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SENTENZE SULL’USURA

LA CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA N. 457 ANNO 2005

composta dai signori: Presidente: Annibale MARINI; Giudici: Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura), promosso con ordinanza 25 gennaio 2005 dal Tribunale di Lecce, nel procedimento di esecuzione promosso da Mediocredito della Puglia S.p.A. ed altri contro Leonardo Metrangolo ed altri, iscritta al n. 286 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2005.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 novembre 2005 il Giudice relatore Annibale Marini.



Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento di espropriazione immobiliare il Tribunale di Lecce, con ordinanza depositata il 26 gennaio 2005, ha sollevato, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione ed «al principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato», questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura).

La disposizione impugnata dispone che la sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista al comma 4 in favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l'elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, abbia effetto «a seguito del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il presidente del tribunale».

Espone il rimettente che – nel procedimento esecutivo di cui si tratta – il Prefetto di Lecce, nonostante il parere contrario del presidente del Tribunale, ha espresso parere favorevole ad una nuova sospensione di trecento giorni dei termini del processo esecutivo, pur avendo il debitore esecutato già goduto una volta, nel medesimo procedimento, del suddetto beneficio.

Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata non possa essere interpretata nel senso di consentire che la sospensione del procedimento per trecento giorni venga disposta per più di una volta, ostandovi non soltanto la lettera della disposizione ma anche la sua ratio, evidentemente ispirata al contemperamento tra «le legittime aspettative del debitore che sia stato vittima dei reati di usura e di estorsione» e «le contrapposte esigenze di tutela dei creditori che la procedura esecutiva mira a soddisfare, almeno parzialmente».

L'intero impianto della legge, in uno con le norme del regolamento di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 agosto 1999, n. 455 (Regolamento recante norme concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura, ai sensi dell'articolo 21 della legge 23 febbraio 1999, n. 44), renderebbe d'altro canto palese l'intenzione del legislatore di circoscrivere in lassi temporali assai ristretti la definizione delle richieste avanzate al Fondo di solidarietà, cosicché la sospensione dei procedimenti esecutivi per un periodo, non reiterabile, di trecento giorni risulta più che sufficiente a consentire la conclusione dell'iter amministrativo.

Il giudice dell'esecuzione tuttavia – ad avviso dello stesso rimettente – non può che prendere atto della determinazione del Prefetto, atteso il tenore testuale della disposizione, cosicché la procedura esecutiva di cui si tratta – ed in ciò risiede la rilevanza della questione – dovrebbe essere senz'altro sospesa per ulteriori trecento giorni.

Assume, peraltro, il giudice a quo che la norma, attribuendo ad un funzionario subordinato al potere esecutivo il potere di adottare un provvedimento vincolante per l'autorità giudiziaria, si pone in contrasto sia con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, sia con l'art. 108, secondo comma, della Costituzione, secondo cui la legge assicura l'indipendenza degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia, sia infine con il fondamentale principio di separazione dei poteri, «proprio di ogni Stato democratico».

Il prefetto, infatti, non è un organo indipendente ed imparziale, essendo, al contrario, alle dirette dipendenze del Governo, ed è privo di quelle garanzie, prima fra tutte l'inamovibilità, poste a fondamento della autonomia ed indipendenza dei giudici.

Aggiunge infine il rimettente che la stessa Corte costituzionale, in una serie di pronunce in tema di composizione degli organi giurisdizionali, avrebbe in sostanza affermato il principio secondo cui il prefetto e funzionari comunque dipendenti dal potere esecutivo non possono ingerirsi in alcun modo nell'amministrazione della giustizia.



Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Lecce dubita, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione ed «al principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato», della legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura), secondo cui la sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista al comma 4 in favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l'elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, «ha effetto a seguito del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il presidente del tribunale».

2.– La questione è fondata.

2.1.– Il giudice rimettente muove dal presupposto interpretativo – non implausibile, alla stregua del dato testuale – secondo cui quella attribuita al prefetto dalla norma impugnata non è una funzione meramente consultiva, atteso che la sospensione dell'esecuzione risulta espressamente subordinata al solo “parere favorevole” dello stesso prefetto, in presenza del quale il giudice non può, quindi, che adottare il relativo provvedimento, senza alcuna possibilità di sindacato riguardo alla sussistenza delle condizioni di legge. Così come, all'inverso, il “parere” negativo del prefetto di per sé impedisce la concessione del beneficio.

La valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo in favore dei soggetti presi in considerazione dalla norma risulta, in tal modo, integralmente attribuita (non al giudice dell'esecuzione, bensì) al prefetto, e cioè ad un organo del potere esecutivo, mentre, rispetto a tale valutazione, l'autorità giudiziaria è chiamata a svolgere, attraverso la previsione del parere non vincolante del presidente del tribunale, solo una funzione consultiva.

La violazione dei princìpi costituzionali posti a presidio dell'indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale appare pertanto palese, considerato che il prefetto viene ad essere investito, dalla norma impugnata, del potere di decidere in ordine alle istanze di sospensione dei processi esecutivi promossi nei confronti delle vittime dell'usura; potere che, proprio perché incidente sul processo e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in via esclusiva all'autorità giudiziaria.

2.2.– Se dunque contrasta con i parametri costituzionali invocati dal rimettente l'attribuzione al prefetto del potere di decidere in merito alla particolare ipotesi di sospensione dei processi esecutivi prevista dalla norma impugnata, la norma stessa può, tuttavia, essere ricondotta a legittimità costituzionale mediante l'ablazione della parola «favorevole».

Ciò è sufficiente, infatti, a restituire alla funzione del prefetto un carattere propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura – giurisdizionale e non amministrativa – del provvedimento richiesto, mentre il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo torna ad essere attribuito al giudice, che ne è – in base ai principi – il naturale ed esclusivo titolare.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura), limitatamente alla parola «favorevole».

Così deciso nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2005.

F.to:

Annibale MARINI, Presidente e Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2005.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

 

 

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE 1 CIVILE

SENTENZA DEL 22 LUGLIO 2005, N. 15497

 

MUTUO - MUTUATARIO - INTERESSI - IN GENERE - Pattuizione di interessi usurari - Disciplina di cui alla legge n. 108 del 1996 e relativa interpretazione autentica "ex" art. 1 d.l. n. 394 del 2000 - Applicazione a rapporti esauriti prima della sua entrata in vigore - Esclusione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Rosario De Musis - Presidente

Dott. Giulio Graziadei - Consigliere

Dott. Giuseppe Marziale - Consigliere

Dott. Aldo Ceccherini - Consigliere Relatore

Dott. Carlo De Chiara - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ed. To., elettivamente domiciliato in Ro. Viale delle Mi. 34, presso l'Avvocato An. Bo., rappresentato e difeso dall'Avvocato Se. Ma., giusta procura in calce al ricorso;

ricorrente

contro

Fi. S.r.l., in persone del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Ro. Via Mo. Ze. 30, presso l'Avvocato Gi. Ca., che la rappresenta e difende unitamente all'Avvocato Ra. Pu., giusta procura in calce al controricorso;

controricorrente

avverso la sentenza n. 1168/01 della Corte d'Appello di Bologna, depositata il 29/12/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/04/2005 dal Consigliere Relatore Dott. Aldo Ceccherini;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto De Augustinis che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 31.08.1989, il signor Ed. To. chiamò il giudizio, davanti al Tribunale di Bologna, la Pe. Pe. Fi. S.r.l., chiedendone la condanna alla restituzione della somrna di £ 6.400.000, oltre agli accessori, trattenuta della convenuta a titolo di fondo di garanzia nella misura del 10% dell'importo nominale degli effetti cambiari per complessive £ 64.000.000, scontati all'attore in base ad un contratto concluso nel 1983, somma non restituita nonostante l'intervenuta definizione del rapporto.

La convenuta resistette all'azione, deducendo che il fondo di garanzia era stato interamente assorbito dagli interessi maturaci, a carico del Ed. To., su titoli insoluti o pagati in ritardo, per complessive £ 6.515.000 alla data del 18.04.1989, e che residuava un debito dell'attore per £ 8.250.000 per titoli scontati ma non onorati. La convenuta chiese in via riconvenzionale la condanna dell'attore al pagamento della somma di £ 8.250.000 per titoli insoluti, oltre a £ 115.000 per residui interessi, oltre agli interessi convenzionali e alla commissione di mora nella misura del 5% del massimo scoperto per ogni mese o frazione di esso, con decorrenza dal 18.04.1988 al saldo.

In sede di precisazione delle conclusioni, l'attore chiese dichiararsi la nullità del contratto di "mutuo" posto in essere dalle parti il 21.09.1983, con le conseguenze di legge.

Con sentenza in data 22.12.1998, il Tribunale di Bologna dichiarò l'inammissibilità della domanda proposta dall'attore in sede di conclusioni, e sulla quale la convenuta non aveva accettato il contraddittorio. Nel merito, il tribunale rilevò la nullità della clausola relativa al pagamento della commissione di mora del 5% sul massimo scoperto per ogni mese o frazione di esso, sebbene la fattispecie fosse maturata anteriormente alla L. 7.03.1996 n. 108 e fosse quindi soggetta alla legge anteriore, stanti la rilevabilità d'Ufficio delle nullità contrattuali, la contrarietà all'ordine pubblico della pattuizione degli interessi usurari, penalmente punita, e il carattere usurario - pur in mancanza degli ulteriori elementi richiesti dall'art. 644 c.p. (stato di bisogno, approfittamento) - dalla clausola che prevedeva un interesse ulteriore, rispetto a quello del 3% sui titoli insoluti, del 5% per ogni mese o frazione di mese di ritardo nel pagamento; considerò che la nullità di tale ultima clausola, di cui non era mai - stata chiesta l'applicazione, non si estendeva all'intero contrattocene il fondo di garanzia - accantonato per un'operazione di sconto anteriore a quelle da ultimo effettuate tra le parti - era stato trattenuto per le operazioni di sconto successive, e che risultava a favore della società un credito di £ 8.250.000 per effetti insoluti, nonché un ulteriore credito per interessi passivi maturati di £ 5.565.634. Su questa premesse, il tribunale condannò l'attore - operata la compensazione con il fondo di garanzia - a pagare alla convenuta la scanna di £ 7.415.634, oltre ad interessi al tasso del 3% mensile decorrenti dal 19.04.1988 al saldo.

L'Ed. To. propose appello. Resistendo al gravame, la Fi. S.p.A., che nelle more del giudizio di primo grado ove incorporato per fusione la società convenuta, chiese, in via subordinata d'appello incidentale, di escludersi a norma di contratto la compensazione del suo credito con il residuo del fondo di garanzia.

Con sentenza 29.12.2001, la Corte d'Appello di Bologna respinse l'appello principale, accolse l'appello incidentale e, in parziale modifica della sentenza impugnata, condannò il Ed. To. al pagamento della somma di £ 8.250.000, con gli interessi come già accertati in primo grado.

La Corte premise che il contenuto della memoria di replica dell'appellante incidentale poteva essere esaminato solo limitatamente alla difesa, in essa svolta, dalle osservazioni contenute nella comparsa conclusionale avversaria, non potendosi posporre alla sede della memoria di replica l'esposizione generale delle difese, che doveva essere svolta nella conclusione (nella quale la Fi. S.p.A. si era invece limitata ad un generico rinvio agli scritti e alle difese precedenti). La Corte considerò, inoltre, che la qualificazione del contratto intercorso tra le parti come contratto di sconto, affermata nella sentenza di primo grado, non era stata impugnata e doveva considerasi pertanto un punto fermo, con la conseguente irrilevanza della questione di costituzionalità della L. 24/2001, prospettata dal Ed. To. in conclusionale sul presupposto della sua applicabilità alla fattispecie qualificabile come mutuo; le norme applicabili erano esclusivamente gli artt. 1418, secondo comma e 1346 c.c., e l'art. 644 c.p. nella sua formulazione originaria (con tutti gli elementi richiesti da quella disposizione per la configurabilità del reato; elementi, la ricorrenza dei quali, nel caso di specie, era stata espressamente esclusa dal primo Giudice).

Nel merito, quanto all'appello principale la Corte ritenne che, pur dovendosi convenire sulla necessità di una valutazione complessiva delle clausole del contratto, in difetto degli elementi del reato, la supposta natura usurarie degli interessi e degli altri vantaggi contrattualmente previsti dal contratto a favore della società finanziaria a fronte dello sconto dei titoli -non sarebbe bastata da sola ad affermare l'illiceità delle pattuizioni richiamate dalla società; e che l'appello incidentale - con cui si contestava la compensazione operata dal primo Giudice- era fondato sull'art. 5 del contratto di sconto, che prevedeva la restituzione del fondo di garanzia solo alla cessazione d'ogni ragione di credito della società "per capitale, interessi, spese e accessori".

Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorre l'Ed. To., con atto notificato il 19.04.2002, affidato a sei motivi.

La società intimata resiste con controricorso notificato il 29.05.2002.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo votivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 352 e 190 c.p.c.; si deduce che la riconosciuta inammissibilità della memoria di replica della società Fi. S.p.A. non avrebbe consentito alla Corte d'Appello di esaminarla, sia pure nella sola parte in cui aveva un contenuto propriamente di replica alla conclusionale dell'appellante principale, stante l'inscindibilità dell'atto ex art. 159 cpv. c.p.c.

Il motivo, ancor prima che infondato (in forza dello stesso art. 159 c.p.c. richiamato, per il quale la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti), è inammissibile nei termini nei quali è proposto, perché la supposta violazione non giustificherebbe l'affermazione della conseguente nullità della sentenza o dell'intero procedimento, a norma dell'art. 360, primo comma n. 4 c.p.c.

