto, la Corte di merito, è incorsa in un evidente vizio di contraddittorietà della motivazione, in quanto, dopo aver affermato l'inutilizzabilità del prospetto proveniente dal Totaro e della scrittura apparentemente siglata dal Merola, ha poi dichiarato accertata la misura degli interessi al 25% sulla base proprio dei detti documenti, al pari della sentenza già cassata sul punto nella quale, alla richiamata pag. 11, era stato effettuato il computo degli interessi con riferimento alla misura, appunto, del 25% "dichiarata dal Totaro e indicata nel conteggio da lui attribuito al Merola" per cui il conteggio del Totaro, portante un credito complessivo di L. 368.000.000 per capitale ed interessi "era esatto e concorda con il conteggio attribuito al Merola".

In tal guisa la Corte di merito ha anche contravvenuto all'obbligo d'attenersi a quanto deciso nella sentenza d'annullamento, che aveva dichiarato illegittima l'utilizzazione del documento proveniente dal Totaro, per violazione dell'art. 2702 c.c., e del documento attribuito al Merola, ove fosse stata accertata (come lo è stata) la non autenticità della sigla ad esso apposta.

Decidendo sul secondo punto, la Corte di merito è incorsa, poi, in vizio tanto di violazione di legge quanto di difetto di motivazione, giacché ha affermato che "il Merola fino al febbraio 1977 ha regolarmente pagato gli interessi ad un tasso superiore a quello legale" senza fornire alcuna indicazione in ordine alle fonti dell'espresso convincimento, indicazione tanto più necessaria atteso che oggetto della controversia sul punto - essendo risultati provati solo l'ammontare dei prestiti e quello delle restituzioni e null'altro, in particolare nessuna imputazione delle somme versate in restituzione e nessuna convenzione in ordine agli interessi - erano proprio, da un lato, la pretesa del Totaro d'imputare i pagamenti ricevuti in conto interessi al 25% e, dall'altro, la contestazione del Merola circa la debenza d'interessi in tale misura, avendo questi sempre affermato essergli stati chiesti interessi extralegali, fin anche del 50%, ma mai d'averli accettati e tanto meno d'averli corrisposti.

Questa Corte ha già evidenziato altra volta come la facoltà d'imputare i pagamenti ricevuti ad estinzione del debito per interessi extralegali non possa essere riconosciuta al creditore in difetto d'una valida pattuizione degli interessi stessi ex art. 1284, terzo comma, c.c. e come, mancando pattuizione siffatta, il debitore possa bensì pagare, per sua determinazione, gli interessi in misura superiore a quella legale - assolvendo in tal modo ad un'obbligazione naturale con conseguente irripetibilità di quanto pagato - ma, ove egli non abbia manifestato una volontà in tal senso, il creditore non possa destinare le somme ricevute al soddisfacimento di un'obbligazione meramente naturale del solvens invece che all'estinzione d'altra obbligazione che, validamente sorta, consente l'esercizio d'azioni giudiziarie nei confronti del debitore (Cass., 22 aprile 1968, n. 1236).

In altri termini, ove si sia in presenza di pagamenti effettuati dal debitore in conto del proprio debito risultato non ancora estinto nel suo complessivo ammontare di capitale ed interessi legali maturati ed in difetto d'una pattuizione d'interessi superiori alla misura legale validamente stipulata ai sensi del terzo comma dell'art. 1284 c.c., i pagamenti stessi, ove manchi la prova della loro imputazione in tutto od in parte ad interessi in misura superiore alla legale per espressa volontà del debitore, non possono ricevere imputazione siffatta ed autonoma iniziativa del creditore; ciò in quanto, non essendo stabilita alcuna presunzione, legale o semplice, al riguardo, la spontaneità del pagamento da parte del debitore in conto di interessi superiori alla misura legale deve risultare, come per l'adempimento ad ogni tipo d'obbligazione naturale, dall'adeguato accertamento d'un suo comportamento idoneo a dimostrare in modo inequivoco la volontà d'adempiere ad uno dei doveri, tipici ed atipici, presi in considerazione dall'art. 2034 c.c., piuttosto che alla diversa obbligazione ordinaria validamente contratta ed alle obbligazioni legali ad essa accessorie.

Diversamente argomentando, sarebbe consentito a qualsiasi creditore che, in difetto di pattuizione scritta in ordine alla corresponsione d'interessi in misura superiore alla legale, ricevesse pagamenti da parte del debitore senza contestuale formazione d'un documento contenente l'imputazione specifica dei pagamenti stessi - come nel caso di specie, in cui v'è solo la prova d'una pluralità di versamenti genericamente effettuati in conto del dovuto, data dagli assegni emessi dal debitore - di sostenere, senz'onere di prova al riguardo e pertanto in violazione del principio fondamentale posto dall'art. 2697 c.c., la debenza d'interessi in tal misura, nonché di conseguirne la corresponsione, sulla sua semplice dichiarazione d'aver effettuato l'imputazione delle somme ricevute a tali pretesi interessi.

Nel caso di specie, dunque, la Corte di merito non solo ha omesso d'applicare le norme sopra indicate, ma non ha neppure spiegato a qual valido titolo gli interessi sino al 1977 fossero dovuti nella misura del 25% e, tanto meno, ha spiegato d'onde abbia tratto il convincimento che il Merola avesse spontaneamente corrisposto gli interessi nella detta misura per il periodo in questione; precisazioni a maggior ragione necessarie a fronte non solo del mancato accertamento d'una qualsivoglia manifestazione di volontà del debitore intesa alla corresponsione d'interessi in misura superiore alla legale ma, soprattutto, della contestazione del debitore stesso in ordine alla pretesa del creditore d'imputare i pagamenti ricevuti, in prededuzione, a tal genere d'interessi, richiestigli ma non accettati.

La pronunzia in esame è, pertanto, censurabile, oltre che per violazione degli artt. 1284, 1815, 2034, 2697 c.c., anche per patente difetto di motivazione. Il ricorso incidentale va, dunque, accolto e l'impugnata sentenza cassata, in ragione delle svolte censure, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della medesima Corte d'Appello.

P. Q. M.

La Corte riuniti i ricorsi, rigetta il principale, accoglie per quanto di ragione l'incidentale, cassa e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli.

Così deciso in Camera di Consiglio il 18 gennaio 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 25 GENNAIO 2000.

