SENTENZE SULL’USURA
LA CORTE
COSTITUZIONALE SENTENZA N. 457 ANNO
2005
composta
dai signori: Presidente: Annibale MARINI; Giudici: Franco BILE, Giovanni
Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo
MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi
MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe
TESAURO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art.
20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti
il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e
dell'usura), promosso con ordinanza 25 gennaio 2005 dal Tribunale di Lecce,
nel procedimento di esecuzione promosso da Mediocredito della Puglia S.p.A.
ed altri contro Leonardo Metrangolo ed altri, iscritta al n. 286 del
registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2005.
Visto l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera
di consiglio del 16 novembre 2005 il Giudice relatore Annibale Marini.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento di espropriazione
immobiliare il Tribunale di Lecce, con ordinanza depositata il 26 gennaio 2005, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della
Costituzione ed «al principio fondamentale della separazione dei poteri
dello Stato», questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma
7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo
di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura).
La disposizione impugnata dispone che la sospensione
dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista al comma 4 in favore dei soggetti
che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l'elargizione
di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, abbia effetto «a seguito
del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il
presidente del tribunale».
Espone il rimettente che – nel procedimento esecutivo
di cui si tratta – il Prefetto di Lecce, nonostante il parere contrario del
presidente del Tribunale, ha espresso parere favorevole ad una nuova
sospensione di trecento giorni dei termini del processo esecutivo, pur
avendo il debitore esecutato già goduto una volta, nel medesimo
procedimento, del suddetto beneficio.
Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata
non possa essere interpretata nel senso di consentire che la sospensione
del procedimento per trecento giorni venga disposta per più di una volta,
ostandovi non soltanto la lettera della disposizione ma anche la sua ratio,
evidentemente ispirata al contemperamento tra «le legittime aspettative del
debitore che sia stato vittima dei reati di usura e di estorsione» e «le
contrapposte esigenze di tutela dei creditori che la procedura esecutiva
mira a soddisfare, almeno parzialmente».
L'intero impianto della legge, in uno con le norme del
regolamento di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica
16 agosto 1999, n. 455 (Regolamento recante norme concernenti il Fondo di
solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura, ai sensi
dell'articolo 21 della legge 23 febbraio 1999, n. 44), renderebbe d'altro
canto palese l'intenzione del legislatore di circoscrivere in lassi
temporali assai ristretti la definizione delle richieste avanzate al Fondo
di solidarietà, cosicché la sospensione dei procedimenti esecutivi per un
periodo, non reiterabile, di trecento giorni risulta più che sufficiente a
consentire la conclusione dell'iter amministrativo.
Il giudice dell'esecuzione tuttavia – ad avviso dello
stesso rimettente – non può che prendere atto della determinazione del
Prefetto, atteso il tenore testuale della disposizione, cosicché la
procedura esecutiva di cui si tratta – ed in ciò risiede la rilevanza della
questione – dovrebbe essere senz'altro sospesa per ulteriori trecento
giorni.
Assume,
peraltro, il giudice a quo che la norma, attribuendo ad un
funzionario subordinato al potere esecutivo il potere di adottare un
provvedimento vincolante per l'autorità giudiziaria, si pone in contrasto
sia con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, secondo cui i
giudici sono soggetti soltanto alla legge, sia con l'art. 108, secondo
comma, della Costituzione, secondo cui la legge assicura l'indipendenza
degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia, sia
infine con il fondamentale principio di separazione dei poteri, «proprio di
ogni Stato democratico».
Il prefetto,
infatti, non è un organo indipendente ed imparziale, essendo, al contrario,
alle dirette dipendenze del Governo, ed è privo di quelle garanzie, prima
fra tutte l'inamovibilità, poste a fondamento della autonomia ed
indipendenza dei giudici.