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 329 comma secondo c.p.c.; si censura l'affermazione della Corte Territoriale, che la qualificazione del contratto data dal primo Giudice come contratto di sconto non era stata censurata, si deduce che nell'atto d'appello la censura sul punto, pur non formulata in modo espresso, era stata inequivocabilmente sollevata, seppure in termini dubbiosi, e si riportano i brani dell'atto d'appello in cui essa sarebbe contenuta.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce che, secondo la giurisprudenza formatasi dopo l'entrata in vigore della L. 108/1996, quella disciplina, pur non essendo retroattiva, era d'immediata applicazione nei rapporti ancora in corso, come si verificherebbe nel presente caso per la richiesta della società finanziaria in relazione a titoli scontati e non onorati per £ 8.250.000. La successiva L. 34/2001 -che all'art. 1, comma 1 stabilisce che ai fini dell'applicazione degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma c.c. s'intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o convenuti a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento- aveva introdotto una disciplina retroattiva, non giustificata sul piano della ragionevolezza e della tutela d'altri principi costituzionali, essendo diretta a neutralizzare la giurisprudenza nel frattempo formatasi, con pregiudizio dell'affidamento del cittadino sulla certezza dell'ordinamento giuridico. La sentenza della Corte Costituzionale n. 29/2002, affermando la ragionevolezza della norma, si era basata sull'esistenza di un dubbio sulla sua interpretazione, ma tale presupposto sarebbe contraddetto dal fatto che il legislatore era intervenuto solo dopo che il dubbio interpretativo era stato già risolto dalla giurisprudenza.

Le censure - da esaminare congiuntamente, essendo intimamente collegate dall'assunto di parte ricorrente, che alla fattispecie sarebbe applicabile la normativa sopravvenuta in materia di tassi d'interesse sui mutui - sono inammissibili per difetto d'interesse a proporle. Il ricorrente muove dal presupposto che, qualora il contratto intercorso tra le parti potesse essere qualificato come mutuo, invece che come sconto, sarebbero ad esso retroattivamente applicabili le norme contenute nella L. 7.03.1996 n. 108, recante disposizioni in materia d'usura, e quindi anche quelle nel decreto legge (della cui costituzionalità peraltro egli dubita) 29.12.2000 n. 394, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della L. 28.02.2001 n. 24, d'interpretazione autentica della precedente. Questo presupposto, tuttavia non o condivisibile: la disciplina introdotta dalla citata L. 108/1996, infatti, non può essere applicata a fattispecie interamente verificatesi prima della sua entrata in vigore.

Tale è il caso oggi portato all'esame della Corte: qualora pure, infatti, il contratto stipulato tra le parti fosse qualificabile conte mutuo -in contrasto peraltro con la stessa impostazione iniziala dell'attore e con gli elementi di fatto pacificamente posti a base della domanda, e in difetto di qualsiasi elemento di giudizio, prospettato dall'interessato, che dovrebbe giustificare la diversa qualificazione- non per questo potrebbe trovare applicazione la normativa introdotta dalla L. 7.03.1996 n. 108. E' pacifico in causa, infatti, che nella domanda introduttiva del giudizio, notificata il 31.08.1989, vale a dire tre anni e mezzo prima dell'emanazione della L. 108/1996, l'attore assumeva già concluso il rapporto con la società finanziatrice, e su tale premessa, appunto, chiedeva il pagamento del saldo suo favore. Né quest'affermazione o contraddetta dalla pendenza della controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua conclusione ha lasciato in capo alle parti, o ad una di esse, delle ragioni di credito. Ne deriva, pertanto, che - all'opposto di quanto si assume nel ricorso - anche nella prospettiva del ricorrente, basata sulla qualificazione del rapporto controverso come rapporto di mutuo, all'esclusione dell'applicabilità (retroattiva) della L. 108/1996 non ai perviene in forza della legge d'interpretazione autentica n. 24/2001, bensì delle piena applicazione della successione delle leggi nel tempo. Da ciò deriva, al tempo stesso, il difetto di rilevanza della questione di costituzionalità dell'art. 1 della L. 24/2001, inapplicabile nel caso concreto, e dunque la sua inammissibilità.

Con il quarto motivo d'impugnazione si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1815, 1419 c.c. e 644 c.p. si deduce che la Corte Territoriale -pur condividendo l'assunto dell'appellante, che ai fini della verifica della liceità del contratto ex art. 644 c.p. le clausole contrattuali dovevano essere valutate nel loro complesso, laddove il primo Giudice aveva valutato in modo parcellizzato le utilità patrimoniali previste a favore della società finanziaria- non aveva considerato, in aggiunta all'interesse del 3% sui titoli insoluti e all'interesse mensile di mora del 5%, i seguenti elementi: l'esistenza di una trattenuta, a titolo di garanzia, del 10% dell'importo nominale dei titoli scontati; la circostanza che detto fondo di garan­zia non era produttivo d'interessi; il conteggio dell'interesse del 24,17% applicato sullo sconto; il divieto di compensazione tra l'importo degli insoluti e il fondo di garanzia; l'addebito al Ed. To. delle spese legali sostenute dalla società per il recupero; la capitalizzazione trimestrale degli interessi in violazione del divieto dell'anatocismo. Il ricorrente invoca poi la giurisprudenza penale, che ha ritenuto ammissibile la prova indiziaria dello stato di bisogno del finanziato e della conoscenza di tale stato, desumibile dalla misura degli interessi, qualora essi siano d'entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in stato di bisogno possa contrattare a quelle condizioni, ciò specialmente quando le modalità delle operazioni finanziarie tra l'agente e la persona offesa rendano evidente che questa avrebbe potuto obbligarsi a corrispondere gli interessi pattuiti soltanto versando in tale stato.

Il mezzo può essere esaminato nei limiti in cui non e assorbito dal rigetto dei precedenti. L'illiceità del contratto per violazione del divieto d'usura, stabilito dall'art. 644 c.p., nella sua formulazione anteriore alla novella n. 108/1996, prescinde, in effetti, dalla qualificazione del rapporto come sconto o come mutuo, giacché la norma puniva chi, approfittando dello stato di bisogno di una persona, si faceva da questa dare o promettere "sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o d'altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurati".

L'esame delle censure concernenti il modo di valutare il carattere usurario delle pattuizioni contrattuali, sotto il profilo della considerazione unitaria - e non parcellizzata - d'esse, è assorbito dal rilievo, formulato dal Giudice d'appello, che nella fattispecie non poteva ravvisarsi la fattispecie dell'usura per difetto degli estremi dello stato di bisogno del Ed. To. e dell'approfittamento della società finanziante. Né può trovare ingresso la censura sull'omessa valutazione della prova indiziaria di quegli elementi essenziali della fattispecie penale, ravvisatile nell'esosità delle controprestazioni imposte al Ed. To. Questa censura d'omessa valutazione è insufficiente, e quindi inammissibile, perché non si allega che la prova indiziaria sarebbe stata dal Ed. To. allegata, vale a dire espressamente sottoposta al vaglio del Giudice di merito, a fondamento delle proprie tesi difensive; e perché non s'illustra il carattere decisivo del punto. A quest'ultimo proposito si deve chiarire che la prova indiziaria, appunto perché tale, postula una, compiuta ricostruzione della fattispecie, potendo solo nel contesto apprezzarsi il valore di un'apparente sproporzione tra le prestazioni poste a carico delle parti del contratto, la quale può avere spiegazioni diverse (come nei contratti a rischio elevato, o in quelli altamente speculativi) da quella dell'approfittamento dello stato di bisogno.

Con il quinto motivo si censura l'affermazione della Corte d'Appello, che la domanda restitutoria proposta dal Ed. To. in occasiona della precisazione delle conclusioni costituiva una domanda nuova e inammissibile. La rilevabilità d'Ufficio della nullità del contratto, sulla quale si basava la domanda restitutoria, escludeva in radice che essa potesse considerarsi inammissibile, e l'attore si era limitato, in precisazione delle conclusioni, ad ampliare la sua domanda restitutoria, ciò che costituiva solo una consentita emendatio libelli.

La censura è priva di fondamento. La restituzione, oggetto della domanda inizialmente proposta, aveva il suo fondamento nel contratto, e ne presupponeva la validità, laddove quella successivamente introdotta si basava sulla nullità del contratto, ed aveva quindi causa pretendi diversa ed incompatibile con la prima domanda. La rilevabilità d'Ufficio della nullità del contratto, sulla duale insiste particolarmente il ricorrente nella memoria depositata, se consentiva astrattamente al Giudice di merito di respingere la domanda proposta dalla società convenuta, non consentiva invece una condanna d'Ufficio a restituzioni fondate sulla nullità del contratto, né valeva quindi a rendere ammissibile una domanda nuova d'identico contenuto, proposta dall'attore.

Con il sesto motivo, censurandosi la pronuncia della Corte d'Appello che ha negato la compensazione del debito del Ed. To. con il suo credito alla restituzione del fondo di garanzia, si denunciano vizi di motivazione e violazione della regola dell'onere della prova. Non v'era in atti alcuna prova che i contratti di sconto posteriori a quello del 21.0931983 fossero stati conclusi alle medesime condizioni, e che fosse stato convenuto un fondo di garanzia del 10%: l'onere della prova sul punto gravava sulla società, ed era stato illegittimamente trasferito sul Ed. To. dal Giudice d'appello, che non aveva considerato come gli effetti insoluti non riguardavano il contratto per cui è causa, le cui clausole non erano invocabili in relazione ad effetti rilasciati per contratti successivi e diversi.

Il Giudice di merito ha dato, nella sentenza impugnata, un'interpretazione dell'art. 5 del contratto stipulato dalle parti, secondo la quale il fondo di garanzia doveva essere rimborsato dalla società al Ed. To. solo quando fosse cessata ogni ragione di credito della società stessa per capitale, interessi, spese e accessori. Quest'interpretazione non è censurate dal ricorrente, il quale affida invece il mezzo d'impugnazione ad una circostanza di fatto -quale l'estraneità dei titoli insoluti al contratto per cui è causa- che non risulta dalla sentenza. Il ricorrente non allega, peraltro, che la circostanza sarebbe stata posto a fondamento delle difese nel giudizio di merito, sicché la censura non ha fondamento, non essendo ravvisabile il vizio d'insufficienza di motivazione in relazione ad un punto di fatto, sul quale non sia stato sollecitato l'esame del Giudice di merito.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 850,00, di cui € 800,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

 

 

TRIBUNALE ROMA SEZIONE 4 CIVILE

SENTENZA DEL 6 GIUGNO 2005, N. 9353

 

CONTRATTI - CONTRATTO DI MUTUO - NORMATIVA ANTIUSURA E DIVIETO DI ANATOCISMO - LIMITI

 

 

L'inapplicabilità della normativa in materia di usura introdotta dalla legge n. 108/1996 alle disposizioni pattizie concluse in epoca antecedente alla sua entrata in vigore trova oggi fondamento nell'art. 1 del D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24 rubricato “Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108 concernente disposizioni in materia di usura”.

Considerato che deve escludersi la nullità delle clausole relative agli interessi contenute in un contratto di mutuo concluso nell'anno 1989, poiché esso non è stato stipulato successivamente all'entrata in vigore della legge n. 108/1996 non si apprezza alcuna violazione dei principi generali di correttezza e buona fede per non aver la banca mutuante aderito alla richiesta di rinegoziazione del mutuo formulata dai mutuatari.

Anche in relazione ai contratti di mutuo va affermata la nullità della clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca, ragion per cui sono illegittime sia le pattuizioni sia i comportamenti - ancorché non tradotti in patti - che si risolvano in un'accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una disciplina diversa da quella legale.

 

TRIBUNALE ROMA SEZIONE 4 CIVILE

SENTENZA DEL 6 GIUGNO 2005, N. 9353

 

 

Con citazione in opposizione ai sensi dell'art. 615, comma 1, cod. proc. civ., ritualmente notificata a controparte, Br. Ma., Br. Ro., Bra. Pa. e Le. Ga., premesso:

 

• che gli istanti avevano avuto notificato atto di precetto in data ... a istanza di Me. Ce. s.p.a. per il pagamento della somma di lire 292.707.335 (che si affermava dovuta in forza di contratto di mutuo stipulato in data 31 maggio 1989, con garanzia ipotecaria sugli immobili siti in Roma, V. An. Em., e Vi. Do. Mi.;

 

• che il precetto era da ritenersi illegittimo;

 

• che erano stati infatti richiesti interessi in misura superiore a quella consentita, in violazione della normativa “antiusura” di cui alla legge n. 108/1996;

 

• che era stato illegittimamente praticato l'anatocismo;

 

• che erano stati violati i principi generali di correttezza e buona fede (non avendo la banca aderito alla richiesta di rinegoziazione del mutuo e non avendo concesso una riduzione della garanzia ipotecaria ai sensi dell'art. 39 comma 5, D.Lgs. n. 385/1993).

 

Tanto esposto, hanno evocato in giudizio innanzi a questo Tribunale, il citato Me. Ce. s.p.a., per sentire dichiarare che quest'ultimo non aveva diritto a procedere in executivis nei loro confronti (per la somma richiesta) e per vedere accogliere le altre conclusioni meglio precisate in atti.

 

L'istituto convenuto si è costituito in giudizio opponendosi all'avversa domanda e chiedendone il rigetto.

 

Ha in particolare contestato che le disposizioni di cui alla legge n. 108/1996 potessero avere applicazione a un contratto di mutuo stipulato in data anteriore. Ha poi negato di aver fatto ricorso all'anatocismo e di aver in qualche modo violato i principi generali di correttezza e buona fede enunciati da controparte.

 

Alla udienza del 27 giugno 2002, la causa è stata una prima volta trattenuta a sentenza.

 

Con sentenza non definitiva emessa in data 24 settembre 1992, il giudice ha rigettato le voci di domanda relative alla pretesa illegittimità del tasso di interesse applicato al rapporto e alla affermata violazione dei principi di correttezza e buona fede, rimettendo la causa sul ruolo per espletare una indagine tecnico-contabile sul denunciato anatocismo.

 

Disposta ed espletata la consulenza, alla udienza del 9 dicembre 2004, la causa è stata di nuovo trattenuta in decisione.

 

Motivi della decisione

 

Va anzitutto richiamato quanto è stato a suo tempo esposto nella sentenza non definitiva emessa in data 24 settembre 2002 (di cui peraltro le parti non sembra tengano conto nelle ultime memorie conclusionali depositate), in ordine alla pretesa “usurarietà” del tasso di interesse e in ordine alla violazione dei principi generali di correttezza e buona fede.

 

Si è osservato nella sede indicata, che «... parte opponente ha contestato il diritto ad agire in executivis della banca creditrice, assumendo che quest'ultima ha richiesto con il precetto il pagamento non solo della sorte capitale ma anche degli interessi, che risultano superiori al tasso soglia di cui alle rilevazioni trimestrali adottate in attuazione della legge n. 108/1996.