CASS. CIV., SEZ. I, 18/05/1996, N.4605

L'obbligo della forma scritta "ad substantiam", imposto dall'art. 1284 comma ultimo c.c., non comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il tasso d'interesse praticato, ma, in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile, il detto obbligo è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indicano criteri oggettivi che consentono la quantificazione del tasso d'interesse, ancorchè ciò avvenga "per relationem" mediante il richiamo ad elementi estranei al contratto, come quando in un contratto di conto corrente bancario si faccia riferimento, al predetto fine, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Renato SGROI Presidente

" Rosario DE MUSIS Consigliere

" Alberto PIGNATARO Rel. "

" Giovanni VERUCCI "

" Mario Rosario MORELLI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MONTI VITTORIANA e FRIGIOLA SAVINO, elettivamente domiciliati in Roma Via Orazio 31, presso l'Avvocato Costantino Tonelli, rappresentati e difesi dall'Avvocato Ercole Boccardi, giusta delega in atti;

Ricorrenti

contro

CREDITO ROMAGNOLO SPA, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione p.t., elettivamente domiciliato in Roma Via N. Porpora 9, presso l'Avvocato Bruno Guardascione, che la rappresenta e difende unitamente all'Avvocato Giancarlo Berti, giusta delega in atti;

Controricorrente

nonché contro

BANCA POPOLARE DELL'EMILIA ROMAGNA già BANCA POPOLARE di CESENA - Società Cooperativa a r.l., in persona del Presidente p.t., elettivamente domiciliata in Roma Via P. Da Palestrina 63, presso l'Avvocato Mario Contaldi, che la rappresenta e difende unitamente all'Avvocato Gianfranco Fontaine, giusta delega in atti;

Controricorrente

nonché contro

MONTI LEONARDO, PARMA MARIA GRAZIA, FERRUCCINI GIANCARLO, RUSSI ELISABETTA;

Intimati

avverso la sentenza n. 838/93 della Corte d'Appello di Bologna, depositata il 26/06/93;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/95 dal Consigliere Relatore Dott. Alberto Pignataro;

udito per il ricorrente, l'Avvocato Boccardi, che chiede l'accoglimento del ricorso;

udito per il resistente, Credito Romagnolo, l'Avvocato Berti, che si riporta ai motivi del controricorso;

udito per il resistente, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, l'Avvocato Romano Ricci, con delega, che si riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele Ceniccola che ha concluso nei confronti della Banca di Cesena, l'inammissibilità del ricorso del Frigiola e della Monti; nei confronti del Credito Romagnolo: l'inammissibilità del ricorso della Monti relativo all'opposizione allo stato passivo.

Ricorso nel merito: rigetto.

Svolgimento del processo

Con decreti del 10 e 18 febbraio 1981 il presidente del tribunale di Rimini ingiungeva alla Camelot Mode s.p.a. nonché ai soci fideiussori della stessa, Vittoriana Monti, Savino Frigiola, Leonardo Monti, Maria Grazia Parma ed Elisabetta Russi, di pagare al Credito romagnolo s p.a. ed alla banca popolare di Cesena rispettivamente le somme di L. 26.241.557 e di L. 35.667.390 dovute in relazione a rapporti di conto corrente intercorsi tra le banche ricorrenti e la società.

Tutti gli ingiunti proponevano opposizione, deducendo in particolare l'illegittimità del calcolo degli interessi (in misura superiore alla legale) e delle valute (operato anticipando gli addebiti e postdatando gli accrediti) con conseguente ingiustificato aumento dei debiti.

Le banche deducevano, tra l'altro, la mancata impugnazione nei termini degli estratti-conto inviati alla debitrice principale e la conformità del calcolo degli interessi e delle valute agli accordi intervenuti con la società Camelot.

In pendenza del giudizio sopravveniva il fallimento di detta società nel cui stato passivo le predette banche (nonché la cassa di risparmio di Rimini con la quale la controversia veniva poi definita transattivamente) insinuavano i rispettivi crediti in via chirografaria.

Le cause di opposizione ai decreti ingiuntivi, interrotte a seguito della dichiarazione di fallimento, erano riassunte dai fideiussori.

Vittoriana Monti proponeva anche, quale creditore ammesso al passivo, impugnazione dei crediti delle banche ai sensi dell'art. 100 l. fall., richiamando i motivi di opposizione ai decreti ingiuntivi.

Nelle relative cause, che venivano riunite, era disposta consulenza tecnica d'ufficio per accertare le modalità di calcolo degli interessi e delle valute sui conti correnti intestati alla società fallita.

Espletata la consulenza, dette cause erano riunite a quella di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a favore del Credito romagnolo, mentre la causa di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla banca popolare di Cesena veniva decisa in separato giudizio.

Con sentenza del 22 febbraio 1991 il tribunale adito rigettava le domande proposte nelle cause riunite.

La sentenza era impugnata in via principale da Savino Frigiola (già amministratore unico della società) e da Vittoriana Monti (moglie del primo) nonché, in via incidentale, da Leonardo Monti e Maria Grazia Parma.

Il fallimento (dichiarato nel frattempo chiuso per ripartizione dell'attivo tra i creditori muniti di diritti di prelazione) ed Elisabetta Russi restavano contumaci, mentre le banche resistevano ai gravami.

Con sentenza del 26 giugno 1993, la corte d'appello di Bologna, disattesa l'istanza di riunione con il giudizio d'appello relativo alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a favore della banca popolare di Cesena, rigettava l'appello principale e dichiarava inammissibile quello incidentale.

La corte d'appello osservava, tra l'altro:

- che era infondata l'eccezione di difetto di rappresentanza processuale del Credito romagnolo nel proporre il ricorso per ingiunzione poiché i due funzionari della sede di Rimini che avevano rilasciato congiuntamente la procura erano leggitimati a farlo in base a delibere del consiglio di amministrazione della banca;

- che il rifiuto, da parte della stessa banca, delle offerte (prima irrituale e poi reale) fatte dal Frigiola era legittimo ai sensi dell'art. 1181 c.c. poiché le stesse non comprendevano anche gli accessori del credito (interessi e spese legali);

- che le clausole contenute nei contratti di conto corrente bancari, di determinazione degli interessi alle condizioni praticate usualmente dalle banche su piazza, rispettavano il requisito della forma scritta richiesto dall'art. 1284 c.c. e non costituivano clausole vessatorie;

- che, poiché nel corso dei pluriennali rapporti di conto corrente intercorsi tra le parti, gli estratti conto periodici non erano mai stati contestati specificamente nei termini pattuiti ai sensi dell'art. 1832 c.c. dalla società Camelot, doveva ritenersi che essi rispecchiassero gli accordi intervenuti tra le parti e fornissero la prova dei crediti delle banche anche nei confronti dei fideiussori;

- che le fideiussioni "omnibus" erano valide e che ad esse non era applicabile il nuovo testo dell'art. 1938 c.c. introdotto con la legge n. 154/1992 non avendo questa efficacia retroattiva.

Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, congiuntamente, la Monti ed il Frigiola, deducendo otto motivi illustrati da memoria.

Il Credito romagnolo s.p.a. e la Banca popolare dell'Emilia-Romagna (già Banca popolare di Cesena) hanno resistito con separati controricorsi, mentre gli altri intimati non si sono costituiti.

Motivi della decisione

1 - La sentenza impugnata, come si è esposto nella parte narrativa, ha definito più cause riunite ai sensi dell'art. 274 c.p.c.: quella di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal Credito romagnolo proposta dai fideiussori e quelle proposte ai sensi dell'art. 100 l. fall. da Vittoriana Monti nei confronti della predetta banca nonché della banca popolare di Cesena.

Com'é noto (v. tra le altre, le sentenze n. 2402/1995, n. 12703/1993, n. 5773/1991), il provvedimento di riunione di più cause connesse lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi e delle posizioni delle parti in ciascuno di essi; la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve in altrettante pronunzie quante sono le cause decise e ciascuna pronuncia è soggetta al rispettivo regime di impugnazione.