Aggiunge infine il rimettente che la stessa Corte
costituzionale, in una serie di pronunce in tema di composizione degli
organi giurisdizionali, avrebbe in sostanza affermato il principio secondo
cui il prefetto e funzionari comunque dipendenti dal potere esecutivo non
possono ingerirsi in alcun modo nell'amministrazione della giustizia.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Lecce dubita, in
riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione
ed «al principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato»,
della legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7, della legge 23
febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per
le vittime delle richieste estorsive e dell'usura), secondo cui la
sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni,
prevista al comma 4 in
favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata
richiesta l'elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge,
«ha effetto a seguito del parere favorevole del prefetto competente per
territorio, sentito il presidente del tribunale».
2.– La questione è fondata.
2.1.– Il giudice rimettente muove dal presupposto
interpretativo – non implausibile, alla stregua del dato testuale – secondo
cui quella attribuita al prefetto dalla norma impugnata non è una funzione
meramente consultiva, atteso che la sospensione dell'esecuzione risulta
espressamente subordinata al solo “parere favorevole” dello stesso
prefetto, in presenza del quale il giudice non può, quindi, che adottare il
relativo provvedimento, senza alcuna possibilità di sindacato riguardo alla
sussistenza delle condizioni di legge. Così come, all'inverso, il “parere”
negativo del prefetto di per sé impedisce la concessione del beneficio.
La valutazione in ordine alla sussistenza dei
presupposti per la sospensione del processo esecutivo in favore dei
soggetti presi in considerazione dalla norma risulta, in tal modo,
integralmente attribuita (non al giudice dell'esecuzione, bensì) al
prefetto, e cioè ad un organo del potere esecutivo, mentre, rispetto a tale
valutazione, l'autorità giudiziaria è chiamata a svolgere, attraverso la
previsione del parere non vincolante del presidente del tribunale, solo una
funzione consultiva.
La violazione
dei princìpi costituzionali posti a presidio dell'indipendenza ed autonomia
della funzione giurisdizionale appare pertanto palese, considerato che il
prefetto viene ad essere investito, dalla norma impugnata, del potere di
decidere in ordine alle istanze di sospensione dei processi esecutivi
promossi nei confronti delle vittime dell'usura; potere che, proprio perché
incidente sul processo e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in
via esclusiva all'autorità giudiziaria.
2.2.– Se dunque contrasta con i parametri costituzionali invocati dal
rimettente l'attribuzione al prefetto del potere di decidere in merito alla
particolare ipotesi di sospensione dei processi esecutivi prevista dalla
norma impugnata, la norma stessa può, tuttavia, essere ricondotta a
legittimità costituzionale mediante l'ablazione della parola «favorevole».
Ciò è
sufficiente, infatti, a restituire alla funzione del prefetto un carattere
propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura –
giurisdizionale e non amministrativa – del provvedimento richiesto, mentre
il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la
sospensione del processo esecutivo torna ad essere attribuito al giudice,
che ne è – in base ai principi – il naturale ed esclusivo titolare.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 20, comma 7,
della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di
solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura),
limitatamente alla parola «favorevole».
Così deciso nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2005.
F.to:
Annibale MARINI, Presidente
e Redattore
Giuseppe DI PAOLA,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 23 dicembre 2005.
Il Direttore della
Cancelleria
F.to: DI PAOLA
CORTE
DI CASSAZIONE SEZIONE 1 CIVILE
SENTENZA DEL 22 LUGLIO 2005, N. 15497
MUTUO - MUTUATARIO - INTERESSI - IN GENERE -
Pattuizione di interessi usurari - Disciplina di cui alla legge n. 108
del 1996 e relativa interpretazione autentica "ex" art. 1 d.l.
n. 394 del 2000 - Applicazione a rapporti esauriti prima della sua
entrata in vigore - Esclusione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Rosario De Musis - Presidente
Dott. Giulio Graziadei - Consigliere
Dott. Giuseppe Marziale - Consigliere
Dott. Aldo Ceccherini - Consigliere
Relatore
Dott. Carlo De Chiara - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Ed. To., elettivamente domiciliato in Ro.
Viale delle Mi. 34, presso l'Avvocato An. Bo., rappresentato e difeso
dall'Avvocato Se. Ma., giusta procura in calce al ricorso;
ricorrente
contro
Fi. S.r.l., in persone del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Ro. Via Mo. Ze.