 

Nel caso di specie, tuttavia, a parere del Tribunale, le disposizioni introdotte dalla legge antiusura e richiamate da parte opponente quale causa di nullità delle clausole relative agli accessori, non risultano applicabili in quanto il contratto di mutuo costituente titolo esecutivo è stato stipulato in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 108/1996.

 

La tesi circa la inapplicabilità della normativa in materia di usura introdotta dalla legge n. 108/1996 alle disposizioni pattizie concluse in epoca antecedente alla sua entrata in vigore, dapprima avallata solo dalla giurisprudenza di merito a contrastata invece dall'orientamento prevalente della Cassazione, trova oggi fondamento nel dato normativo. l'art. 1 del decreto legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24 rubricato “Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108 concernente disposizioni in materia di usura”, all'art. 1 testualmente recita: «ai fini dell'applicazione dell'art. 644 del Codice penale e dell'art. 1815 comma 2, del Codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento».

 

Dall'esame della predetta norma di interpretazione autentica risulta di tutta evidenza che, sia per quanto concerne la configurabilità del delitto di usura di cui all'art. 644 cod. pen., sia con riguardo alla non debenza di alcun interesse nel caso di superamento del tasso concordato antiusura di cui al comma 2 dell'art. 1815 cod. civ. (nel testo sostituito dalla predetta legge n. 108/1996), il momento significativo è esclusivamente quello nel quale gli interessi vennero promessi o comunque convenuti. Ciò sta a dire che dovrà ritenersi nulla la clausola che prevede la corresponsione di interessi usurari (e cioè di interessi che superano i tassi soglia via via determinati) solamente se detta clausola è contenuta in un contratto stipulato in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 108/1996. Egualmente assumerà rilevanza penale la condotta di colui che percepisca interessi usurari in esecuzione di negozi conclusi dopo l'introduzione della normativa antiusura.

 

Venendo al caso di specie, posto che il contratto di mutuo azionato è stato concluso nell'anno 1989, e ritenuta la inapplicabilità della legge n. 108/1996 deve escludersi la nullità delle clausole relative agli interessi dedotta da parte opponente.

 

Tale voce di domanda risulta dunque infondata.

 

Parimenti infondata è la voce di domanda che fa riferimento a una pretesa violazione dei principi generali di correttezza e buona fede per non avere la banca mutuante - come si sostiene - aderito alla richiesta di ri-negoziazione del mutuo formulata dai mutuatari. e invero, considerato quanto si è detto più sopra sulla piena legittimità delle richieste svolte da parte opponente, non si apprezza nella specie alcuna lesione ai principi indicati.

 

Non si ritiene poi che possa venire in questione l'art. 39 comma 5, del D.Lgs. n. 385/1993, posto che non risulta in atti che una richiesta al riguardo sia mai stata presentata dagli interessati alla banca mutuante e considerato che una eventuale riduzione della garanzia può essere sempre richiesta in sede esecutiva».

 

Sotto i profili già esaminati, nonostante gli ulteriori rilievi e considerazioni svolti dalle parti nelle (ultime) memorie conclusionali, non vi può più essere quindi (quanto meno in questo grado di giudizio) alcuna ulteriore discussione.

 

Quanto invece alla voce di domanda che fa riferimento al profilo dell'anatocismo, è noto che l'art. 1283, prevedendo che «in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza», pone un espresso divieto a riguardo.

 

La giurisprudenza di legittimità, modificando il proprio precedente orientamento, ha affermato (inizialmente in relazione ai contratti di conto corrente bancario e, più di recente, anche in relazione ai contratti di mutuo) la nullità della clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca, giacché essa si basa su di un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria e interviene anteriormente alla scadenza degli interessi (cfr. Cass. 16 marzo 1999, n. 2374; Cass. 30 marzo 1999, n. 3096; Cass. 11 novembre 1999, n. 1257; Cass. 28 marzo 2002, n. 4490; Cass. 13 giugno 2002, n. 8442; Cass. 20 agosto 2003, n. 12222; Cass. 18 settembre 2003, n. 13739; Cass. S.U. 4 novembre 2004, n. 21095).

 

In particolare la Suprema Corte ha affermato che, in tema di mutuo bancario e con riferimento al calcolo degli interessi, devono ritenersi senz'altro applicabili le limitazioni previste dall'art. 1283 cod. civ. non rilevando in senso opposto l'esistenza di un uso bancario contrario a quanto disposto dalla norma predetta. Gli usi normativi contrari, cui espressamente fa riferimento il citato art. 1283 cod. civ., sono infatti soltanto quelli formatisi anteriormente all'entrata in vigore del Codice civile (né usi “contrari” avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo della norma de qua - impeditivo, per l'effetto, del riconoscimento di pattuizioni e comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente - norma che si poneva come del tutto ostativa alla realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell'uso normativo), e, nello specifico campo del mutuo bancario ordinario, non è dato rinvenire in epoca anteriore al 1942, alcun uso che consentisse l'anatocismo oltre i limiti poi previsti dall'art. 1283 cod. civ.

 

Ne consegue l'illegittimità tanto delle pattuizioni, tanto dei comportamenti - ancorché non tradotti in patti - che si risolvano in una accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una disciplina diversa da quella legale (cfr. Cass. 20 febbraio 2003, n. 2593).

 

I principi esposti devono essere applicati anche al rapporto di specie.

 

Ai fini contabili della presente decisione si può fare integrale e sicuro riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio espletata in sede istruttoria, che appaiono tratte a seguito dei più opportuni accertamenti e di una accurata disamina dei fatti in contestazione, e si presentano condotte con retti criteri tecnici e con iter logico ineccepibile. Esse possono essere quindi tranquillamente condivise e fatte proprie da questo Tribunale ai fini delle valutazioni da assumere nel presente procedimento, anche perché non contestate o comunque smentite da alcun altro dato di segno contrario.

 

Il C.t.u. ha in particolare accerato che: a) il ricalcolo degli interessi di mora per quantificare l'effetto dell'anatocismo individua un importo di lire 53.839.898 contabilizzato in eccesso da Me. Ce. s.p.a.; b) il ricalcolo degli interessi compesativi di rinegoziazione effettuato sul secondo finanziamento, concesso al solo fine di un nuovo ammortamento di un debito scaduto, calcolando il costo complessivo della nuova operazione e ponendolo a raffronto con i versamenti effettuati dai mutuatari, ha evidenziato un credito sempre nei confronti delle parti attrici di lire 57.316.527.

 

Sulla base di tali indicazioni, risulta dunque che occorre tenere conto della somma complessiva di lire 111.156.425.

 

Il credito complessivo che Me. Ce. s.p.a. ha diritto di azionare in questa sede esecutiva ammonta dunque alla somma di lire 178.308.110 (289.464.535 – 111.156.425 = 178.308.110), pari a euro 92.088,45.

 

L'opposizione merita dunque accoglimento entro i limiti esposti.

 

Il parziale accoglimento della domanda costituisce giusto motivo per compensare per metà le spese di lite.

 

;TRIBUNALE ROMA SEZIONE 9 CIVILE

SENTENZA DEL 22 GENNAIO 2004, N. 2120

Massima redazionale

 

 

BANCHE - Contratto di conto corrente bancario - Tasso debitore extra-legale - Violazione del tasso soglia - Interesse usuraio - Individuazione - Condizioni

 

 

 

In tema di contratto di conto corrente bancario, il parametro per individuare se gli interessi debitori pattuiti abbiano o meno carattere usuraio, è rappresentato esclusivamente dal tasso-soglia in vigore al momento della pattuizione degli interessi da parte del debitore. Occorre quindi accertare se al momento della pattuizione del tasso di interesse nel contratto non fosse stato rispettato il cosiddetto tasso-soglia e fosse applicabile la disciplina prevista dalla legge n. 108/1996, con tutti i criteri ivi previsti in tema di usurarietà. Con la conseguenza che, qualora al momento della conclusione del contratto non risulti operante la normativa suddetta, trattandosi - come nella fattispecie - di contratto stipulato nel 1994, ai fini dell'applicabilità del tasso di interesse occorrerà fare riferimento alla legge anteriore rispetto alla legge n. 108/1996, con evidenti maggiori difficoltà per il correntista nel dimostrare la ricorrenza degli interessi usurari (1) (2). (L.Sca.)

 

 

 

 

 

TRIBUNALE ROMA SEZIONE 9 CIVILE

SENTENZA DEL 22 GENNAIO 2004, N. 2120

 

Obbligazioni - Contratto di conto corrente bancario - Anatocismo - Capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi - Illegittimità - Capitalizzazione annuale - Interessi annuali

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

TRIBUNALE DI ROMA

 

SEZIONE IX CIVILE

 

In persona del giudice unico

 

Dr. Giulia Iofrida

 

ha emesso la seguente:

 

SENTENZA

 

nella causa civile di 1° grado iscritta al n. 41128 del ruolo contenzioso generale dell'anno 2001 posta in deliberazione all'udienza del 16/10/2003 (con termine per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica di gg. 60+20) e vertente

 

tra

 

F.lli Ba. S.n.c., in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Ro. via CA. Po. 2 presso lo studio dell'avvocato Al. Ca. che la rappresenta e difende per delega in atti unitamente all'avvocato Pa. Ca.;

 

attrice

 

e

 

Banca Na. del La. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Ro. piazza Co. di Ri. 68 presso lo studio dell'avvocato Fe. Ga. che la rappresenta e difende per delega in atti;

 

convenuta

 

Oggetto: Contratti bancari.

 

Conclusioni

 

All'udienza del 16/10/2003 il procuratore della parte attrice così concludeva:

 

"Come da atto di citazione".

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con atto di citazione notificato il 13/6/2001, la F.lli Ba. S.n.c., in persona del legale rappresentante p.t., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, la Ba. Na. del La. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., per sentire accertare, in relazione al contratto di concessione di fido sul conto corrente di corrispondenza n. (...), intrattenuto da essa attrice con la banca convenuta a partire dall'ottobre 1994, conto estinto nel 1999 (con pagamento della somma di £ 70.000.000, corrispondente al saldo negativo risultante, in tre rate da parte di essa correntista), la nullità delle clausole contrattuali implicanti l'applicazione di un tasso extralegale dell'interesse passivo, anche in violazione della L. 108/1996, c. d. legge "antiusura", e la capitalizzazione bimestrale degli interessi passivi, delle commissioni di massimo scoperto e delle spese, l'inefficacia delle suddette clausole per loro vessatorietà ex art. 1469 bis c. p.c., nonché l'illegittimità delle unilaterali riduzioni del fido apportate dalla banca nel corso del rapporto, con condanna della convenuta al rimborso ad essa attrice di quanto indebitamente percepito ed al risarcimento dei danni cagionati.

 

Si costituiva la convenuta, tardivamente ai sensi degli artt. 166 e 167 c. p.c., contestando la pretesa attrice e chiedendone il rigetto, eccependo anche la prescrizione del diritto ex art. 2948 n. 4 c. c. .

 

All'udienza di prima trattazione, ex art. 183 c. p.c., non comparivano le parti personalmente e non potevano espletarsi né l'interrogatorio libero né il tentativo di conciliazione.

 

La causa veniva istruita con l'acquisizione di documenti e l'espletamento di consulenza tecnica e, sulle conclusioni di cui in epigrafe, veniva trattenuta in decisione all'udienza del 16/10/2003 (con termine per il deposito di comparse conclusionali e repliche di gg. 60+20).

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Il conto corrente di corrispondenza n. 19003 risulta essere stato intestato alla attrice F.lli Ba. presso la Banca Na. del La. S.p.A. in data 6/10/1994, con pattuizione specifica del tasso debitore extra-legale pari al 19,25, di una commissione di massimo scoperto pari allo 0,75%. Il suddetto conto è stato chiuso, a seguito di estinzione della posizione debitoria della correntista, in data 4/11/1999.

 

Risultano pertanto del tutto infondate le eccezioni dell'attrice inerenti la non debenza del tasso ultra legale dell'interesse passivo e della commissione di massimo scoperto, per mancata pattuizione scritta, in violazione del disposto di cui agli artt. 1284 c. c. L. 117 T.U. 385/1993.

 

Del pari non è meritevole di accoglimento l'eccezione inerente la violazione, nel corso del rapporto bancario, del c. d. tasso-soglia contemplato dalla L. 108/1996 o meglio la nullità della pattuizione di interessi passivi ad un tasso ritenuto usurario, in violazione quindi del c. d. tasso-soglia, corrispondente al tasso effettivo globale medio riferito ad operazioni di uguale natura e rilevato trimestralmente dal Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio Italiano Cambi, introdotto con detta legge "antiusura".

 

L' art. 1815 c. c. e l' art. 644 c. p. sono stati in effetti modificati dalla L. 108/1996. In particolare, è stato definito interesse usurario, nell'art. 644 c. p., quello che supera la misura del c. d. tasso-soglia e l' art. 1815 c. c. oggi prevede che "se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi".

 

Ai sensi dell'art. 2 L. 108/1996, perché un tasso di interesse possa essere qualificato come usurario, occorre aumentare della metà il tasso effettivo globale medio riferito ad operazioni di uguale natura, come rilevato trimestralmente da parte del Ministero del Tesoro, con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, in relazione alle categorie di contratto specifiche in esame ed all'entità dei contratti.

 

La Legge 108/1996 presentava tuttavia una lacuna, in quanto non indicava espressamente il momento in relazione al quale doveva essere effettuato il raffronto con il tasso-soglia dell'usura (se quello di stipulazione del negozio, con conseguente irrilevanza di ogni successiva eventuale diminuzione dei tassi-soglia, ovvero se quello di riscossione degli interessi, con conseguente necessità di un continuo raffronto ed adeguamento degli interessi di volta in volta maturati con le sopraggiunte rilevazioni periodiche dei tassi).