Nel caso in esame, pertanto, in relazione alla causa di opposizione a decreto ingiuntivo, deve ritenersi applicabile l'ordinario termine di sessanta giorni previsto per il ricorso per cassazione dall'art. 325 c.p.c.. In relazione alle cause proposte dalla Monti ai sensi dell'art. 100 l. fall. resta, invece, applicabile il termine di trenta giorni previsto dall'art. 99, 5° comma 1. fall. richiamato dall'ultimo comma del citato art. 100 (v. per analoga fattispecie, Cass. n. 190/1979; Cass. n. 3016/1974) a nulla rilevando l'avvenuta riunione delle cause e l'intervenuta chiusura del fallimento che non ha determinato l'interruzione del processo né la cessazione della materia del contendere nelle cause fallimentari come ha affermato la sentenza impugnata (pagg. 22-24) con statuizioni non censurate e coperte da giudicato.

La riduzione dei termini c.d. brevi di impugnazione prevista dal citato art. 99 l. fall. non resta esclusa a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 152/1980 (che ha dichiarato l'illegittimità della norma solo nella parte in cui faceva decorrere detti termini dall'affissione della sentenza), né, contrariamente alla tesi prospettata dai ricorrenti nella memoria ex art. 378 c.p.c., si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., trovando giustificazione nelle esigenze di celerità del giudizio e non pregiudicando il diritto di difesa delle parti (v. ordinanza della Corte cost. n. 271/1990 e, tra le altre, Cass. 6 luglio 1988, n. 4426).

Dalle indicate premesse deriva l'inammissibilità del ricorso proposto da Vittoriana Monti nei confronti di entrambe le banche nelle cause da lei promosse ai sensi dell'art. 100 l. fall.. Infatti, la sentenza impugnata è stata notificata il 6 ed il 10 settembre 1993; il termine di trenta giorni per l'impugnazione, tenendo conto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, cominciava a decorrere il 16 settembre e scadeva il 15 ottobre successivo mentre il ricorso per cassazione è stato notificato il 4 e il 5 novembre 1993, rispettivamente alla banca popolare dell'Emilia Romagna ed al Credito romagnolo. In relazione a tali cause, come ha ritenuto la corte di merito con statuizione non impugnata, il Frigiola era privo di legittimazione, non avendo egli proposto la domanda ex art. 100 l. fall., di modo che il ricorso da lui pure proposto con riguardo a tali cause è inammissibile anche per difetto di legittimazione a proporre l'impugnazione.

Dall'inammissibilità del ricorso e dalla formazione del giudicato nelle predette cause non deriva, contrariamente all'assunto del Credito romagnolo, che l'accertamento del credito di detta banca verso la Camelot Mode (debitrice principale) faccia stato anche nella distinta causa di opposizione al decreto ingiuntivo promossa dalla Monti e dal Frigiola nei confronti della stessa banca nella veste di fideiussori.

Come si è sopra detto il provvedimento di riunione lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi e delle posizioni delle parti in ciascuno di essi.

Il giudicato postula l'identità dei tre elementi costitutivi dell'azione ("personae", "petitum" e "causa petendi") e la diversità anche di uno solo di tali elementi impedisce la configurabilità del giudicato stesso.

Nella specie, con riferimento alla posizione della Monti, deve rilevarsi la diversità dell'ultimo degli indicati elementi poiché nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo ella ha agito nella qualità di garante della debitrice poi fallita mentre nelle cause ex art. 100 l. fall. ha agito quale creditrice ammessa al passivo e tali cause erano proponibili solo in detta qualità, non essendo astrattamente configurabile l'esercizio in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. di azioni spettanti al curatore del fallimento, posto che questi non è legittimato ad impugnare i crediti ammessi allo stato passivo (cfr. Cass. 27 luglio 1994 n. 7024).

Pertanto, il ricorso proposto dalla Monti e dal Frigiola nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal Credito romagnolo va esaminato in tutti i suoi motivi.

2 - Con il quinto motivo di detto ricorso, da esaminarsi preliminarmente per ragioni di priorità logico-giuridica, denunziandosi violazione degli artt. 1418 e 1355 c.c., si deduce la nullità della fideiussione "omnibus" per indeterminabilità dell'oggetto e per essere sottoposta a condizione meramente potestativa, essendo le banche "libere, a loro discrezione, di concedere altri finanziamenti al debitore principale, cosi obbligando l'ignaro fideiussore".

Il motivo è infondato.

E' giurisprudenza costante di questa corte suprema dalla quale non vi è motivo per discostarsi che, nel vigore del testo originario dell'art. 1938 c.c., la fideiussione c. d. "omnibus" deve ritenersi valida ed efficace stante la determinabilità "per relationem" dell'oggetto del contratto sulla base degli atti di normale esercizio dell'attività creditizia, sottratti al mero arbitrio della banca (v. "ex plurimis" Cass. nn. 9719/1992 e 6656/1987).

3 - Strettamente collegato al motivo esaminato è quello successivo con il quale si denunzia la violazione delle disposizioni della l. 17 febbraio 1992 n. 154 (entrata in vigore nel corso del giudizio di appello) e si sostiene che in particolare dovrebbe trovare applicazione l'art. 10 che, riformulando l'art. 1938 c.c. esige la previsione dell'importo massimo garantito dal fideiussore per le obbligazioni future.

La tesi non può essere condivisa.

La norma citata introduce innovazioni sostanziali che investono la validità del contratto fideiussorio e delle sue clausole e, quindi, i fatti generatori dei diritti da esso derivanti.

Tale "jus superveniens", pertanto, non opera rispetto a fideiussioni anteriori ancorché sia pendente controversia, alla stregua del principio secondo cui la norma sostanziale, in difetto di previsione di retroattività come nella specie, non può travolgere diritti già sorti nel vigore della legge precedente mediante una nuova disciplina in ordine ai requisiti di validità del titolo costitutivo (v. sentenze nn. 3291/93, 2115 e 3764/94, n. 4117/95).

Per lo stesso ordine di considerazioni non possono trovare applicazione nella presente controversia la norma dettata dall'art. 4, 3° comma della citata legge n. 154/92 (secondo il quale le clausole contrattuali di rinvio agli usi solo nulle e si considerano non apposte) nonché quella dell'art. 7 della legge stessa (che disciplina la decorrenza delle valute). Invero, i requisiti di validità dei contratti (o delle clausole contrattuali) sono regolati dalla legge del tempo in cui essi vengono conclusi.

4 - Con il primo motivo, denunziando violazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 112 c.p.c. nonché vizio di motivazione, i ricorrenti addebitano alla corte territoriale: a) di avere errato non ritenere provata la pretesa della banca poiché l'efficacia probatoria dei "saldaconti" di cui all'art. 102 della legge bancaria di cui al r.d (NDR: così nel testo). 7 marzo 1938 n. 141 è limitata al procedimento per ingiunzione e non si estende al giudizio di cognizione; b) di avere qualificato erroneamente i saldaconti come estratti-conto; c) di avere omesso di pronunciare sull'eccezione degli appellanti relativa alla mancata prova dei crediti.

Il motivo non merita accoglimento.