30, presso l'Avvocato Gi. Ca., che la rappresenta e difende unitamente
all'Avvocato Ra. Pu., giusta procura in calce al controricorso;
controricorrente
avverso la sentenza n. 1168/01 della Corte
d'Appello di Bologna, depositata il 29/12/01;
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 19/04/2005 dal Consigliere Relatore Dott. Aldo
Ceccherini;
udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. Umberto De Augustinis che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 31.08.1989, il
signor Ed. To. chiamò il giudizio, davanti al Tribunale di Bologna, la Pe. Pe. Fi.
S.r.l., chiedendone la condanna alla restituzione della somrna di £
6.400.000, oltre agli accessori, trattenuta della convenuta a titolo di
fondo di garanzia nella misura del 10% dell'importo nominale degli
effetti cambiari per complessive £ 64.000.000, scontati all'attore in
base ad un contratto concluso nel 1983, somma non restituita nonostante
l'intervenuta definizione del rapporto.
La convenuta resistette all'azione,
deducendo che il fondo di garanzia era stato interamente assorbito dagli
interessi maturaci, a carico del Ed. To., su titoli insoluti o pagati in
ritardo, per complessive £ 6.515.000 alla data del 18.04.1989, e che
residuava un debito dell'attore per £ 8.250.000 per titoli scontati ma non
onorati. La convenuta chiese in via riconvenzionale la condanna
dell'attore al pagamento della somma di £ 8.250.000 per titoli insoluti,
oltre a £ 115.000 per residui interessi, oltre agli interessi
convenzionali e alla commissione di mora nella misura del 5% del massimo
scoperto per ogni mese o frazione di esso, con decorrenza dal 18.04.1988
al saldo.
In sede di precisazione delle conclusioni,
l'attore chiese dichiararsi la nullità del contratto di "mutuo"
posto in essere dalle parti il 21.09.1983, con le conseguenze di legge.
Con sentenza in data 22.12.1998, il
Tribunale di Bologna dichiarò l'inammissibilità della domanda proposta
dall'attore in sede di conclusioni, e sulla quale la convenuta non aveva
accettato il contraddittorio. Nel merito, il tribunale rilevò la nullità
della clausola relativa al pagamento della commissione di mora del 5% sul
massimo scoperto per ogni mese o frazione di esso, sebbene la fattispecie
fosse maturata anteriormente alla L. 7.03.1996 n. 108 e fosse quindi
soggetta alla legge anteriore, stanti la rilevabilità d'Ufficio delle
nullità contrattuali, la contrarietà all'ordine pubblico della
pattuizione degli interessi usurari, penalmente punita, e il carattere
usurario - pur in mancanza degli ulteriori elementi richiesti dall'art.
644 c.p. (stato di bisogno, approfittamento) - dalla clausola che
prevedeva un interesse ulteriore, rispetto a quello del 3% sui titoli
insoluti, del 5% per ogni mese o frazione di mese di ritardo nel
pagamento; considerò che la nullità di tale ultima clausola, di cui non
era mai - stata chiesta l'applicazione, non si estendeva all'intero
contrattocene il fondo di garanzia - accantonato per un'operazione di
sconto anteriore a quelle da ultimo effettuate tra le parti - era stato
trattenuto per le operazioni di sconto successive, e che risultava a
favore della società un credito di £ 8.250.000 per effetti insoluti,
nonché un ulteriore credito per interessi passivi maturati di £
5.565.634. Su questa premesse, il tribunale condannò l'attore - operata
la compensazione con il fondo di garanzia - a pagare alla convenuta la
scanna di £ 7.415.634, oltre ad interessi al tasso del 3% mensile
decorrenti dal 19.04.1988 al saldo.
L'Ed. To. propose appello. Resistendo al
gravame, la Fi. S.p.A.,
che nelle more del giudizio di primo grado ove incorporato per fusione la
società convenuta, chiese, in via subordinata d'appello incidentale, di
escludersi a norma di contratto la compensazione del suo credito con il
residuo del fondo di garanzia.