 

In alcune pronunce, la Suprema Corte ha affermato, seguendo peraltro un consolidato orientamento giurisprudenziale (secondo il quale il principio di irretroattività, di cui all'art. 11 disp. prel. c. c., non impedisce che una legge nuova si applichi anche ai rapporti contrattuali che, pur avendo avuto origine sotto il vigore della legge anteriore, siano destinati a durare ulteriormente, e ne modifichi l'assetto con effetti ex nunc, in quanto la nuova norma, non interpretativa e non retroattiva, pur non incidendo sulla validità dei contratti conclusi prima, perché il giudizio circa la conformità alla legge dell'atto va riferito al momento in cui esso è stato posto in essere, C.C. 1877/1995, C.C. 11196/1995, vale ad impedire che producano effetti ulteriori contrastanti con quanto da essa stabilito, C.C. 2118/1987; C.C. 267/1996; C.C. 831/1998, Corte Cost. 204/1997) che la Legge n. 108/1996, pur in difetto di previsione di una sua retroattività, può operare rispetto a precedenti contratti di mutuo, limitatamente alla regolamentazione degli effetti ancora in corso ed alle ipotesi di dazione degli interessi posteriore all'entrata in vigore della legge (C.C. 1126/2000; C.C. 5286/2000; C.C. 14899/2000). La Suprema Corte ha poi ritenuto che anche agli interessi moratori vada applicata la Legge n. 108/1996, con conseguente illegittimità della pattuizione di un tasso usurario ai sensi della suddetta legge e necessità di sua sostituzione con un tasso diverso (C.C. 5286 e 14899 del 2000).

 

E' stato allora emanato il D.L. 394/2000, convertito con modifiche nella Legge 28/2/2001 n. 24, entrata in vigore il 1/3/2001, ove, all'art. 1 comma primo, è previsto, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c. p. e dell'art. 1815, 2° comma, c. c., che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge "nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo", indipendentemente dal momento del loro pagamento, norma questa che deve ritenersi di interpretazione autentica (C.C. 13868/2002). Dunque ai fini dell'individuazione del carattere usurario degli interessi occorre riferirsi in via generale (salve le deroghe previste dai commi 2° e 3° dell'art. 1 della stessa legge, i quali prevedono l'automatico inserimento in specifiche categorie di contratti di mutuo di un tasso di interesse eventualmente in sostituzione di quello maggiore convenuto dalle parti) esclusivamente al tasso-soglia vigente al momento della pattuizione degli interessi da parte del debitore, essendo divenuto irrilevante il momento dell'eventuale corresponsione di interessi ad un tasso divenuto, solo successivamente alla conclusione dell'accordo, superiore al tasso-soglia.

 

Tale normativa è passata indenne al vaglio della Corte costituzionale con la sentenza n. 29 del 2002 (che ha invece dichiarato incostituzionali i commi 2 e 3 dell'art. 1, in determinate parti). Invero è senz'altro consentito al legislatore di rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta (C. Cost. 397/1994; 6/1994; 402/1993), imponendo una data interpretazione ad un precedente testo normativo, a prescindere dall'esattezza dell'interpretazione o della lettura imposta, anche nell'ipotesi in cui quest'ultima non fosse in alcun modo ricavabile dal testo interpretato, secondo la comune opinione (C.C. 1435/1998; C.C. 660/1991). Né è stato ritenuto superato dalla consulta il limite della ragionevolezza, considerato che l'interpretazione imposta dalla nuova legge recepisce un'argomentazione, sostenuta da una parte della giurisprudenza di merito, circa la necessità di fare riferimento al quadro normativo vigente all'epoca della stipulazione del contratto bancario.

 

Bisogna quindi verificare se, al momento della pattuizione del tasso di interesse nel contratto - momento cui, per effetto della norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1 del D.L. 394/2000, deve aversi riguardo per valutare l'usurarietà o meno, in base alla nuova legge antiusura, del tasso di interesse convenuto - fosse stato o meno superato il c. d. tasso-soglia e fosse o meno pienamente operante la Legge 108/1996, con tutti i criteri ivi previsti per l'individuazione del tasso usurario.

 

Deve considerarsi infatti che la prima rilevazione trimestrale del c. d. tasso soglia, da parte del Ministero del Tesoro, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è intervenuta solo a seguito del completamento di un iter di operazioni previste nella legge per la sua attuazione (con D.M. 23/9/1996, infatti, veniva creata la prima ripartizione delle operazioni creditizie per categorie omogenee, ed il 22 marzo 1997, G.U. 2/4/1997, veniva effettuata la prima rilevazione dei tassi-soglia, con riferimento al periodo ottobre/dicembre 1996; con D.M. 25/9/1997, G.U. 30/9/1997, entrato in vigore il 1/10/1997 ed applicabile fino al 31/12/1997, venivano rilevati i tassi-soglia relativamente al trimestre aprile/giugno 1997; con D.M. 23/3/1998, in vigore dall'aprile 1998, venivano rilevati poi i tassi per il trimestre ottobre/dicembre 1997, ma il decreto era applicabile solo dall'aprile al giugno 1998).

 

Così può accadere che anche con riguardo a contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della L. 108/1996, al momento della pattuizione del tasso di interesse nel contratto di finanziamento, in realtà non era ancora pienamente operante la Legge 108/1996, con tutti i criteri ivi previsti per l'individuazione del tasso usurario, non essendo ancora intervenuta la prima rilevazione trimestrale del c. d. tasso soglia, da parte del Ministero del Tesoro, con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

 

Pertanto, se risulta, come nella fattispecie, attesa l'epoca d stipulazione del contratto (ottobre 1994), non operante la legge 108/1996, al momento della pattuizione del tasso di interesse convenuto, occorre avere riguardo ancora alla legge anteriore rispetto alla L. 108/1996, che agganciava il concetto di usura in sede penale (cui faceva riferimento l' art. 1815 c. c. nella vecchia formulazione) alla presenza anche di elementi di carattere soggettivo, come l'approfittamento dello stato di bisogno ed ometteva di fornire criteri oggettivi per l'individuazione della ricorrenza di interessi usurari, nella specie del tutto indimostrati e quindi insussistenti.

 

Tale interpretazione circa la ormai irrilevanza della c. d. usura sopravvenuta risulta essere stata condivisa, da ultimo, dalla Suprema Corte nelle sentenze nn. 8741/2001, 13868 e 17813/2002.

 

Secondo invece la Corte d'Appello di Milano (sentenza 10/5/2002, in G.I. 2003, 501 e 93 ed in Il Corriere Giuridico, Giurisprudenza milanese, 2003, 93) la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1 L. 24/2001 si applica "esclusivamente agli interessi dovuti in base ad un contratto di mutuo e pertanto la clausola determinativa degli interessi moratori, pattuita in un contratto di apertura di credito in conto corrente, qualora gli interessi divengano usurari in seguito ad una diminuzione del tasso soglia dell'usura, verificatasi successivamente alla conclusione del contratto stesso, deve ritenersi affetta da nullità parziale con conseguente riduzione automatica del tasso degli interessi a quello corrispondente al tasso- soglia di volta in volta rilevato".

 

Tale tesi tuttavia non convince in quanto, già nel vigore del vecchio testo dell'art. 1815 cpv. c. c., si è sempre ritenuto che l'ambito applicativo della norma non coincidesse con il contratto di mutuo ma riguardasse tutte le forme di concessione di denaro in godimento e quindi tutti i contratti con funzione di credito aventi ad oggetto somme di denaro. La sfera applicativa dell'art. 1815 sembra quindi coincidere con l'intera tipologia di contratti richiamata dall'art. 2 della L. 108/1996 (anche quindi l'apertura di credito in conto corrente, etc. ...) e quindi anche l' art. 1 L. 24/2001 che ridefinisce detta norma non può essere inteso come riguardante unicamente il contratto di mutuo. /p>

 

Appare invece meritevole di accoglimento l'eccezione dell'attrice inerente l'illegittimità della clausola implicante l'applicazione di un meccanismo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, in violazione del dispositivo cui all'art. 1283 c. c. .

 

Secondo l' art. 1283 c. c. gli interessi anatocistici (o composti) sono gli interessi sugli interessi scaduti, che, in mancanza di usi contrari, possono a loro volta produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di una convenzione posteriore alla loro scadenza e sempre che si tratti di interessi semplici dovuti da almeno sei mesi. Di conseguenza, in assenza di usi, normativi secondo l'orientamento consolidato dottrinale e giurisprudenziale, e non meramente negoziali, sono vietate pattuizioni anteriori alla scadenza degli interessi ed interessi infrasemestrali. I requisiti fondamentali dell'uso normativo (art. 8 delle disposizioni sulla legge in generale c. c. ) sono due: l'uno oggettivo, consistente nell'uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento; l'altro soggettivo consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, così agendo, ad una norma giuridica.

 

L'esigenza sottesa all'art. 1283 c. c. è quella di tutelare la posizione del debitore, consentendogli di potere conoscere con sufficiente margine di certezza l'ammontare del proprio debito ed impedendo al creditore di percepire liberamente interessi composti sugli interessi maturati nel corso del rapporto, con conseguente elusione dell'obbligo della forma scritta per la convenzione di interessi ultralegali e del divieto di interessi usurari.

 

La norma si applica a qualsiasi tipo di interesse, compresi gli interessi moratori, in quanto il debito per interessi, anche quando venga adempiuta l'obbligazione principale, è sempre soggetto alla disciplina specifica di cui all'art. 1283 c. c. e non a quella generale prevista per le obbligazioni pecuniarie dall'art. 1224 c. c., dalla quale deriva il diritto agli ulteriori interessi ed al risarcimento del maggior danno dalla mora (C.C. S.U. 9653/2001).

 

Nel settore bancario, a partire dal 1952, nelle Norme Bancarie Uniformi, predisposte dall'ABI e contenenti le condizioni generali di contratto relative alle principali operazioni bancarie, è stata sempre inserita la clausola secondo cui, mentre sugli interessi applicati a favore dei clienti sui saldi di conto corrente (c.d. interessi attivi) venivano applicati dagli istituti di credito interessi anatocistici con periodicità annuale, sugli interessi dovuti dalla clientela (c.d. interessi passivi) venivano applicati interessi composti al termine di ogni trimestre, secondo la c. d. capitalizzazione trimestrale, e quindi con periodicità inferiore a quella semestrale prevista dall'art. 1283 c. c. e comunque al di fuori dei presupposti richiesti da detta norma (I conti che risultano anche saltuariamente debitori vanno regolati ogni trimestre ... con la stessa cadenza gli interessi scaduti producono ulteriori interessi).

 

Tale clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, nei contratti predisposti dalla Banca, deve ritenersi nulla, in considerazione della natura pattizia e non normativa degli usi in materia, secondo un recente orientamento della Suprema Corte, conseguente ad un vero e proprio revirement giurisprudenziale (espresso, in particolare, nelle sentenze nn. 2374, 3096, 3845 e 12507 del 1999, ribadito nelle sentenze recenti nn. 4490 e 8442/2002 e n. 2593/2003, in ordine alla nullità, per violazione dell'art. 1283 c. c., delle clausole previste nei contratti di conto corrente bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente, in difetto di un uso normativo al riguardo). In precedenza, la Suprema Corte aveva invece considerato valida la clausola di capitalizzazione trimestrale nei contratti bancari (C.C. 5/10/1953; C.C. 6631/1981, che generalizzò questo orientamento all'intero campo dei rapporti bancari; C.C. 4920/1987; C.C. 3804/1988; C.C. 6153/1990; C.C. 9227/1995; C.C. 12675/1998).

 

Le sentenze del 1999, in particolare, poggiano la loro decisione su tre ordini di notazioni: 1) non consta che, al momento dell'entrata in vigore del codice civile del 1942, vi fossero, a livello nazionale, usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito né è stato accertato successivamente dalla Commissione permanente presso il Ministero dell'industria un uso nazionale di anatocismo trimestrale; 2) gli accertamenti di usi anatocistici nelle raccolte locali sono tutti posteriori al 1952, data di comparsa della clausola di capitalizzazione trimestrale nelle Norme Bancarie Uniformi di conto corrente di corrispondenza, norme pattizie, nel senso che si tratta di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dalla ABI alle banche associate, e ciò esclude che possa essere attribuita a tale clausola, in vigore dal 1952, una funzione probatoria di usi locali preesistenti; 3) nella prassi bancaria di anatocismo manca "quella spontanea adesione ad un precetto giuridico in cui sostanzialmente consiste l'opinio iuris ac necessitatis" (implicante convinzione e consapevolezza di attuare una regola vertente su materia giuridicamente rilevante), in quanto l'inserimento delle clausole in oggetto viene acconsentito dai clienti solo perché comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in suscettibili di negoziazione individuale e "la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari".

 

Esclusa quindi l'esistenza di un uso normativo bancario, la clausola (preventiva) di anatocismo trimestrale prevista nelle condizioni generali di contratto è nulla, perché in violazione delle prescrizioni imperative di cui all'art. 1283 c. c. stante la sua contrarietà sia al termine semestrale minimo di capitalizzazione sia alla prescrizione che subordina la produzione degli interessi ad una domanda giudiziale ovvero ad una convenzione posteriore alla scadenza della relativa obbligazione.

 

A fronte del nuovo orientamento della Suprema Corte è stato emanato, utilizzando la delega contenuta nell'art. 1 V comma della Legge comunitaria 24/4/1998 n. 128 (per l'emanazione entro il termine di un anno di disposizioni integrative e correttive del T.U. bancario, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all'art. 25 L. 142/1992), il D.Lgs. 4/8/1999 n. 342, pubblicato nella G.U. del 4/10/1999 n. 233. All'art. 25 secondo comma di detto decreto e nell'introdotto comma 3° dell'art. 120 del T.U. in materia bancaria, si leggeva: "le clausole relative alla produzione degli interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente all'entrata in vigore della delibera - del CICR, da emanare entro 120 gg. dall'entrata in vigore del decreto delegato - di cui al comma 2, sono valide ed efficaci sino a tale data ...", delibera del CICR poi effettivamente emanata il 9/2/2000 ed entrata in vigore il 22/4/2000, con previsione di nuove articolate disposizioni, in punto di produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, cui avrebbero dovuto adeguarsi, entro il 30/6/2000, secondo le modalità ivi stabilite, i contratti stipulati anteriormente) per "tamponare" la situazione venutasi a creare con il revirement della Corte di Cassazione (si è parlato di una "generalizzata sanatoria" ex lege dei contratti stipulati anteriormente al 30/6/2000). Da notare che con detta delibera è stato anche circoscritto l'ambito oggettivo di operatività dell'anatocismo in ambito bancario, disponendo che esso possa essere previsto, per effetto della contrattazione tra le parti, esclusivamente nei rapporti di conto corrente, nelle operazioni di raccolta e nelle operazioni di finanziamento con un piano di rimborso rateale. Con riguardo al conto corrente in particolare, l'art. 2 della delibera del CICR stabilisce: "1. Nel conto corrente l'accredito e l'addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi con la periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità. 2. Nell'ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori. 3. Il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica".