La corte territoriale ha ritenuto provata la pretesa della banca nei confronti della debitrice principale e dei fideiussori sulla base degli estratti conto prodotti nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e non ha fatto alcun riferimento al saldaconto previsto dalla citata norma della legge bancaria peraltro solo per alcuni tipi di istituti di credito (Banca d'Italia, istituti di diritto pubblico, banche d'interesse nazionale, casse di risparmio) tra i quali non rientra la predetta banca.

Il richiamo fatto a tale norma non appare quindi pertinente e di conseguenza non assume alcun rilievo nel caso di specie il principio affermato dalla sentenza delle sezioni unite di questa corte n. 6707/94, richiamata dai ricorrenti secondo il quale l'efficacia probatoria del saldaconto non si estende al procedimento di cognizione.

Poiché la corte di merito si è riferita solo agli estratti conto di cui all'art. 1832 c.c. periodicamente inviati alla debitrice principale, è priva di fondamento la censura sopra indicata sub b).

Né sussiste il vizio di omessa pronuncia sull'eccezione degli appellanti di mancanza di prova del credito della banca dal momento che la stessa corte ha respinto tale eccezione, ritenendo provato il credito.

5 - Col secondo motivo i ricorrenti denunziano: "violazione degli artt. 1284 e 1346 c.c. nonché mancata applicazione dell'art. 1418, 2° comma c.c. - violazione degli artt. 2697 c.c, 112 e 187 c.p.c. come richiamati dall'art. 359 c.p.c. - vizio di motivazione per mancato esame e mancato apprezzamento delle risultanze peritali, cioé di un punto decisivo della controversia".

Al riguardo sostengono che la corte di merito avrebbe errato nel riconoscere come validi gli interessi applicati dalla banca in misura superiore a quella legale in quanto essi andavano pattuiti per iscritto e specificamente accettati, trattandosi di clausola vessatoria e, comunque, non potevano essere riferiti genericamente a quelli usuali perché sulla piazza di Rimini non esistevano tassi uniformi di interessi praticati dalle banche, come essi ricorrenti avevano chiesto di provare formulando specifiche richieste e come, del resto, si desumeva dalle risultanze della consulenza tecnica esperita in primo grado (nelle cause ex art. 100 l. fall.). Il motivo non merita accoglimento. Rileva anzitutto il collegio che è giurisprudenza costante di questa corte (v., tra le altre, sentenza n. 9839/92) che la clausola con la quale viene pattuita la corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale non rientra tra le clausole che debbano essere specificamente approvate per iscritto a norma dell'art. 1341 c.c..

Quanto all'indicazione per "relationem" del tasso pattuito ("condizioni praticate usualmente dalle banche su piazza") è pure da rilevare che è giurisprudenza consolidata di questa corte, dalla quale non vi è motivo per discostarsi, che l'obbligo della forma scritta "ad substantiam", imposto dall'art. 1284 u.c.c.c. non comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il tasso di interesse, ma, in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile, il detto obbligo è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indicano criteri oggettivi che consentono la quantificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga "per relationem" mediante il richiamo ad elementi estranei al contratto come quando in un contratto di conto corrente bancario si faccia riferimento, al predetto fine, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza (v. sentenze nn. 2765/92, 4617/90, 2644/89, 9518/87, 1112/84).

Siffatto tipo di clausola non si riferisce ad un uso normativo ma vale ad ancorare la misura degli interessi a fatti oggettivi, certi e di agevole riscontro (essendo i tassi medi pubblicati dal bollettino della Banca d'Italia e costituendo il tasso ufficiale di sconto un preciso punto di riferimento per tutti gli altri tassi).

I tassi che le aziende di credito praticano di solito sono fissati con criteri obiettivi no influenzabili dal singolo istituto bancario.

Il correntista, pertanto, al momento della stipulazione del contratto, è in grado di sapere, secondo l'ordinaria diligenza, che gli interessi sono suscettivi di variazione nel tempo ed è in grado di verificare, nel corso del rapporto, l'andamento degli stessi, adeguando di conseguenza il proprio comportamento.

Nella specie, in particolare, come risulta dalla sentenza impugnata (pag. 29), il contratto di conto corrente conteneva una clausola - specificamente approvata per iscritto - che prevedeva la possibilità di modificare le condizioni praticate anche con semplici avvisi nei locali dell'istituto né gli stessi ricorrenti assumono che tali avvisi non siano stati dati durante il pluriennale rapporto intercorso con la banca.

Non vertendosi in ipotesi di uso normativo, la mancanza di una totale uniformità o precisa corrispondenza tra i tassi di interesse praticati dalle varie banche sulla piazza di Rimini non è di per sé idonea ad incidere sulla validità della clausola contrattuale di determinazione degli interessi ai sensi dell'art. 1284 u.c.c.c..

La corte di merito ha mostrato conseguentemente ed esattamente di ritenere irrilevanti a tal fine le istanze istruttorie avanzate dagli appellanti e le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio in ordine all'inesistenza di coincidenza tra i tassi praticati dalle banche in Rimini e non è, pertanto, incorsa nella denunciata violazione dell'art. 112 c.p.c. ed in vizio di motivazione su punto decisivo.

Neppure sussiste la dedotta violazione dell'art. 2697 c.c.. Nella sentenza impugnata l'esistenza del patto di interessi ultralegali è stata affermata in base alla sottoscrizione del modulo contrattuale che conteneva la clausola suddetta.

La c.d. approvazione tacita del conto non è stata valutata dalla stessa sentenza nel senso che potesse supplire alla mancanza dell'avvenuta osservanza dei requisiti formali richiesti dalla legge "ad substantiam", bensì in funzione della corretta applicazione, da parte della banca, dei tassi vigenti nei periodi cui si riferivano gli estratti-conto non contestati. E l'argomentazione deve essere condivisa perché, una volta accertata l'esistenza di patto scritto circa la corresponsione degli interessi bancari, l'approvazione ripetuta di estratti conto può valere, per la sua natura confessoria, a far ritenere che il concreto ammontare degli interessi computati dalla banca sia avvenuto in conformità del criterio dettato in via preventiva con la clausola (cfr. Cass. 1112/1984 in motivazione).

6 - Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere ritenuto infondate le doglianze attinenti allo "scarto di valute" (anticipazioni di addebiti o posticipazioni di accrediti sul conto corrente) e denunziano al riguardo: a) violazione degli artt. 1173, 1175, 1321, 1326, 1362, 1375 c.c.; b) mancata applicazione degli artt. 2043 e 2058 c.c.; c) mancata applicazione dell'art. 2041 c.c. in relazione all'art. 112 c.p.c..

Il motivo non merita accoglimento.

In relazione alla censura sub a) deve considerarsi che la corte territoriale ha affermato che tra le parti del rapporto di conto corrente bancario erano intervenuti degli accordi in ordine "agli scarti di valuta" nel senso risultante dagli estratti-conto inviati dalla banca alla Camelot Mode non essendo mai state mosse contestazioni al riguardo nel corso del rapporto pluriennale intercorso tra le stesse parti.

I ricorrenti, attraverso la deduzione - peraltro generica - di violazione di norme di legge, sostengono in realtà l'inesistenza di qualsiasi pattuizione al riguardo in contrasto con l'apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito che non è censurabile in questa sede non essendo stato criticato sotto il profilo del vizio di motivazione.