Con sentenza 29.12.2001, la Corte d'Appello
di Bologna respinse l'appello principale, accolse l'appello incidentale
e, in parziale modifica della sentenza impugnata, condannò il Ed. To. al
pagamento della somma di £ 8.250.000, con gli interessi come già
accertati in primo grado.
La Corte premise che il contenuto della
memoria di replica dell'appellante incidentale poteva essere esaminato
solo limitatamente alla difesa, in essa svolta, dalle osservazioni
contenute nella comparsa conclusionale avversaria, non potendosi posporre
alla sede della memoria di replica l'esposizione generale delle difese,
che doveva essere svolta nella conclusione (nella quale la Fi. S.p.A. si era
invece limitata ad un generico rinvio agli scritti e alle difese
precedenti). La Corte considerò, inoltre, che la qualificazione del
contratto intercorso tra le parti come contratto di sconto, affermata
nella sentenza di primo grado, non era stata impugnata e doveva
considerasi pertanto un punto fermo, con la conseguente irrilevanza della
questione di costituzionalità della L. 24/2001, prospettata dal Ed. To.
in conclusionale sul presupposto della sua applicabilità alla fattispecie
qualificabile come mutuo; le norme applicabili erano esclusivamente gli
artt. 1418, secondo comma e 1346 c.c., e l'art. 644 c.p. nella sua formulazione
originaria (con tutti gli elementi richiesti da quella disposizione per
la configurabilità del reato; elementi, la ricorrenza dei quali, nel caso
di specie, era stata espressamente esclusa dal primo Giudice).
Nel merito, quanto all'appello principale
la Corte ritenne che, pur dovendosi convenire sulla necessità di una
valutazione complessiva delle clausole del contratto, in difetto degli
elementi del reato, la supposta natura usurarie degli interessi e degli
altri vantaggi contrattualmente previsti dal contratto a favore della
società finanziaria a fronte dello sconto dei titoli -non sarebbe bastata
da sola ad affermare l'illiceità delle pattuizioni richiamate dalla
società; e che l'appello incidentale - con cui si contestava la
compensazione operata dal primo Giudice- era fondato sull'art. 5 del
contratto di sconto, che prevedeva la restituzione del fondo di garanzia
solo alla cessazione d'ogni ragione di credito della società "per
capitale, interessi, spese e accessori".
Per la cassazione della sentenza, non
notificata, ricorre l'Ed. To., con atto notificato il 19.04.2002,
affidato a sei motivi.
La società intimata resiste con
controricorso notificato il 29.05.2002.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo votivo di ricorso si denuncia
la violazione e falsa applicazione degli articoli 352 e 190 c.p.c.; si
deduce che la riconosciuta inammissibilità della memoria di replica della
società Fi. S.p.A. non avrebbe consentito alla Corte d'Appello di
esaminarla, sia pure nella sola parte in cui aveva un contenuto propriamente
di replica alla conclusionale dell'appellante principale, stante
l'inscindibilità dell'atto ex art. 159 cpv. c.p.c.
Il motivo, ancor prima che infondato (in
forza dello stesso art. 159 c.p.c. richiamato, per il quale la nullità di
una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono
indipendenti), è inammissibile nei termini nei quali è proposto, perché
la supposta violazione non giustificherebbe l'affermazione della
conseguente nullità della sentenza o dell'intero procedimento, a norma dell'art.
360, primo comma n. 4 c.p.c.
Con il secondo motivo di ricorso si
denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 329
comma secondo c.p.c.; si censura l'affermazione della Corte Territoriale,
che la qualificazione del contratto data dal primo Giudice come contratto
di sconto non era stata censurata, si deduce che nell'atto d'appello la
censura sul punto, pur non formulata in modo espresso, era stata
inequivocabilmente sollevata, seppure in termini dubbiosi, e si riportano
i brani dell'atto d'appello in cui essa sarebbe contenuta.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce
che, secondo la giurisprudenza formatasi dopo l'entrata in vigore della
L. 108/1996, quella disciplina, pur non essendo retroattiva, era
d'immediata applicazione nei rapporti ancora in corso, come si
verificherebbe nel presente caso per la richiesta della società
finanziaria in relazione a titoli scontati e non onorati per £ 8.250.000.