 

Detta disposizione (art. 25 comma 3° D.Lgs. 342/1999 contenente la generica validazione delle clausole anatocistiche) è stata però dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 425 del 9.17/10/2000 della Corte Costituzionale, sotto il profilo dell'eccesso di delega rispetto alla L. 128/1998, essendo stata ritenuta non riconducibile ad alcuno dei principi e criteri posti a base del testo unico bancario, e conseguente violazione dell'art. 76 Cost..

 

Peraltro il D.Lgs. 342/1999 ha anche sancito, all'art. 25 comma 2, a modifica dell'art. 120 T.U. 385/1993, che nelle operazioni di conto corrente deve essere "assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori".

 

Sempre la Suprema Corte in altra recente pronuncia (C.C. 2593/2003, I Contratti, 2003, 545 e F.I. 2003, 1774) ha affermato che "in tema di mutuo bancario e con riferimento al calcolo degli interessi devono ritenersi senz'altro applicabili le limitazioni previste dall'art. 1283 c. c., non rilevando, in senso opposto, l'esistenza di un uso bancario contrario a quanto disposto dalla norma predetta" ed ha poi precisato, attraverso una attenta disamina della nascita dell'art. 1283 c. c. ed il raffronto tra detto calcolo e gli altri articoli del codice civile che rinviano agli usi contrari in funzione integrativa-derogatoria della disciplina legale (artt. 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756, 2148), che gli usi normativi contrari cui fa riferimento l' art. 1283 c. c. sono soltanto quelli formatisi anteriormente all'entrata in vigore del codice civile (1942), in quanto "usi contrari non avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo della norma in oggetto - impeditivo, per l'effetto, del riconoscimento di pattuizioni e comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente -, norma che si poneva come del tutto ostativa alla realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell'uso normativo" (in tale sentenza si legge anche: "E' infatti vero che l'uso contrario, se richiamato dalle norme di legge, non è contra legem ma secundum legem, ma è anche vero che l'uso formatosi contro la legge esistente, in quanto frutto di patti posti in essere contro il divieto in essa contenuto, non può mai divenire secundum legem").

 

In adesione a tale orientamento consolidato va quindi dichiarata la nullità della suddetta clausola di capitalizzazione bimestrale degli interessi passivi ed occorre quindi verificare il credito effettivamente spettante alla Banca (prima dell'estinzione del conto) o senza alcuna capitalizzazione degli interessi (ove ritenuti del tutto insussistenti usi normativi derogatori al disposto dell'art. 1283 c. c., prima della entrata in vigore del Codice Civile) o secondo un meccanismo di capitalizzazione semestrale (vedasi C.C. 2374/1999 ove si legge: "la dottrina formatasi nel vigore della disciplina anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del codice civile del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti") ovvero con una capitalizzazione annuale.

 

Secondo C. App. Torino e C. App. Milano (sentenze nn. 64 del 21/1/2002 e 1142/2003) e secondo T. Brindisi (sentenza 13/5/2002 in G. Me. 2003, 242), va negato ogni diritto della banca anche all'anatocismo annuale (e gli interessi dovuti sugli importi capitali a debito potranno quindi produrre interessi solo a far tempo dalla domanda giudiziale), in quanto non vi sarebbe possibilità alcuna di sostituzione legale o di inserzione automatica di clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità e "non essendo l'anatocismo previsto ma soltanto permesso dalla legge a determinate condizioni ed in mancanza di valida pattuizione tra le parti, esso rimane non pattuito tra le stesse" (C. App. Milano 1142/2003).

 

La soluzione della capitalizzazione annuale appare tuttavia, secondo un orientamento giurisprudenziale di merito, allo stato, prevalente (T. Milano 4/7/2002, T. Roma 8/11/2002 e T. Torino 14/11/2002, in G. Me., 2003, 242; T. Roma 28/11/2002 e T. Reggio Calabria 28/6/2002, in G. Me. 1003, 901; T. Torino 16/12/2002, G.I. 2003, 501), quella preferibile sia perché corrisponde al criterio di capitalizzazione applicato dalla banca a favore della clientela sia perché tale cadenza di capitalizzazione degli interessi appare conforme, secondo una certa dottrina, alla cadenza temporale "ex lege" degli interessi, ricavabile dal disposto dell'art. 1284 c. c. 1° comma ("il saggio degli interessi legali è determinato ... in ragione di anno") sia perché, ritenuta la nullità della clausola di capitalizzazione bimestrale per i conti anche saltuariamente a debito, resta comunque operante la clausola uniforme generale, riportata nei contratti bancari, di chiusura al 31 dicembre di ogni anno sia perché l'anatocismo annuale è contemplato anche dalla delibera del CICR (che peraltro rappresenta pur sempre un atto amministrativo, seppure di c. d. alta amministrazione).

 

Per il ricorso a detta soluzione occorre ritenere, da un lato, ammissibile nella specie il meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla di cui all'art. 1374 c. c. ("Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità"), in base al quale (vedasi anche artt. 1339 e 1419 2° comma c. c. ) le clausole contrattuali contrarie a norme imperative sono colpite da nullità e vengono di diritto automaticamente sostituite da queste, e, dall'altro, rinvenire nella disciplina generale detta fonte normativa idonea a supportare il meccanismo della suddetta capitalizzazione annuale.

 

L'orientamento della Suprema Corte non è tuttavia condiviso da una parte della giurisprudenza di merito. Secondo alcuni giudici del Tribunale di Roma (T. Roma 26/5/1999, T. Roma 14/4/1999, in F.I. 1999; v. anche T. Vercelli 9/2/2001, G.I.m 2001, 760) la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nei conti correnti bancari prescinde dall'art. 1283 c. c. : 1) essa è la naturale conseguenza delle periodiche chiusure del conto corrente convenute nei contratti o negli usi; 2) l'art. 1823 2° comma c. c. prevede che il saldo del conto è esigibile alla scadenza pattuita e che se non ne è richiesto il pagamento, il saldo finale si pone come prima rimessa di un nuovo rapporto ed il contratto si intende rinnovato; 3) l' art. 1831 c. c., nell'ambito del conto corrente ordinario (che detta il meccanismo della chiusura del conto, con la liquidazione del saldo, alle scadenze previste dal contratto o dagli usi o in mancanza ogni sei mesi), è applicabile pur in assenza di specifico richiamo ad opera dell'art. 1957 c. c. al conto corrente bancario; 4) la capitalizzazione è stata già riconosciuta dal legislatore, in quanto se ne parla all'art. 8 della L. 154/1992 (tra le comunicazioni periodiche alla clientela, ivi contemplate, vi era anche l'informazione sui "tassi di interesse applicati ... sulla capitalizzazione degli interessi"); 5) il differente regime tra conti debitori e conti creditori trova giustificazione sulla base del rischio assunto dalla banca per i primi.

 

A detto orientamento sono state mosse le seguenti obiezioni: 1) essendo il conto corrente bancario (o conto corrente di corrispondenza, come denominato negli schemi predisposti dall'ABI) un contratto attraverso il quale la banca si obbliga in favore del cliente ad effettuare riscossioni e pagamenti, questi ultimi nei limiti della disponibilità del conto, svolgendo quindi una funzione di gestione delle somme ed anche un servizio di cassa, non possono trasporsi le norme sul conto corrente ordinario al conto corrente bancario, al di fuori delle norme espressamente richiamate dall'art. 1857 c. c., per le differenze strutturali dei due contratti (nel c/c bancario le rimesse sono effettuate solo dal cliente, le partite di dare/avere si compensano progressivamente, il correntista può disporre in ogni momento delle somme risultanti a suo credito, ogni parte può recedere in ogni momento se il contratto è a tempo indeterminato; nel c/c ordinario le emesse sono bilaterali e reciproche, il saldo attivo è inesigibile dal creditore sino alla scadenza del termine e la chiusura periodica del conto è necessaria per rendere esigibile detto saldo e consentire il recesso unilaterale); 2) l'effetto della pattuizione relativa alla chiusura del conto ogni tre mesi è comunque quello di eludere (almeno per il divieto di capitalizzazione infrasemestrale) l'applicazione della norma imperativa di cui all'art. 1283 c. c. ; 3) l' art. 8 L. 154/1992, nella parte sopra richiamata, non è stato riprodotto integralmente nel T.U. 385/1993 e comunque esso non conteneva alcuno specifico richiamo alla capitalizzazione trimestrale; 4) la previsione di cui all'art. 1823 2° comma c. c., nel conto corrente ordinario ("Il saldo del conto è esigibile alla scadenza stabilita. Se non è richiesto il pagamento il saldo si considera quale prima rimessa di un nuovo conto ed il contratto s'intende rinnovato a tempo indeterminato"), implica che il saldo costituisce la prima rimessa di un nuovo conto non già dello stesso e presuppone sempre l'inesigibilità delle somme a saldo sino alla chiusura del conto, mentre per il conto corrente bancario anche i saldi passivi sono immediatamente esigibili, salvo siano ricollegati ad operazioni bancarie che ne blocchino temporaneamente la disponibilità (C.C. 4022/1985); 5) l' art. 1853 c. c., in tema di conto corrente bancario, consente, salvo patto contrario, la compensazione tra banca e correntista dei saldi attivi e passivi, anche di più conti correnti di corrispondenza allo stesso cliente intestati ed anche quando i rapporti siano ancora in corso, proprio perché non si applica, alle operazioni bancarie in conto corrente, l' art. 1823 c. c. sulla inesigibilità dei crediti sino alla chiusura del conto (C.C. 6558/1997, G.C. 1998, I, 1128); 6) negli affidamenti in conto corrente, il costo del mantenimento di una disponibilità di somma di denaro e del conseguente rischio di non restituzione è assolto dalla commissione di massimo scoperto.

 

Secondo altri giudici di merito (T. Firenze 8/1/2001; T. Bari 28/2/2001; T. Monza 2/10/2000, tutte in F.I. 2001, 2361), pure contrari al revirement della Cassazione, la prassi di procedere alla capitalizzazione trimestrale degli interessi nei rapporti bancari costituisce un uso normativo idoneo ad introdurre una regola consuetudinaria contraria all'art. 1283 c. c., ciò in quanto essa risulta essere stata prevista prima del 1942 (essendo stata inserita nelle condizioni generali di contratto predisposte dall'associazione di categoria delle Banche, la Confederazione Generale Bancaria Fascista, del 1929) ed in quanto per la sussistenza di un uso normativo è ritenuta sufficiente la sola convinzione delle parti di porre in essere comportamenti conformi ai precetti dell'ordinamento giuridico. Si può tuttavia obiettare che difettassero usi generali normativi prima del 1942 (data di entrata in vigore del codice civile, introduttivo del divieto di anatocismo), dovendo ritenersi anche le condizioni generali predisposte dalla C.G.B.F. nel 1929 comunque mere proposte alle banche di condizioni contrattuali, di natura pattizia.

 

Viene peraltro ribadito, anche da tali giudici di merito, che, dopo la revoca del fido e la chiusura del rapporto di conto corrente, non sono più dovuti interessi anatocistici (C.C. 3845/1999; T. Roma 17/12/1999).

 

Ora, dalla C.T.U. espletata dalla Dott.ssa Ma. Pa., con motivazione congrua e soddisfacente, sulla base della documentazione prodotta dalla banca convenuta, emerge che, applicando al rapporto bancario in oggetto, nel periodo in contestazione (dalla date di apertura del conto, 6/10/1994, al 4/11/1999), i tassi convenzionali debitori e sostituendo al meccanismo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi quello della loro capitalizzazione annuale, un saldo, a credito dell'attrice, pari ad € 4.615,09.

 

Deve rammentarsi che, in ipotesi di azione di accertamento negativo del credito di interessi e di azione di ripetizione delle somme versate a tale titolo e non dovute, l'onus probandi ex art. 2697 c. c. ricade sull'attore (a meno che la Banca non avanzi domanda riconvenzionale). Quest'ultimo deve quindi fornire la prova, positiva, dell'avvenuto pagamento e del collegamento causale, e la prova dell'inesistenza della causa debendi, prova questa da fornire mediante fatti positivi contrari o anche presuntivi (C.C. 1557/1998; C.C. 11029/2000). Più precisamente è stato affermato dalla Suprema Corte che "il pagamento dell'indebito oggettivo, quale trasmissione di un bene o di un valore patrimoniale che il solvens non aveva l'obbligo di effettuare né l'accipiens il diritto di ricevere, costituisce il presupposto per l'esercizio dell'azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 c. c. (configurabile come azione di nullità per difetto di causa)" (C.C. 1250/1987) e che "l'attore in ripetizione che assuma di avere pagato un importo superiore al proprio debito è tenuto a dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione, e cioè l'eccedenza di pagamento" (C.C. 9604/2000).

 

L'attrice nel presente giudizio ha fornito detta prova, attesa la pacifica estinzione del rapporto bancario sin dal novembre 1999 a seguito dell'estinzione del debito all'epoca risultante quale saldo negativo.

 

Non merita poi accoglimento l'eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta: l'azione tendente a far valere la nullità della clausola di mero rinvio agli usi, senza pattuizione scritta, in ordine alla misura dell'interesse passivo e della commissione di massimo scoperto, applicabili al rapporto bancario, e della clausola che prevede l'anatocismo in relazione alle suddette voci, è infatti imprescrittibile ai sensi dell'art. 1422 c. c., mentre l'azione di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c. c., è soggetta a prescrizione decennale ex art. 2946 c. c. (non quella breve quinquennale ex art. 2948 n. 4 c. c., applicabile solo allorché sia pattuita una corresponsione periodica degli interessi a scadenza annuale o inferiore autonomamente rispetto alla somma capitale, C.C. 802/1999, e non quando la relativa obbligazione sia accessoria all'obbligazione principale, C.C. 4939/1997), decorrente tuttavia dalla chiusura definitiva del conto (C.C. 2262/1984) e nella specie quindi dal novembre 1999, con conseguente tempestività dell'azione di ripetizione promossa nel giugno 2001.