Il richiamo alle norme sull'illecito aquiliano contenuto nella censura sub b) non è pertinente. Invero, la contestazione in ordine a determinate partite del conto corrente non può configurare un illecito extracontrattuale ma inequivocamente, in ipotesi, un inadempimento al relativo contratto.

Per quanto concerne, infine, la doglianza sub c) si osserva che non sussiste la dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c. poiché l'azione di indebito arricchimento, non essendo stata proposta specificamente, non poteva essere esaminata d'ufficio dal giudice.

La specificità del titolo di azione di indebito arricchimento, infatti, fa sì che la questione della sua individuazione esorbiti dai limiti della mera qualificazione della domanda originariamente formulata ed esclude che essa azione si possa ritenere proposta per implicito in una domanda fondata su un altro titolo (v. tra le altre, Cass. n. 6612/92, n. 1738/83). 7 - Anche il quarto motivo di ricorso è articolato in diverse critiche al giudizio espresso nella sentenza impugnata in ordine all'intervenuta approvazione tacita degli estratti conto.

Con la prima censura i ricorrenti deducono che la corte di merito avrebbe errato nel ritenere che le contestazioni da loro mosse non fossero specifiche e sarebbe, pertanto, incorsa nella violazione o falsa interpretazione dell'art. 1832 c.c., dando luogo a vizio logico-giuridico della motivazione.

La censura non merita accoglimento.

La corte territoriale, come si è già detto, ha rilevato che gli estratti-conto inviati dalla banca alla società Camelot nel corso del pluriennale rapporto di conto corrente non erano mai stati contestati ed ha perciò ritenuto che gli stessi rispecchiassero gli accordi intervenuti tra le parti richiamando al riguardo l'art. 1832 c.c. "laddove stabilisce che l'estratto conto si intende approvato se non è contestato specificamente nel termine pattuito che nel caso in esame è appunto di 40 giorni dal ricevimento".

Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione di legge né il vizio di motivazione posto che, come ha affermato ripetutamente questa suprema corte, le risultanze dell'estratto di conto corrente possono essere disattese solo in presenza di tempestive contestazioni specifiche dirette contro determinate annotazioni (v. tra le altre, sentenze nn. 2765/92, 3176/88, 5409/83).

Con la seconda censura si addebita alla corte d'appello di avere affermato che "i fideiussori non sono autorizzati a sollevare contestazioni relative alla definitività" degli estratti conto mentre, da un lato, l'art. 1945 c.c. consente specificamente al fideiussore di proporre tutte le eccezioni che sarebbero consentite al debitore principale e dall'altro che l'art. 2900 c.c. lo consente genericamente secondo i principi generali in materia di surroga.

Anche questa censura è infondata. La corte territoriale ha affermato che i fideiussori non potevano sollevare alcuna contestazione in ordine alla definitività degli estratti conto in virtù di specifica clausola contrattuale (lettera "g") e tale accertamento di fatto non è stato censurato né e censurabile in questa sede.

D'altra parte deve osservarsi che la definitività degli estratti conto non tempestivamente contestati dal correntista vale anche nei confronti del fideiussore: questi, pertanto, se convenuto per il pagamento del saldo non può sollevare alcuna contestazione in merito (v., tra le altre, Cass. n. 1101/95, n. 7958/90).

Con la terza censura si deduce che la sentenza impugnata avrebbe male applicato l'art. 1832 c.c. anche ai rendiconti periodici ed avrebbe violato la stessa norma nel ritenere che l'addebito degli "scarti di valuta" non rientrasse nell'ipotesi prevista dal secondo comma e "nel caso della sempre ammissibile contestazione della validità degli atti giuridici dai quali le poste traggano il proprio fondamento".

La censura non merita accoglimento sotto entrambi i profili. Quanto al primo è sufficiente richiamare il principio consolidato nella più recente giurisprudenza di questa corte (sentenze n. 4310/77, n. 1112/84) secondo il quale, si sensi dell'art. 1832 c.c. "estratto conto" è anche quello che concerne una delle chiusure che periodicamente intercorrono durante le svolgimento del rapporto di conto corrente che includa tutte le voci a credito e a debito ricadenti nel periodo considerato.

In ordine al secondo profilo deve osservarsi che non è concludente il richiamo agli errori di scritturazione, di calcolo, per omissioni o duplicazioni di cui all'art. 1832, 2° comma c.c. né è pertinente il richiamo al principio secondo il quale l'approvazione del conto non estende la sua efficacia alla validità del titolo giuridico in base al quale l'annotazione stessa è stata effettuata.

Infatti, in relazione agli "scarti di valuta" la sentenza impugnata ha ritenuto, da un lato, con accertamento di fatto incensurabile in questa sede, che le "datazioni" delle operazioni erano concordate tra le parti e, dall'altro lato, ha esattamente considerato che la questione relativa non concerneva contestazioni riguardanti la mancanza di un titolo giuridico per i singoli accreditamenti o addebitamenti nel conto corrente, ma si risolveva in una questione di fatto attinente alla decorrenza delle varie operazioni sicché rientrava tra quelle per le quali operava l'efficacia preclusiva dell'approvazione degli estratti conto.

L'ultimo profilo di censura, con il quale i ricorrenti deducono violazione dell'art. 2697 c.c. sul rilievo che la banca non avrebbe fornito la prova dell'invio per mezzo di raccomandata dell'estratto conto finale di chiusura del rapporto, è inammissibile perché riguarda una questione nuova (coinvolgente valutazione delle risultanze processuali) non dedotta nel giudizio d'appello e, pertanto, inammissibile in questa sede.

8 - Col settimo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 2384, 83 e 115 c.p.c. e sostengono che la corte di merito avrebbe errato nel ritenere, sulla base di documenti peraltro tardivamente prodotti, che i funzionari della banca che avevano firmato la procura per il procedimento monitorio avessero il potere di rappresentanza.

Il motivo non merita accoglimento per l'assorbente considerazione che il preteso difetto di legittimazione processuale è stato comunque sanato con effetto retroattivo dalla costituzione nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo del legale rappresentante della banca (consigliere delegato dott. Cirri) come risulta dal ricorso per cassazione (pag. 34). E' noto, infatti,(v. per tutte: Cass. n. 1186/87) che qualora la persona giuridica sia stata presente nel processo per mezzo di persona fisica non abilitata a rappresentarla, il difetto di legittimazione processuale è sanato con effetto retroattivo, rispetto alle eventuali nullità da esso dipendenti, mediante la costituzione, in qualsiasi stato e grado del processo (sempreché il giudice non abbia rilevato quel difetto traendone le debite conseguenze in ordine all'inammissibilità della domanda o dell'impugnazione), del legale rappresentante della persona giuridica stessa il quale ratifichi espressamente o tacitamente (come è avvenuto nella specie) la condotta precedente a tale costituzione.

9 - Con l'ottavo ed ultimo motivo i ricorrenti denunziando violazione degli artt. 1181, 1175, 1208, 1220, 1223 e 643 c.p.c. nonché vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per avere ritenuto giustificato il rifiuto, da parte della banca, dell'offerta della somma di L. 26.241.557 effettuata in un primo tempo in modo informale e poi in forma reale dopò la notifica del decreto ingiuntivo. Secondo i ricorrenti, invece, la banca avrebbe dovuto accettare il pagamento "a copertura della pura sorte", facendo riserva di azione per il recupero delle spese della ingiunzione già richiesta, costituendo tali spese un'obbligazione distinta rispetto a quella concernente il debito.