La successiva L.
34/2001 -che all'art. 1, comma 1 stabilisce che ai fini dell'applicazione
degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma c.c. s'intendono usurari gli
interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui
sono promessi o convenuti a qualunque titolo, indipendentemente dal
momento del loro pagamento- aveva introdotto una disciplina retroattiva,
non giustificata sul piano della ragionevolezza e della tutela d'altri
principi costituzionali, essendo diretta a neutralizzare la
giurisprudenza nel frattempo formatasi, con pregiudizio dell'affidamento
del cittadino sulla certezza dell'ordinamento giuridico. La sentenza
della Corte Costituzionale n. 29/2002, affermando la ragionevolezza della
norma, si era basata sull'esistenza di un dubbio sulla sua
interpretazione, ma tale presupposto sarebbe contraddetto dal fatto che
il legislatore era intervenuto solo dopo che il dubbio interpretativo era
stato già risolto dalla giurisprudenza.
Le censure - da esaminare congiuntamente,
essendo intimamente collegate dall'assunto di parte ricorrente, che alla
fattispecie sarebbe applicabile la normativa sopravvenuta in materia di
tassi d'interesse sui mutui - sono inammissibili per difetto d'interesse
a proporle. Il ricorrente muove dal presupposto che, qualora il contratto
intercorso tra le parti potesse essere qualificato come mutuo, invece che
come sconto, sarebbero ad esso retroattivamente applicabili le norme
contenute nella L. 7.03.1996 n. 108, recante disposizioni in materia
d'usura, e quindi anche quelle nel decreto legge (della cui
costituzionalità peraltro egli dubita) 29.12.2000 n. 394, convertito in
legge, con modificazioni, dall'art. 1 della L. 28.02.2001 n. 24,
d'interpretazione autentica della precedente. Questo presupposto,
tuttavia non o condivisibile: la disciplina introdotta dalla citata L.
108/1996, infatti, non può essere applicata a fattispecie interamente
verificatesi prima della sua entrata in vigore.
Tale è il caso oggi portato all'esame della
Corte: qualora
pure, infatti, il contratto stipulato tra le parti fosse qualificabile
conte mutuo -in contrasto peraltro con la stessa impostazione iniziala
dell'attore e con gli elementi di fatto pacificamente posti a base della
domanda, e in difetto di qualsiasi elemento di giudizio, prospettato
dall'interessato, che dovrebbe giustificare la diversa qualificazione- non
per questo potrebbe trovare applicazione la normativa introdotta dalla L.
7.03.1996 n. 108. E' pacifico in causa, infatti, che nella domanda
introduttiva del giudizio, notificata il 31.08.1989, vale a dire tre anni
e mezzo prima dell'emanazione della L. 108/1996, l'attore assumeva già
concluso il rapporto con la società finanziatrice, e su tale premessa,
appunto, chiedeva il pagamento del saldo suo favore. Né
quest'affermazione o contraddetta dalla pendenza della controversia sulle
obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non
implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la
sua conclusione ha lasciato in capo alle parti, o ad una di esse, delle
ragioni di credito. Ne deriva, pertanto, che - all'opposto di quanto si
assume nel ricorso - anche nella prospettiva del ricorrente, basata sulla
qualificazione del rapporto controverso come rapporto di mutuo,
all'esclusione dell'applicabilità (retroattiva) della L. 108/1996 non ai
perviene in forza della legge d'interpretazione autentica n. 24/2001,
bensì delle piena applicazione della successione delle leggi nel tempo.
Da ciò deriva, al tempo stesso, il difetto di rilevanza della questione
di costituzionalità dell'art. 1 della L. 24/2001, inapplicabile nel caso
concreto, e dunque la sua inammissibilità.