 

Neppure può invocarsi l'approvazione tacita ex art. 1832 c. c. degli estratti-conto, in quanto "la mancata contestazione dell'estratto conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli addebiti e gli accrediti solo sotto il profilo meramente contabile ma non sotto quello della validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nei conti derivino" (C.C. 1978/1996; C.C. 5876/1991; C.C. 4735/1986), con la conseguenza che la sopravvenuta incontestabilità delle risultanze dell'estratto di conto corrente, derivante dall'art. 1832 c. c., riguarda le partite a debito ed a credito annotate in conto solamente sul piano della loro realtà materiale e non anche sul piano giuridico sostanziale, in relazione alla validità dell'atto e del contratto da cui esse derivano.

 

In definitiva in accoglimento parziale della domanda attrice, la convenuta va condannata alla restituzione alla prima della somma di € 4.615,09, oltre interessi convenzionali dalla domanda (dovendosi presumere la buona fede dell'accipiens ex art. 2033 c. c. ) al saldo.

 

Le spese, liquidate come in dispositivo, forfetariamente in difetto di notula, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando, in persona del giudice unico Dr. Gi. Io., sulle domande promosse da F.lli Ba. S.n.c., in persona del legale rappresentante p.t., con atto di citazione notificato il 13/6/2001, nei confronti della Banca Na. del La. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., nel contraddittorio delle parti, così provvede, ogni altra domanda ed eccezione respinta:

 

I) accertata la nullità della clausola convenuta all'art. 7 del contratto di conto corrente di corrispondenza n. (...), intrattenuto tra la F.lli Ba. S.n.c. e la Banca Na. del La. S.p.A., tra il 6/10/1994 ed il 4/11/1999, condanna la banca convenuta alla restituzione all'attrice dell'importo, indebitamente percepito, di € 4.615,09, oltre interessi convenzionali dalla domanda al saldo;

 

II) condanna altresì la convenuta al rimborso delle spese processuali in favore dell'attrice, liquidate € 3.954,00, di cui € 3.150,00, per onorari, € 654,00, per diritti, € 150,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali, IVA e CAP come per legge e spese di C.T.U., come liquidate con decreto del 6/2/2003.

 

 

 

 

 

 

Riferimenti:

Legge Giurisprudenza

 

TRIB. MONZA, 22/04/2003

Non è applicabile l'art. 1815, secondo comma, Codice civile ai ratei del mutuo "inter partes" scaduti successivamente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996; sono esigibili gli interessi scaduti successivamente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 nei limiti del tasso soglia effettivamente rilevato (nel caso di specie il Tribunale di Monza, in funzione di Giudice Unico, si è occupato della specifica questione se al contratto di mutuo "inter partes" si applichi la legge anti-usura n. 108 del 1996, con applicazione del tasso soglia rilevato trimestralmente dal 2 aprile 1997 previsto per la categoria di operazioni in cui l'operazione creditizia è ricompresa; e, in caso positivo, se gli interessi usurari richiesti debbano essere applicati nei limiti del tasso soglia ovvero, in applicazione dell'art. 1815, comma 2, c.c. deve rilevarsi la nullità della clausola contrattuale e non deve attribuirsi alcun interesse, né moratorie, né corrispettivo).

 

TRIB. NAPOLI, 11/10/2002

Nel definire la natura usuraria o meno dei tassi di interesse applicati ad un contratto di conto corrente si deve fare riferimento alla data in cui il contratto é stato stipulato. Dopo l'entrata in vigore della legge n. 24 del 2001, infatti, non ha più rilevanza il caso di "usurarietà sopravvenuta" a seguito del ribasso del tasso di soglia.

 

APP. MILANO, 06/03/2002

La norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1 L. 28 febbraio 2001, n. 24 - la quale stabilisce che la natura usuraria degli interessi deve essere valutata avuto riguardo unicamente al limite di legge fissato al momento della conclusione del contratto - si applica esclusivamente agli interessi dovuti in base ad un contratto di mutuo, pertanto, la clausola determinativa degli interessi moratori, pattuita in un contratto di apertura di credito in conto corrente, qualora gli interessi divengano usurari in seguito ad una diminuzione del tasso soglia dell'usura, verificatasi successivamente alla conclusione del contratto stesso deve ritenersi affetta da nullità parziale, con conseguente riduzione automatica del tasso degli interessi a quello corrispondente al tasso-soglia di volta in volta rilevato.

 

CORTE COST., 25/02/2002, N.29

E' inammissibile la q.l.c., in riferimento agli art. 3, 24, 35, 41, 47 e 77 cost., dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, conv., con modificazioni, in l. 28 febbraio 2001 n. 24, il quale, disponendo che devono intendersi usurari gli interessi che eccedono il limite fissato dalla legge al momento in cui vengono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento, avrebbe introdotto, sotto l'apparenza di una norma interpretativa, una irragionevole sanatoria in favore degli istituti di credito ed in danno dei debitori mutuatari, in quanto si tratta di questione priva di rilevanza poichè la disposizione censurata, con riferimento ad interessi originariamente usurari, pattuiti dopo l'entrata in vigore della l. n. 108 del 1996, non preclude la possibilità di far valere la nullità della relativa clausola ai sensi dell'art. 1815 comma 2 c.c., nel testo novellato dalla medesima l. n. 108 del 1996.

E' inammissibile, in riferimento agli art. 3, 24, 35, 41 e 47 cost. la q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, convertito, con modificazioni, in l. 28 febbraio 2001 n. 24, nella parte in cui, nel caso di interessi originariamente usurari pattuiti dopo l'entrata in vigore della l. n. 108/1996; la nullità della relativa clausola ai sensi dell'art. 1815, comma 2 c.c., come novellato dalla suddetta l. del 1996, non è preclusa dall'applicazione della norma impugnata.

Sono infondate le q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 394/00, conv., con modificazioni, in l. 24/01, secondo il quale, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 20, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento, in riferimento agli art. 3, 24, 47 e 77 cost.

Non è fondata, in riferimento all'art. 77 cost., la q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, conv., con modificazioni, in l. 28 febbraio 2001 n. 24 - secondo il quale "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento" -, in quanto eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge e deve escludersi che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione d'urgenza.

Non è fondata la q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, conv., con modif., in l. 28 febbraio 2001 n. 24 - secondo il quale "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento" - sollevata, con riferimento agli art. 3, 24, 35, 41 e 47 cost., sull'assunto che la norma censurata avrebbe un'efficacia irrazionalmente sanante della natura usuraria di rapporti contrattuali intercorrenti con istituti di credito, da riconnettersi all'ipotesi in cui, nel corso del rapporto, il tasso soglia scenda al di sotto del tasso di interessi convenzionale originariamente pattuito, in quanto la disposizione censurata impone - tra le tante astrattamente possibili - un'interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla l. n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la "ratio" della suddetta legge - dettata dall'esclusivo e dichiarato intento di reprimere il fenomeno usurario - ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza.

 

 

APP. ROMA, 13/09/2001

L'art. 1 comma 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 (il quale ha stabilito che, ai fini di cui all'art. 1815 c.c., devono intendersi "usurari" gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento della pattuizione, e non al momento del pagamento) ha natura interpretativa, in quanto ha sanato contrasti giurisprudenziali e, quindi, retroattiva; nè tale retroattività viola alcun precetto costituzionale, ivi compreso quello della ragionevolezza. Il patto di interessi ultralegali soddisfa il requisito della forma scritta anche quando sia redatto su un modulo predisposto dalla banca, formalmente qualificato "richiesta di fido", e sottoscritto dal solo cliente, a condizione che l'accettazione della banca risulti inequivocabilmente da altro atto scritto, indirizzato al proponente e da questi ricevuto. Sia la pattuizione di interessi, sia la pattuizione di una commissione di massimo scoperto, la cui misura sia determinata mediante rinvio agli "usi su piazza", se anteriori all'entrata in vigore della l. n. 154 del 1992, sono valide, a condizione che tali usi, in concreto, possano essere oggettivamente conoscibili dal cliente. Per effetto della sentenza n. 425 del 2000 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 25 d.lg. 342 del 1999, deve ritenersi nullo per violazione dell'art. 1283 c.c. il patto di capitalizzazione trimestrale degli interessi in favore della banca.

 

TRIB. BOLOGNA 19/6/2001

Nell’ipotesi in cui gli interessi (nel caso di specie, moratori) originariamente pattuiti al di sotto del tasso-soglia dell’usura, superino tale limite nel corso del rapporto, gli stessi devono essere ridotti al tasso-soglia, per effetto del meccanismo di integrazione legale del contratto, di cui all’art. 1339 c.c.. A tale conclusione, si perviene offrendo una lettura costituzionalmente orientata  dell’art. 1 legge n. 24 del 2001, la quale, se da un lato esclude la possibilità di irrogare la sanzione civilistica di cui al secondo comma dell’art. 1815 c.c. in caso di usurarietà sopravvenuta, dall’altro non impedisce di applicare in quei casi il meccanismo di integrazione legale del tasso negoziale mediante l’inserzione automatica del tasso soglia.

 

 

CASS. CIV., SEZ. III, 26/06/2001, N.8742

In tema di interessi usurari, l'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, per il quale ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 2, c.c. si intendono tali quelli che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento, ha natura di interpretazione autentica, e pertanto si applica retroattivamente alle controversie pendenti, con la conseguenza che le disposizioni contenute nella l. 7 marzo 1996 n. 108, contenente disposizioni in materia di usura, non sono applicabili ai contratti stipulati anteriormente alla sua emanazione.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

riunita in camera di consiglio nelle persone dei

signori magistrati:

dott. Gaetano NICASTRO, Presidente;

dott. Francesco SABATINI, relatore Consigliere;

dott. Renato PERCONTE LICATESE, "

dott. Giuliano LUCENTINI, "

dott. Giovanni Battista PETTI, "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

PUGLIA SALI s.r.l. in persona del legale rappresentante ing. Claudio Vaccaro, elett. dom. in Roma, via di Porta Pinciana n. 6, presso lo studio del prof. avv. Michele Giorgianni che la rappresenta e difende in virtù di procura a margine del ricorso

ricorrente

contro

FIME Leasing s.p.a. in liquidazione DALOISO Michele, RUSSO Martino, SPERA Beniamino, LOPEZ Ruggiero Antonio, RESTANI Renzo, EREDI di Restani Giuseppe

intimati

avverso

la sentenza n. 1949 in data 25.5. - 17.6.1999 della Corte di Appello di Roma (r.g. n. 593/97).

Udita nella pubblica udienza del 7 marzo 2001 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini.

É comparso per la ricorrente l'avv. prof. Michele Giorgianni, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Sentito il P.M. in persona del sost. procuratore generale Dott. Raffaele Ceniccola, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Su ricorso della società Fime Leasing con decreto del 22 ottobre 1991 il Presidente del Tribunale di Roma ingiunse alla società Puglia Sali, quale debitrice principale, e ad altri, quali fideiussori, il pagamento della somma di lire 1.644.375.450, oltre interessi convenzionali e spese, a titolo di canoni arretrati di tre diverse locazioni finanziarie.

Proposero opposizione, tra gli altri, la debitrice principale ed i fideiussori Giuseppe e Renzo Restani, i quali dedussero: la nullità di tutti i contratti stipulati con la Fime Leasing, riguardanti beni già di proprietà di essa utlilizzatrice, (*) perché configuranti operazioni di lease back nulle per il divieto del patto commissorio; la nullità della pattuizione relativa alla maggior somma da restituire, rispetto al finanziamento erogato, per mancata determinazione per iscritto ed illiceità del saggio d'interesse applicato; l'inapplicabilità, come tasso degli interessi di mora, del saggio d'interesse previsto dai contratti.

La Fime Leasing chiese il rigetto delle opposizioni e la condanna degli opponenti al pagamento dei canoni ed accessori, successivi al 31.3.1991, maturati e maturandi in corso di giudizio.

Con sentenza del 30 novembre 1995 il Tribunale di Roma respinse le opposizioni, escludendo in particolare che le pattuizioni intercorse tra le parti configurassero un patto commissorio, nonché la domanda riconvenzionale.

Tale decisione fu impugnata in via principale dalla Puglia Sali e da Giuseppe e Renzo Restani, e, in via incidentale dalla Fime Leasing.

Con sentenza del 17 giugno 1999 la Corte di Appello ha respinto l'appello principale ed ha disposto accertamenti istruttori quanto a quello incidentale, riservando alla pronuncia definitiva il regolamento delle spese.

La Corte territoriale ha affermato che il contratto di lease back, di per sé lecito, viola nondimeno l'art. 2744 c.c. solo in presenza di "circostanze obiettive e sintomatiche (sussistenza di una situazione credito - debitoria preesistente; sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato) ovvero allorché le parti abbiano voluto costituire, attraverso la vendita, una garanzia reale a favore della società di leasing, subordinando al mancato pagamento dei canoni della locazione il definitivo trasferimento in proprietà del bene oggetto della vendita, senza consentire al venditore - utilizzatore di riacquistarne la proprietà con il pagamento del prezzo di opzione, al termine del contratto di lease back". Nella specie non erano ravvisabili concreti elementi di coartazione della volontà della venditrice, tenuto conto in particolare della circostanza che la Fime Leasing non aveva acquistato definitivamente l'immobile, essendosi la venditrice riservata di riacquistarlo al prezzo d'opzione dell'un per cento del valore dei beni. Non era provata la doglianza concernente la mancata detrazione - dall'intero importo dovuto di lire 3.535.000.000 - delle somme di lire 1.655.000.000 e 520.000.000, che sarebbero state rispettivamente erogate dall'Agenzia del Mezzogiorno ed anticipate dalla Puglia Sali all'atto della stipula della convenzione, e, d'altronde, il credito della Fime Lesing era provato dalle fatture e dagli estratti notarili del libro giornale, mentre non era condivisibile la perizia stragiudiziale. Il tasso d'interesse - nella misura del 20% per il contratto del 28.11.1986 e del 17% per quello del 21.12.1987 - era stato così stabilito dall'art. 5 del contratto, né era applicabile l meno elevato tasso di riferimento di cui all'art. 20 d.p.r. 9.11.1976 n. 902, riferendosi esso esclusivamente alle operazioni di mutuo agevolato. Nessuna responsabilità poteva infine addebitarsi alla Fime Lesing quanto all'entità dei contributi concessi stante il disposto dell'art. 2 delle clausole aggiuntive del contratto di locazione finanziaria - in forza del quale la mancata concessione o erogazione dei contributi in conto canoni, a qualunque causa dovuti, non poteva determinare alcun effetto sul contratto di locazione finanziaria - ed il carattere discrezionale della misura del contributo, rimesso all'Agenzia per il Mezzogiorno.