Il motivo è infondato.

La corte d'appello (pagg. 24-26 della sentenza) ha rilevato che le offerte fatte dal Frigiola erano incomplete perché non comprendevano anche gli interessi e le spese e ha ritenuto giustificato, ai sensi dell'art. 1181 c.c., il rifiuto del Credito romagnolo, considerando che l'offerta deve comprendere oltre la somma dovuta a titolo di capitale, anche gli interessi e le spese comprese quelle già affrontate dal creditore per il recupero del credito e che i debiti per interessi e spese non sono debiti distinti rispetto al debito principale ma accessori di quest'ultimo.

L'apprezzamento di fatto in ordine alla incompletezza delle offerte è sorretto da adeguata e logica motivazione, né può dubitarsi dell'esattezza dell'affermazione dell'accessorietà del debito per interessi e spese rispetto al debito principale, posto che ai sensi dell'art. 1208 n. 3 c.c., affinché l'offerta sia valida, è necessario che essa "comprenda la totalità delle somme o delle cose dovute, dei frutti, degli interessi e delle spese liquide e una somma per le spese non liquide, con riserva di supplemento se è necessario". Non vertendosi in ipotesi di debiti distinti non giova ai ricorrenti il richiamo fatto alla pronuncia di questa corte n. 1034 del 1967 la quale ha affermato che il principio sancito dall'art. 1181 c.c. - secondo cui il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile (salvo che la legge o gli usi stabiliscano diversamente) - non è applicabile allorché si tratti di debiti distinti.

In conclusione il ricorso proposto nelle cause promosse dalla Monti ai sensi dell'art. 100 l. fall. deve essere dichiarato inammissibile, mentre va rigettato quello proposto nei confronti del Credito romagnolo nella causa di opposizione al decreto ingiuntivo. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti costituite le spese di questa fase di giudizio.

P. Q. M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della Banca popolare dell'Emilia-Romagna e del Credito romagnolo nelle cause di impugnazione dello stato passivo. Rigetta il ricorso nei confronti del Credito romagnolo nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo. Compensa interamente tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 18 MAGGIO 1996

 

 

CASS. CIV., SEZ. III, 25/08/1992, N.9839

 

L'obbligo della forma scritta ad substantiam per la pattuizione di interessi eccedenti la misura legale si deve ritenere ugualmente soddisfatto quando nel documento contrattuale le parti abbiano indicato criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta quantificazione del tasso d'interesse, ancorché ciò avvenga per relationem mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso (nella specie, le clausole negoziali fissavano gli interessi dei conti correnti riferendosi alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza).

La clausola con cui viene pattuita la corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale non rientra tra le clausole (c.d. vessatorie) che debbono essere specificamente approvate per iscritto.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Franco BILE Presidente

" Giorgio CHERUBINI Consigliere

" Lorenzo PITTÀ "

" Francesco SOMMELLA "

" Vito GIUSTINIANI Rel. "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

Ric. N. 12598/88

ATTUCCI ENRICO - ATTUCCI GIOVANNI e MARINARI LORENZA elettivamente domiciliati in Roma Piazza Del Fante n. 2 c/o lo studio dell'Avv. Paolo Napoletano rappresentato e difeso dall'Avv. Graziella Tani Bindi giusta procura a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

BANCA NAZIONALE AGRICOLTURA.

Intimata

Ric. N. 852/89

BANCA NAZIONALE AGRICOLTURA S.p.A. con sede in Roma - Via Salaria n. 231 in persona dei legali rappresentanti - Avv. Luca Ferramosca Condirettore Centrale e Dott. Lucio Sordini Direttore di Sede Principale elettivamente domiciliato in Roma - Via G.G. Belli n. 27 c/o lo studio dell'Avv. Massimo Morgia che lo rappresenta e lo difende giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale.

Controricorrente e ricorrente incidentale

contro

ATTUCCI ENRICO - ATTUCCI GIOVANNI e MARINARI LORENZA.

Intimati

Visto il ricorso avverso la sentenza n. 1437 della Corte di Appello di Roma del 13.4.88/8.6.88 (R.G. 565/86).

Udito il Consigliere Relatore Dr. Vito Giustiniani nella pubblica udienza del 28.1.92.

E' comparso l'avv. M. Morgia che ha chiesto l'accoglimento del ricorso incidentale ed il rigetto del principale.

Sentito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Leo che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

Con decreto ingiuntivo, emesso il 23.2.83 il Presidente del Tribunale di Roma ingiungeva alla AR.CON. S.p.A. debitrice principale ed ai sigg. Attucci Enrico, Attucci Giovanni, Marinari Lorenza, Benvenuti Alessandro e Ghia Zarina, quali avvallanti e fideiussori, di pagare in solido tra loro e senza dilazione, in favore della Banca Nazionale dell'Agricoltura la somma di L. 21.246.639 con gli interessi al tasso convenzionale del 21,25%, pari all'importo di due effetti cambiari, scaduti, emessi dalla ARCON S.p.A. quale mezzo tecnico di smobilizzo dello scoperto del C/C 14297/U, nonché del saldo debitore dello stesso conto, intrattenuto dalla Società predetta presso l'Agenzia EUR di Roma della Banca istante.

Con altro decreto in data 24.2.83 il Presidente del Tribunale di Roma ingiungeva alla S.p.A. Rolling, quale debitrice principale, nonché ai predetti Attucci Enrico, Attucci Giovanni, Marinari Lorenza, Benvenuti Alessandro e Ghia Zarina, quali avvallanti e fideiussori, di pagare in solido e (limitatamente alla somma di L. 20.000.000, quanto alla debitrice principale) senza dilazione, in favore della Banca Nazionale dell'Agricoltura, la somma di L. 248.257.343, risultante, quanto a L. 20.000.000 dall'importo di tre effetti cambiari scaduti emessi dalla Rolling S.p.A., e, quanto al resto, del saldo debitore del C/C 12846/U intrattenuto dalla società predetta presso l'Agenzia EUR di Roma della Banca istante.

Avverso i decreti proponevano opposizione con distinti atti, Marinari Lorenza, Attucci Giovanni e Attucci Enrico, i quali tutti eccepivano: 1) la nullità di inefficacia del contratto di fideiussione a causa della mancata approvazione specifica ai sensi degli art. 1341 e 1342 Cod. Civ., delle clausole - tipiche della c.d. "fideiussioni omnibus" - con le quali essi opponenti avevano prestato garanzia; 2) l'insussistenza di una obbligazione di pagamento di interessi in misura extra-legale per difetto di pattuizione scritta.

Il solo Attucci Giovanni nell'opposizione al decreto n. 2673 eccepiva, altresì, in via preliminare la sopravvenuta inefficacia del decreto stesso (notificato la prima volta il 29.4.83) per il decreto del termine di cui all'art. 644 cpc, da ritenersi non sanata dalla successiva notifica del decreto in data 29/6/83, disposta dal Presidente del Tribunale ex art. 647 cpc. La Banca Nazionale dell'Agricoltura si costituiva e contestava le opposizioni.