Per la cassazione di tale decisione la sola società Puglia Sali ha proposto ricorso immediato, affidato a sei motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso la società ricorrente deduce con riferimento all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. e degli artt. 1322 e 2744 c.c., nonché vizio di motivazione su punto decisivo, e - richiamate l'elaborazione giurisprudenziale in tema di lease back e l'affermata astratta validità di tale contratto - osserva che i giudici del merito erano chiamati a decidere se nella fattispecie sottoposta al loro esame fosse ravvisabile "uno sviamento rispetto allo schema socialmente tipico del contratto" tale da comportarne l'invalidità, ed in particolare se essa ricorrente "avesse ottenuto, con immediatezza, liquidità, e cioé il finanziamento, mediante l'alienazione di un bene strumentale di cui conservava l'uso, o se esso fosse invece rivolto ad una finalità diversa da quella di finanziamento, e segnatamente alla costituzione di una garanzia"; addebita quindi alla sentenza impugnata di aver limitato la sua indagine alla verifica astratta della validità del contratto trascurando invece di esaminare il caso concreto ed afferma che la circostanza che "i beni non esistevano ma erano da realizzare a cura della Fime Leasing, costituiva già, da sola, una ineliminabile deviazione dallo schema tipico del contratto", il quale pertanto non aveva ad oggetto, come invece era necessario un bene strumentale; giudica irrilevante la delibera del proprio consiglio d'amministrazione, richiamata dalla stessa sentenza a sostegno della validità del contratto, e rileva che l'opzione di riacquisto costituisce elemento normale dello schema negoziale; osserva quindi che essa ricorrente nel 1986 aveva acquistato un terreno sul quale aveva iniziato la costruzione degli edifici ed installato le prime macchine, terreno che aveva poi venduto alla Fime Leasing per il prezzo di lire 403.644.067 in mancanza della liquidità necessaria per la piena attuazione del proprio progetto di costruzione di uno stabilimento industriale, progetto che comportava una spesa di oltre tre miliardi di lire; l'acquirente assunse l'impegno di detta attuazione e non versò il prezzo d'acquisto, che avrebbe dovuto essere conteggiato con la prima rata del canone mensile; il corrispettivo della locazione finanziaria venne determinato in lire 5.156.765.075, poi elevate a lire 5.922.794.390 a seguito di investimento integrativo eseguito dalla Fime Leasing il divieto del patto commissorio emergeva dalla circostanza che, in tale complessiva operazione, la vendita immobiliare non rispondeva ad alcuna esigenza finanziaria e ad essa la ricorrente aveva dato il proprio assenso perché la Fime Leasing si accreditava quale mandataria dell'Agenzia per il Mezzogiorno.

Il motivo è in parte inammissibile, perché rivolto al riesame delle risultanze processuali, ed in parte infondato.

Come questa C.S. ha affermato con sentenza del 16 ottobre 1995 n. 10805 (seguita dalle successive nn. 6663/97 e 4095/98), il contratto atipico di sale and lease back - valido in via di principio perché diretto a realizzare, ai sensi dell'art. 1322 cpv. c.c., interessi meritevoli di tutela - è invece nullo per violazione del divieto di patto commissorio allorquando scopo effettivo dell'operazione è piuttosto quello di dotare il venditore di una provvista finanziaria assistita da garanzia reale.

La ricorrente non pone in discussione tale indirizzo - che, al contrario, mostra di condividere incondizionatamente - ma, come accennato, addebita alla sentenza impugnata di aver trascurato di esaminare il caso concreto: addebito privo di ogni fondamento attese le argomentazioni al riguardo da essa svolte (pag. 11 - 12).

Insussistente, pertanto, è la dedotta violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. così, come manifestamente, lo è quella dell'art. 1322 c.c.

La violazione dell'art. 2744 c.c. viene denunciata quale effetto della costituzione di una garanzia reale a favore dell'acquirente, che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici del merito, sarebbe stata lo scopo effettivo della complessiva operazione.

Orbene, come questa C.S. ha già avuto occasione di affermare (sent.

n. 6663/97 già citata), stabilire se lo schema negoziale del lease back sia stato o non in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio involge accertamenti di fatto da compiere in base ad elementi sintomatici sia soggettivi che oggettivi: come nella specie ha fatto la Corte territoriale la quale ha attribuito rilievo decisivo, così disattendendo la tesi dell'appellante, al prezzo convenzionale d'opzione, stabilito nella misura minima dell'un per cento del valore di acquisto dei beni, e compiendo in tal modo un accertamento motivato e logico, come tale insindacabile in questa sede di legittimità.

Non vale opporre, come fa la ricorrente, che tale opzione costituisce elemento normale dello schema negoziale, non essendo affatto precluso al giudice del merito nondimeno sindacare, ai fini in esame, le relative condizioni.

Non vizia la motivazione la circostanza che il progetto di costruzione dello stabilimento industriale sul terreno compravenduto fosse, a tale data, in fase attuativa soltanto iniziale, e che l'attuazione venne poi condotta a termine dalla società acquirente - con rilevante impegno finanziario, come la stessa ricorrente sottolinea, l'impegno di gran lunga eccedente il valore del bene compravenduto -, perché ciò nondimeno non può negarsi valore potenzialmente strumentale al bene stesso.

Deve, infine, rilevarsi che il patto commissorio, vietato dall'art. 2744 c.c., è configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione di un'obbligazione e non anche nel caso in cui tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. 3.2.1999 n. 893): scelta che nella specie la Corte territoriale con il richiamo alla delibera consiliare della società venditrice, ha motivatamente ritenuto essersi verificata.

2. Con il secondo motivo la ricorrente si duole della mancata detrazione, dal calcolo dei canoni di leasing, delle somme di lire 1.655.000.000 e 520.000.000 (che sarebbe state rispettivamente erogate dall'Agenzia per il Mezzogiorno ed anticipate dalla stessa Puglia Sali all'atto della stipula delle convenzioni), dell'omesso approfondito esame della perizia stragiudiziale da essa prodotta, e dell'erroneo convincimento della mancata contestazione delle fatture prodotte dalla Fime Leasing: censure sulla base delle quali la stessa ricorrente allega la violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. nonché vizio di motivazione.

Osserva la Corte che il motivo involge accertamenti di fatto motivatamente compiuti dai giudici del merito ed insindacabili in questa sede: la Corte territoriale ha infatti disatteso la tesi dell'appellante sulla base di una pluralità di argomentazioni basate su altrettante risultanze processuali mancata prova delle asserite detrazioni, criterio di calcolo dei canoni indicato dall'art. 5 del contratto, fatture ed estratti autentici notarili, non condivisibilità della perizia perché basata sui maggiori importi dei contributi che solo ipoteticamente la Puglia Sali avrebbe potuto incassare), risultanze alle quali la stessa Corte ha inteso attribuire un significato probatorio complessivo, e che solo in parte, e non in tale complessivo significato, vengono censurate dalla ricorrente, la quale pone essa stessa in evidenza che il proprio perito aveva formulato "varie ipotesi alternative" ed in questa sede di legittimità inammissibilmente si duole del fatto che il giudice del merito abbia esercitato il proprio doveroso potere valutativo in senso difforme dalle sue attese.

3. La Corte territoriale ha ritenuto legittima la determinazione convenzionale degli interessi nella misura del 20% e del 17%, rispettivamente per i contratti del 28.11.1986 e del 21.12.1987: punto della decisione che è investito dal terzo e dal quarto motivo del ricorso - strettamente connessi e, pertanto, da esaminare congiuntamente - con i quali si deduce, con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 1815 c.c., 20 d.p.r. 9.11.1976 n. 902, 2 e 3 legge 7.3.1996 n. 108, della legge 2.5.1976 n. 183 e dei decreti ministeriali 30.10.1986, 27.10.1987, 23.9.1996, 22.3.1997, 20.12.1999 nonché - limitatamente al terzo motivo - vizio di motivazione.

A sostegno di essi la ricorrente allega che la Fime Leasing, tenuta a compiere operazioni alternative al mutuo agevolato, era tenuta ad osservare il saggio di riferimento di cui ai primi due decreti ministeriali sopra citati, rispettivamente fissato nella misura del 13,90% e del 13,65%, e che il tasso convenzionale viola inoltre le sopravvenute norme imperative in tema di usura.

a) Rileva preliminarmente la Corte che nessuno dei decreti ministeriali sopra citati risulta acquisito agli atti del giudizio di merito (né a quello di legittimità nel quale essi non potevano del resto essere per la prima volta prodotti stante il divieto posto dal primo comma dell'art. 372 c.p.c.), e che l'ultimo è perfino successivo alla pubblicazione della sentenza impugnata.

Orbene, trattandosi di atti amministrativi, non può riguardo ad essi trovare applicazione il principio jura novit curia (art. 113 primo comma c.p.c.), dovendo tale norma essere letta ed applicata con riferimento all'art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile, il quale contiene l'indicazione delle fonti del diritto, le quali non comprendono gli atti suddetti (vedansi al riguardo Cass. nn. 5483/98 e 6933/99), con la conseguente inammissibilità delle censure basate sulla asserita violazione di tali decreti.

b) La Corte territoriale ha escluso la vincolatività del "tasso di riferimento" con il rilievo che esso riguarda esclusivamente le operazioni di mutuo agevolato e non incide pertanto sul rapporto contrattuale in questione.

Avverso tale affermazione la ricorrente, pur implicitamente riconoscendo che la controversia non concerne operazioni di mutuo agevolato, adduce che la Fime Leasing era tenuta a compiere operazioni "alternative" e fungibili, anch'esse pertanto soggette al tasso di riferimento, ed al riguardo richiama l'art. 17 legge 2.5.1976 n. 183 e l'art. 20 d.p.r. 9.11.1976 n. 902, nonché, genericamente, l'uno e l'altro testo normativo.

Osserva la Corte che, anche a non voler ritenere assorbenti le ragioni di inammissibilità di cui al precedente punto a), la doglianza è inammissibile laddove - a sostegno della tesi della equipollenza, agli effetti in esame, delle operazioni di mutuo agevolato e di quelle ad esse alternative - genericamente richiama la legge n. 183/76 ed il d.p.r. n. 902/76, sulla disciplina, rispettivamente, dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976 - 80 e del credito agevolato al settore industriale, ed è infondata anche nel merito quanto alla dedotta e specifica violazione, rispettivamente, degli artt. 17 e 20 dei predetti testi normativi, poiché la prima disposizione detta norme concernenti la locazione finanziaria di attività industriali ma non anche il c.d. tasso di riferimento mentre la seconda, pur riferendosi a detto tasso, non specifica però che esso concerne anche le operazioni di cui è causa.

c) La violazione della legge n. 108/96 (non dedotta in sede di appello sebbene questo sia stato proposto successivamente alla sua entrata in vigore, né d'ufficio esaminata dalla Corte territoriale) non sussiste atteso che l'art. 1 primo comma d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, recante interpretazione autentica della legge suddetta, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001 n. 24, dispone che, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815 secondo comma c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Trattasi di norma dichiaratamente interpretativa e pertanto retroattiva la quale come tale disciplina anche la controversia in esame, con la conseguenza che, trattandosi di interessi convenuti in epoca ben antecedente all'entrata in vigore delle norme antiusura, queste non possono trovare applicazione

Non può, pertanto, essere confermato l'indirizzo affermativo della - parziale - retroattività della legge n. 108/96, di cui alle sentenze di questa C.S. (nn. 1126, 5286 e 14899 del 2000), tutte precedenti l'intervento normativo sopra richiamato.

4. Il motivo di appello concernente la pretesa negligenza della Fime Leasing nella cura della pratica per l'ottenimento dei contributi dell'Agenzia per il Mezzogiorno è stato disatteso dalla Corte territoriale con il rilievo che, a norma dell'art. 2 del contratto, la mancata concessione dei contributi, a qualunque causa dovuti, non poteva determinare effetti di sorta.

In senso contrario la ricorrente afferma invece con il quinto motivo che la Fime Leasing, avendo assunto l'obbligo di eseguire determinate attività in vista dell'erogazione dei contributi, doveva rispondere del relativo inadempimento, rispetto al quale non rilevava la clausola contrattuale sopra citata, e denuncia pertanto la violazione degli artt. 1176, 1218, 1362 e ss. 2043 e ss. c.c. nonché vizio di motivazione.

Osserva la Corte che la mancata assunzione di un'obbligazione di risultato - nella specie accertata dai giudici del merito con decisione che, sul punto, non forma oggetto di doglianze - non esonera di per sé il debitore dalla responsabilità per l'obbligazione di mezzi, che egli abbia nondimeno assunto.

Se, pertanto, l'affermazione di principio della Corte territoriale è di per sé erronea, essa non può tuttavia comportare effetti di sorta sulla validità della sentenza sia per la genericità della doglianza sul punto - di fatto - della asserita negligenza, sia per non avere la ricorrente riportato in ricorso, come doveva in osservanza dell'onere di autosufficienza, la diversa clausola contrattuale, cui essa fa riferimento.

5. Il sesto motivo, con il quale la ricorrente si duole dell'accoglimento dell'appello incidentale della Fime Leasing, è inammissibile giacché la Corte territoriale, pur mostrandosi orientata per l'accoglimento, non ha affatto pronunciato in tal senso ma si è limitata invece a disporre ulteriori accertamenti istruttori, di guisa che, sul punto, la decisione ha veste sostanziale di ordinanza e potrà essere separatamente impugnata se ed in quanto essa sarà confermata dalla emananda sentenza definitiva.

6. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto, senza provvedimenti sulle spese non avendo gli intimati vittoriosi svolto attività difensiva.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte, il 7 marzo 2001.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 26 GIU. 2001.

(*) n.d.r. così nel testo.

 

 

CASS. CIV., SEZ. I, 17/11/2000, N.14899

 

Nel mutuo, ove il rapporto negoziale non sia ancora esaurito in quanto perduri l'obbligazione di corrispondere, oltre ai ratei di somma capitale, anche gli interessi, la rilevabilità d'ufficio della nullità della clausola relativa agli interessi, che si assumano essere usurari in applicazione dei criteri dettati dalla l. n. 108 del 1996 non può ritenersi preclusa per il solo fatto che il contratto sia stato stipulato anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Pasquale REALE - Presidente -

Dott. Giovanni LOSAVIO - Consigliere -

Dott. Vincenzo FERRO - Consigliere -

Dott. Giovanni VERUCCI - Rel. Consigliere -

Dott. Giuseppe Maria BERRUTI - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MALMESI GLAUCO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZALE CLODIO 12, presso l'avvocato AGOSTA G., rappresentato e difeso dall'avvocato GUGNONI PIER PAOLO, giusta procura in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro

BANCA UCB SpA, già UCB CREDICASA SpA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA OSLAVIA 40, presso l'avvocato BEVERE MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato Rossi MATTEO, giusta mandato in calce al ricorso notificato;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 746/98 della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 25/06/98;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/07/2000 dal Consigliere Dott. Giovanni VERUCCI;

udito per il resistente, l'Avvocato Rossi, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAJUTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Glauco Malmesi conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Forlì, la s.p.a. UCB -Credicasa, esponendo di aver stipulato con la convenuta, in data 29 maggio 1993, un contratto di mutuo ipotecario di lire 55.000.000, da destinare all'acquisto di un immobile, obbligandosi al rimborso mediante rate mensili al tasso annuo del 15/55% costante per i primi cinque anni e con un prospetto di ammortamento che prevedeva rate crescenti: poiché alla fine del 1994, a fronte di versamenti per lire 10.324.709, il debito capitale si era ridotto a sole lire 52.020.997, era evidente che non esisteva un equilibrio sinallagmatico. L'attore chiedeva, quindi, che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta e che la banca fosse condannata al risarcimento dei danni.

Costituitasi, la convenuta resisteva alla domanda, eccependo pregiudizialmente l'incompetenza per territorio del giudice adito.

Con sentenza non definitiva del 14 maggio 1996, il Tribunale dichiarava la propria competenza e, con ordinanza in pari data, fissava per la prosecuzione del giudizio l'udienza del 27 giugno 1996 (poi rinviata d'ufficio al 6 novembre '96): con sentenza definitiva del 19 marzo 1997, rigettava la domanda. L'impugnazione proposta dal Melmesi veniva respinta dalla Corte d'Appello di Bologna con sentenza 25 giugno 1998.

Osservava la Corte, per quanto in questa sede rileva, che i primi giudici avevano correttamente dichiarato inammissibile la domanda subordinata di nullità della clausola contrattuale relativa agli interessi, formulata per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, con riferimento all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996: la tesi dell'appellante, secondo cui la domanda sarebbe stata tempestiva, perché proposta nel primo atto difensivo successivo a detta legge e perché controparte non ne aveva comunque eccepito la preclusione, non poteva essere condivisa, atteso che, sotto il primo profilo, già anteriormente alla riforma del 1996 il secondo comma dell'art. 1815 c.c. prevedeva la nullità della clausola con la quale fossero stati convenuti interessi usurari, con la conseguenza che il Malmesi avrebbe potuto dedurne la nullità sin dall'atto di citazione, a nulla rilevando lo "ius superveniens", tanto più che la legge n. 108 è entrata in vigore il 9 marzo 1996 e nessuna domanda era stata avanzata all'udienza del 6 novembre successivo, sotto il secondo profilo, la novità della domanda è rilevabile d'ufficio e, in ogni caso, non è sufficiente il mero silenzio della controparte per ritenere che abbia accettato il contraddittorio.

Quanto alla doglianza del Malmesi circa la rilevabilità d'ufficio della nullità della clausola con la quale erano stati pattuiti gli interessi, la Corte falsinea osservava che il Tribunale aveva esattamente applicato il principio secondo cui la rilevabilità d'ufficio ex art. 1421 c.c. va coordinata con i principi della domanda e della disponibilità delle prove, il giudice non potendo prospettarsi questioni che implichino indagini per le quali manchino gli elementi necessari, come nel caso di specie, in cui il carattere usurario degli interessi non risultava dal contratto di mutuo, dal quale emergeva soltanto il saggio convenuto. Secondo la Corte territoriale, infatti, il riferimento normativo non era l'art. 1 della legge n. 108/96, trattandosi di contratto stipulato nel 1993, sebbene l'art. 644 c.p. nel testo anteriormente vigente: ne derivava la necessità di accertare la sussistenza dello stato di bisogno dell'obbligato e dell'approfittamento da parte dell'altro contraente, elementi che non risultavano direttamente dagli atti: né valeva richiamare l'art. 185 disp.att. cod.civ., dal cui tenore emerge che si riferisce all'art. 1815 c.c. nella formulazione anteriore alla novella del 1996.

Per la cassazione di tale sentenza il Malmesi ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, illustrati anche con memoria. Resiste la Banca UCB s.p.a. (già UCB Credicasa s.p.a.) con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 189 cpc, in relazione all'art. 360 n. 3 dello stesso codice, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia confermato la statuizione dei primi giudici circa l'inammissibilità della domanda subordinata di nullità della clausola relativa agli interessi del contratto di mutuo, perché formulata per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni.

Secondo il ricorrente, si sarebbe dovuto considerare che la questione, derivante da "ius superveniens", era stata proposta nel primo atto difensivo successivo all'entrata in vigore della legge 7 marzo 1996 n. 108 ("Disposizioni in materia di usura") e dei decreti di attuazione: inoltre, v'era stata implicita accettazione del contraddittorio, atteso che la banca non ne aveva eccepito la preclusione.

Occorre rilevare, anzitutto, che il ricorrente non censura l'affermazione della Corte felsinea secondo cui la questione avrebbe potuto essere dedotta già con l'atto di citazione, dal momento che l'art. 1815 c.c. prevedeva comunque - prima della modifica apportata con l'art. 4 della legge 7 marzo 1996 n. 108 - la nullità della clausola con la quale fossero stati pattuiti interessi usurari (un breve cenno al riguardo è contenuto solo nella memoria presentata ai sensi dell'art. 378 c.p.c., peraltro in replica ad argomentazione della controparte): trattandosi di ragione concorrente idonea a sorreggere anche da sola la decisione, sotto tale profilo il motivo é inammissibile per difetto di interesse (cfr. Cass. 11902/98, 9866/98, 13117/97), con conseguente irrilevanza della questione relativa allo "ius superveniens" ed alla proposizione della domanda nel primo atto difensivo immediatamente successivo all'entrata in vigore della l. 108/96 e dei relativi decreti di attuazione.

Sotto altro profilo, la censura è infondata: nel ritenere, infatti, che il mero silenzio della banca non costituisse accettazione dal contraddittorio sulla domanda intempestivamente proposta, il giudice di merito si è attenuto al principio - riferibile alla normativa previgente alla novella del 1990 - secondo cui il divieto di introdurre nuove domande nel corso del giudizio di primo grado non è sanzionabile esclusivamente in presenza di un atteggiamento della parte interessata consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio, ovvero in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione, tenendo presente che, ai fini dell'apprezzamento di tale concludenza, non assume rilievo il semplice protrarsi del difetto di reazione e non può essere attribuito valore indicativo al mero silenzio della controparte in sede di precisazione delle conclusioni, ove la domanda nuova sia proposta in tale sede (SS.UU. 4712/96 e, più di recente, Cass. 11508/98).

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 1421 c.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per non aver considerato che dagli atti emergevano gli elementi da cui poter rilevare d'ufficio la nullità della clausola relativa agli interessi.

Con il terzo mezzo, infine, denuncia violazioni degli artt. 1 L.108/96 e 185 disp.att. cod.civ., rilevando, per un verso, che sull'applicabilità della normativa in tema di usura non incide la circostanza che il contratto di mutuo sia stato stipulato nel 1993, e per altro verso, che il ragionamento svolto dalla Corte territoriale circa l'art. 185 disp.att. cod.civ. porta alla sua abrogazione.

Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente per l'evidente connessione, sono fondate nei limiti di seguito precisati.

É fuor di dubbio che il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità di un contratto o di una clausola di esso, ai sensi dell'art. 1421 c.c., vada coordinato con il principio della domanda ex artt. 99 e 112 c.p.c. (tra le ultime, Cass. 123/2000 e 1811/99): nel caso di specie, tuttavia, la Corte falsinea non ha fatto buon governo di tale principio, essendo evidente che, per il tramite della domanda principale di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, era stata contestata l'esecuzione del contratto, soprattutto con riferimento alla pattuizione degli interessi, tant'é che la stessa Corte territoriale non ha posto in discussione tale aspetto, limitandosi a rilevare che occorrevano indagini sul carattere usuraio degli interessi (in partico1are, sullo stato di bisogno dell'obbligato e sul consapevole approfittamento di detto stato da parte della banca), perché non poteva trovare applicazione la novella del 1996 in tema di usura, il contratto essendo del 1993.

Si tratta, allora, di verificare la conformità a diritto di quest'ultima affermazione, costituente la vera "ratio decidendi" della sentenza impugnata per quanto attiene alla rilevabilità d'ufficio della nullità.

Va subito precisato che, contrariamene all'assunto del ricorrente, a tali fini non rileva l'art. 185 disp.att. e trans. del codice civile, dal cui tenore si evince chiaramente che si riferisce alla formulazione dell'art. 1815 c.c. anteriore alla modifica apportata dall'art. 4 della l. 108/96: in altri termini, la norma in questione é, ora, sostanzialmente inefficace, dovendosi ritenere che la sua vigenza formale sia frutto di un difetto di coordinamento legislativo.

La soluzione è altrove e va individuata nei principi enunciati da questa Corte con le recenti sentenze nn. 5286/2000 e 1126/2000.

Con la prima (in tema di interessi moratori per scoperto di conto corrente, ma con argomenti di carattere generale) è stato affermato che la pattuizione di interessi a tasso divenuto usuraio a seguito della legge 108/96 è nulla anche se compiuta in epoca antecedente all'entrata in vigore di detta legge. Giova ripercorrere, sia pure sinteticamente, l'"iter" logico - giuridico di tale decisione.

Premesso che una pattuizione di interessi intervenuta prima dell'entrata in vigore della legge 108/96 non può, stante il principio dell'art. 25, 2^ comma, Cost., essere ritenuta penalmente rilevante sol perché detti interessi risultino superiori alla soglia fissata, questa Corte ha osservato che, pur dovendosi ritenere in via di principio che il giudizio di validità vada condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto, tuttavia, verificandosi un concorso tra autoregolamentazione pattizia ed autoregolamentazione normativa, diviene insostenibile la tesi che subordina l'applicabilità dell'art. 1419, 2^ comma, c.c. all'anteriorità della legge rispetto al contratto, perché l'inserimento ex art. 1339 cc. del nuovo tasso incontra l'unico limite che si tratti di prestazioni non ancora eseguite, in tutto od in parte.

Va ora precisato, con riferimento allo specifico tema del contratto di mutuo, che merita di essere condiviso l'orientamento dottrinario secondo cui l'ampia dizione degli artt. 1339 e 1419, 2^ comma, cod.civ. consente non solo la sostituzione automatica di clausole con altre valute dall'ordinamento, ma anche la semplice eliminazione di clausole nulle senza alcuna sostituzione, dovendosi tener conto del maggior spessore della eteroregolamentazione nell'ambito della contrapposizione tra autonomia contrattuale ed imperatività della norma.

La citata sentenza n. 5286/2000 ha precisato, altresì, che: a) la tesi ha trovato l'autorevole avallo della Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 1997, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1938 c.c. proprio sulla base della considerazione che, pur avendo carattere innovativo la legge n. 154/92 e non applicandosi retroattivamente, tuttavia ciò non implica che la disciplina precedente acquisiti caratteri ultrattivo; b) l'obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di prestazioni successive; c) ai fini della qualificazione usuraria degli interessi, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto, come si evince anche dall'art. 644 - ter cod.pen. (introdotto dall'art. 11 l. 108/96); d) in tal senso è la giurisprudenza penale di questa Corte, secondo cui la dazione degli interessi non costituisce "post factum" non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante; e) anche a non voler aderire alla configurabilità della nullità parziale sopravvenuta, comunque non si può continuare a dare effetto alla pattuizione di interessi eventualmente divenuti usurari, a fronte di un principio introdotto nell'ordinamento con valore generale ed assoluto e di un rapporto non ancora esaurito.

Quest'ultimo profilo, in particolare, è stato oggetto di esame da parte della sentenza n. 1126/2000, secondo cui "si può ben ritenere che la sopravvenuta legge 106/96, di per sé evidentemente non retroattiva e dunque insuscettibile d'operare rispetto agli anteriori contratti di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso", quindi, per l'appunto, la corresponsione degli interessi.

Ne deriva che, sulla base del contratto di mutuo acquisito agli atti ed in presenza di un rapporto non ancora esaurito all'entrata in vigore della legge n. 108/96, per il perdurare dell'obbligazione di corrispondere, oltre ai ratei di somma capitale, anche gli interessi (quantomeno, per il periodo di vigenza del rapporto, fino alla sua eventuale risoluzione), la Corte di merito non poteva escludere radicalmente la rilevabilità d'ufficio della dedotta nullità della clausola relativa agli interessi, sol perché la pattuizione era intervenuta in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996: al contrario, avrebbe dovuto verificare se detta nullità sussistesse o meno, correlando il convenuto tasso degli interessi alla nuova normativa in tema di mora. Ciò non ha fatto, di talché, in accoglimento del ricorso nei limiti precisati, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice, designato in diversa sezione della Corte d'Appello di Bologna, che si atterrà a quanto enunciato in tema di rilevabilità d'ufficio della nullità (eventuale) della clausola relativa agli interessi del contratto di mutuo.

É appena il caso di osservare che le considerazioni svolte dalla banca controricorrente circa i tassi massimi consentiti all'epoca della stipulazione del contratto ed alla stregua dei decreti attuativi della legge n. 108/96, ai fini della, qualificabilità o meno come usurari degli interessi medesimi, attengono al merito della controversia e non possono trovare ingresso nella presente sede di legittimità.

Allo stesso giudice di invio è demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione. /STRONG>

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d'appello di Bologna.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 NOV. 2000.