Quanto all'eccezione dell'Attucci Giovanni deduceva che il decreto doveva ritenersi notificato nei termini per la compiuta giacenza del plico. Nel merito sosteneva la piena validità del contratto di fideiussione.

Con sentenza 4/7-2/11/1985 il Tribunale di Roma rigettava le opposizioni proposte; dichiarava l'inefficacia sopravvenuta del decreto n. 2673/83 del 24.2.83 nei confronti di Attucci Giovanni e - giudicando nel merito - lo condannava a pagare alla B.N.A. la somma di L. 248.257.343, con gli interessi nella misura del 26,75% dal 29.6.83 al saldo.

Sull'appello di parte degli opponenti e della B.N.A. la Corte d'Appello di Roma riuniva i gravami e li rigettava. Condannava in solido Attucci Enrico, Attucci Giovanni e Marinari Lorenza alle spese del grado, in ragione della metà, in favore della B.N.A..

Riteneva la Corte che il motivo di gravame afferente il rito era privo di fondamento, attesa la nullità della notifica e quindi l'inefficacia del decreto ingiuntivo nei confronti di Attucci Giovanni.

Avendo poi la B.N.A. invocato anche la decisione sul merito nel giudizio di cognizione instauratosi ed avendo l'Attucci Giovanni accettato il contraddittorio, impeccabile si palesava la decisione del Tribunale sul punto.

Ribadiva, quindi, la Corte - pronunciando sull'appello degli stessi Attucci e di Marinari Lorenza che non vi era nullità ed inefficacia dei contratti di fideiussione, poiché l'oggetto dell'obbligazione accessoria era determinabile per relationem; che, al riguardo, sterile si palesava la critica del richiamo fatto dal Tribunale all'art. 1349 c.c., con riferimento alla rimessione al terzo della determinazione dell'oggetto della prestazione. La non determinatezza dell'oggetto non rendeva poi il patto di fideiussione tale da essere ricondotto in una delle previsioni di cui all'art. 1341 c.c..

Propongono ricorso in cassazione gli Attucci e la Marinari con due motivi. Resiste la B.N.A. con controricorso e propone ricorso incidentale con un motivo, illustrato da memoria.

Motivi della decisione

Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte separatamente avverso la stessa sentenza.

Con il primo motivo i ricorrenti denunziano: "Violazione, falsa e/o omessa applicazione degli artt. 1325, 1346, 1349, 1355, 1418, 1938, 1941 cod. civ. e in genere dei principi sulla determinatezza e determinabilità dell'oggetto del contratto, nonché carenza di motivazione".

Assumono i ricorrenti Attucci Enrico, Attucci Giovanni e Marinari Lorenza che la fideiussione cosiddetta omnibus prestata a garanzia di qualsiasi obbligazione presente o futura del debitore principale, non contenendo alcuna indicazione dei criteri o dei limiti, dai quali dedurre la natura e l'entità delle obbligazioni del debitore al momento della stipulazione della garanzia, è nulla per assoluta indeterminabilità dell'oggetto contrattuale.

Né - ad avviso dei ricorrenti - un generico rinvio a tutte le obbligazioni che sorgeranno a carico del debitore garantito può costituire un criterio di determinazione "per relationem" dell'oggetto della garanzia, trattandosi di un rinvio in bianco a debiti futuri, laddove la determinabilità del debito e del rischio devono essere valutabili al presente, al momento, cioè, della stipula della garanzia e non per il futuro quando la garanzia opererà.

Rilevano che, nella specie, la fideiussione garantiva: "qualsiasi altra obbligazione che il debitore principale si trovasse in qualsiasi momento ad avere verso codesta Banca in relazione ad operazioni consentite a terzi per qualsivoglia titolo o causa" e deducono che tutto ciò consente alla banca di concludere, a suo arbitrio, i negozi della più varia ed insospettata indole, per un ammontare non determinato e non determinabile, sicché al garante viene tolto, fin dall'inizio, il calcolo ed il controllo degli oneri che ne derivano a suo carico.

Né - assumono - la determinazione dell'oggetto del contratto può ritenersi affidata ex art. 1349 c.c. ad un terzo, considerandosi come terzo il debitore garantito, atteso che il debitore non può ritenersi terzo rispetto al rapporto dal quale viene a dipendere il suo contratto bancario. Di tal che egli - lungi dall'essere un terzo arbitratore - è interessato a coinvolgere il fideiussore nei propri indebitamenti con la banca. Consegue - ad avviso dei ricorrenti - che il contratto di fideiussione omnibus - quale contratto atipico - non coincidente col contratto tipico di fideiussione ex art. 1936 e segg. c.c., è nullo non soltanto per la indeterminatezza dell'oggetto, ma anche per la illiceità della causa (apprezzabile solo nei contratti atipici) e perché contrario ai principi di correttezza e buona fede in materia di obbligazioni.

La censura non ha fondamento. È giurisprudenza costante di questa Corte Suprema, dalla quale non vi è motivo di discostarsi (Cass. n. 4783 del 1984; Cass. n. 6656 del 1987; Cass. n. 3362 del 1989; Cass. 3386 del 1989; Cass. n. 2790 del 1991) che la fideiussione cosiddetta omnibus va inquadrata nello schema contrattuale della fideiussione e non è un contratto atipico a sé stante; che la garanzia personale, prestata in favore di un istituto di credito per tutte le obbligazioni derivanti da future operazioni bancarie con un terzo (al pari delle clausole del relativo contratto, con cui il garante dispensi l'istituto medesimo dall'onere di conseguire specifica autorizzazione per nuove concessioni di credito in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore principale) deve ritenersi valida ed efficace, in considerazione della determinabilità per relationem dell'oggetto della fideiussione, sulla base di atti di normale esercizio dell'attività creditizia, sottratti, cioè, al mero arbitrio della banca, nonché in considerazione della disponibilità dei diritti del fideiussore, in ordine alla valutazione dell'opportunità dei finanziamenti in presenza di mutate situazioni economiche del debitore principale. È dato, peraltro, rilevare che, nel caso di specie, la fideiussione è stata prestata in base a clausole ampie, con ogni dispensa, sicché soltanto nel caso la banca avesse agito, violando i principi generali della correttezza e della buona fede, i rilievi dei ricorrenti avrebbero potuto avere rilevanza.

Sennonché i ricorrenti, nel caso di specie, non contestano alla banca la violazione concreta dei menzionati principi, bensì, in astratto, la validità stessa della fideiussione omnibus per l'indeterminatezza dell'oggetto dell'obbligazione al momento della stipula del contratto e la conseguente illegittimità che la determinabilità dell'oggetto venga, in sostanza, rimessa poi allo stesso debitore garantito, che non è un terzo, ma una delle parti del contratto, che definiscono trilatero.

Tutte questioni già esaminate e risolte nelle ricordate sentenze n. 3362 e n. 3386 del 1989 di questa Corte, per cui superfluo si palesa il riesporne i principi, ormai consolidati. In particolare, quanto al rilievo che il debito garantito dev'essere determinato al presente, e non al futuro, in base a parametro di normale prevedibilità, si è replicato nelle menzionate sentenze, che, posta la distinzione fra oggetto del negozio e oggetto del rapporto, la prefigurazione, nel negozio, del bene futuro che, alla scadenza, rappresenterà l'oggetto concreto del rapporto di garanzia, si realizza giuridicamente con l'indicazione, nello stesso contesto dell'atto, del procedimento attuale, idoneo alla determinazione del requisito mancante; e che, del resto, la condizione in cui si trovano i contraenti di poter stabilire soltanto ex post l'effettivo ammontare della somma dovuta dal debitore principale, e, quindi, l'effettiva dimensione del rischio assunto dal garante, è un inconveniente comune a tutti i sistemi imperniati su un meccanismo esterno di determinazione dell'oggetto della prestazione (clausola oro, numeri indice ecc.) sistemi la cui applicazione conduce a risultati talora ben diversi da quelli prevedibili al tempo della conclusione del contratto e ciononostante non vi è dubbio che tali contrasti siano validi.

In ordine al rilievo che dall'attività del terzo nella determinazione dell'oggetto contrattuale non si possa trarre argomento per stabilire un criterio di validità della fideiussione omnibus (art. 1349 c.c.), è dato rilevare che se è vero che (Cass. n. 4738 del 1984 e Cass. n. 3362 del 1989) la disposizione dell'art. 1349 c.c. non è invocabile, perché essa riguarda l'affidamento a un terzo estraneo al compito di determinare la prestazione dedotta in contratto - il che non si attaglia agli elementi caratteristici della fideiussione omnibus - è pur vero che, nel caso di specie, il problema non si pone, in quanto la Corte d'Appello, nella motivazione della sentenza impugnata, non ha posto a fondamento della decisione la norma avanti indicata, bensì il principio della determinabilità "per relationem" dell'obbligazione del fideiussore nella specchiatura affermata dalla giurisprudenza di questa Corte, come avanti menzionata. È poi appena il caso di rilevare che le modifiche apportate dall'art. 10 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 agli artt. 1938 e 1956 cod. civ., promulgata nel corso della pubblicazione della presente sentenza, non hanno influenza alcuna su questa decisione, in quanto il citato art. 10 avrà efficacia, per volontà del legislatore - giusta il successivo art. 11 - "trascorsi centoventi giorni" dalla data di entrata in vigore della legge, questa pubblicata sulla G.U. n. 45 del 24 febbraio 1992.

Pertanto, nel caso in esame, va affermato che la natura delle obbligazioni del debitore principale, anche dipendenti da rapporti di terzi con la banca, è individuabile sin dall'origine, dovendo le obbligazioni essere contenute, per norma di legge e di contratto, nell'ambito delle operazioni bancarie comunemente intese, sicché per la quantificazione in futuro del debito è irrilevante la preventiva individuazione, nel momento della stipula del contratto, dell'operazione bancaria da effettuarsi successivamente (sempreché - si intende - l'operazione sia lecita), anche perché il fideiussore, nel momento della stipula, è libero di assumere l'impegno di garanzia a seguito di una consapevole valutazione della capacità, serietà ed onestà della persona da garantire, con la conseguenza che eventuali leggerezze non possono non ricadere su sé stesso.

Il primo motivo di ricorso va, dunque, respinto.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano: "Violazione degli artt. 1284, terzo comma, e 1341, secondo comma, cod. civ. ed omessa, insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c.)". Sostengono che la Corte ha errato nel riconoscere come validi gli interessi applicati dalla banca in misura superiore alla legale, in quanto, trattandosi di clausola vessatoria, essi andavano pattuiti per iscritto ed accettati espressamente; comunque, non potevano essere riferiti genericamente a quelli correnti sulla "piazza".

La censura, come proposta, prospetta questioni nuove.

In primo grado, i ricorrenti avevano sostenuto, per la legittimità della richiesta del creditore, la necessità di un proprio patto scritto derogativo della misura legale; patto che assumevano - invece, mancasse. In grado d'appello hanno sostenuto che la questione era assorbita dalla nullità complessa del contratto di fideiussione. Ora invocano l'obbligo - per quanto attiene agli interessi ultralegali - dell'approvazione specifica per iscritto ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, cod. civ. e l'illegittimità del riferimento generico alla misura praticata sulla piazza.

Rileva il Collegio che - a parte la novità della questione come proposta - è giurisprudenza costante di questa Corte che la clausola con la quale viene pattuita la corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale non rientra fra le clausole che debbono essere specificamente approvate per iscritto a norma dell'art. 1341 c.c. (Cass. 7 luglio 1976, n. 2546; Cass. 13 febbraio 1968, n. 487).

Quanto all'indicazione "per relationem" del tasso pattuito (condizioni praticate su piazza) è da rilevare che è giurisprudenza di questa Corte che: "L'obbligo della forma scritta ad substantiam, imposto dall'art. 1284, ultimo comma, cod. civ. per la pattuizione di interessi eccedenti la misura legale, non comporta che il documento negoziale debba necessariamente indicare in cifre il tasso di interesse, ma, in coerenza con il principio secondo cui l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile, il detto obbligo è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indicano criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta quantificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso, come quando, in un contratto di conto corrente bancario, si faccia riferimento, al predetto fine, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, giacché tali condizioni vengono fissate su scala nazionale con accordi di cartello, per modo che il rinvio al tasso usuale vale ad ancorare la misura degli interessi a fatti oggettivi, erti e di agevole riscontro, non influenzabili dal singolo istituto bancario" (Cass. 12 novembre 1987, n. 8335). Anche nel caso in esame, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito, la riferibilità agli usi di piazza - per quanto concerne gli interessi - contenuta nelle clausole contrattuali è, quindi, di eguale riscontro e perciò determinabile.

Ne deriva che correttamente la decisione impugnata ha ritenuto la piena validità del patto relativo agli interessi, attesa l'autonomia negoziale delle parti al riguardo, onde il rigetto anche del secondo motivo di ricorso.

Passando all'esame del ricorso incidentale, va osservato che la B.N.A. denunzia: "Violazione dell'art. 92, secondo comma, c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.".

Assume che la Corte d'Appello non ha giustificato la disposta parziale compensazione delle spese processuali.

La censura non ha alcun fondamento.

È dato rilevare che la Corte d'Appello ha pronunciato la compensazione - per la metà - delle spese processuali tra le parti, ponendo l'altra metà a carico degli "opponenti appellanti", attesa la "prevalente soccombenza" di questi ultimi. Ha ritenuto, cioè, che, sia pur in piccola parte, vi fosse - e giustamente - una soccombenza della banca (quanto meno nei confronti di uno dei coobbligati, Attucci Giovanni).

Orbene, è jus receptum che la compensazione totale o parziale delle spese di lite rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, col solo limite che esse non possono essere poste totalmente a carico della parte vittoriosa. Pertanto, la compensazione delle spese processuali, per il suo carattere squisitamente discrezionale, è insindacabile in sede di legittimità, salvo che non risulti fondata su motivi illogici ed erronei, il che, indubbiamente, non si è verificato nel caso in esame.

Il ricorso incidentale va, dunque, respinto.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese tra le parti di questo giudizio di cassazione.

P. Q. M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Civile, il 28 gennaio 1992.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 25 AGOSTO 1992.