Con il quarto motivo d'impugnazione si
denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1815, 1419 c.c. e
644 c.p. si deduce che la Corte Territoriale -pur condividendo
l'assunto dell'appellante, che ai fini della verifica della liceità del
contratto ex art. 644 c.p. le clausole contrattuali dovevano essere
valutate nel loro complesso, laddove il primo Giudice aveva valutato in
modo parcellizzato le utilità patrimoniali previste a favore della
società finanziaria- non aveva considerato, in aggiunta all'interesse del
3% sui titoli insoluti e all'interesse mensile di mora del 5%, i seguenti
elementi: l'esistenza di una trattenuta, a titolo di garanzia, del 10%
dell'importo nominale dei titoli scontati; la circostanza che detto fondo
di garanzia non era produttivo d'interessi; il conteggio dell'interesse
del 24,17% applicato sullo sconto; il divieto di compensazione tra
l'importo degli insoluti e il fondo di garanzia; l'addebito al Ed. To.
delle spese legali sostenute dalla società per il recupero; la
capitalizzazione trimestrale degli interessi in violazione del divieto
dell'anatocismo. Il ricorrente invoca poi la giurisprudenza penale, che
ha ritenuto ammissibile la prova indiziaria dello stato di bisogno del
finanziato e della conoscenza di tale stato, desumibile dalla misura
degli interessi, qualora essi siano d'entità tale da far ragionevolmente
presumere che soltanto un soggetto in stato di bisogno possa contrattare
a quelle condizioni, ciò specialmente quando le modalità delle operazioni
finanziarie tra l'agente e la persona offesa rendano evidente che questa
avrebbe potuto obbligarsi a corrispondere gli interessi pattuiti soltanto
versando in tale stato.
Il mezzo può essere esaminato nei limiti in
cui non e assorbito dal rigetto dei precedenti. L'illiceità del contratto
per violazione del divieto d'usura, stabilito dall'art. 644 c.p., nella
sua formulazione anteriore alla novella n. 108/1996, prescinde, in
effetti, dalla qualificazione del rapporto come sconto o come mutuo,
giacché la norma puniva chi, approfittando dello stato di bisogno di una
persona, si faceva da questa dare o promettere "sotto qualsiasi
forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro
o d'altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurati".
L'esame delle censure concernenti il modo
di valutare il carattere usurario delle pattuizioni contrattuali, sotto
il profilo della considerazione unitaria - e non parcellizzata - d'esse,
è assorbito dal rilievo, formulato dal Giudice d'appello, che nella
fattispecie non poteva ravvisarsi la fattispecie dell'usura per difetto
degli estremi dello stato di bisogno del Ed. To. e dell'approfittamento
della società finanziante. Né può trovare ingresso la censura sull'omessa
valutazione della prova indiziaria di quegli elementi essenziali della
fattispecie penale, ravvisatile nell'esosità delle controprestazioni
imposte al Ed. To. Questa censura d'omessa valutazione è insufficiente, e
quindi inammissibile, perché non si allega che la prova indiziaria
sarebbe stata dal Ed. To. allegata, vale a dire espressamente sottoposta
al vaglio del Giudice di merito, a fondamento delle proprie tesi
difensive; e perché non s'illustra il carattere decisivo del punto. A
quest'ultimo proposito si deve chiarire che la prova indiziaria, appunto
perché tale, postula una, compiuta ricostruzione della fattispecie,
potendo solo nel contesto apprezzarsi il valore di un'apparente
sproporzione tra le prestazioni poste a carico delle parti del contratto,
la quale può avere spiegazioni diverse (come nei contratti a rischio
elevato, o in quelli altamente speculativi) da quella
dell'approfittamento dello stato di bisogno.
Con il quinto motivo si censura
l'affermazione della Corte d'Appello, che la domanda restitutoria
proposta dal Ed. To. in occasiona della precisazione delle conclusioni
costituiva una domanda nuova e inammissibile. La rilevabilità d'Ufficio
della nullità del contratto, sulla quale si basava la domanda
restitutoria, escludeva in radice che essa potesse considerarsi
inammissibile, e l'attore si era limitato, in precisazione delle
conclusioni, ad ampliare la sua domanda restitutoria, ciò che costituiva
solo una consentita emendatio libelli.
La censura è priva di fondamento. La
restituzione, oggetto della domanda inizialmente proposta, aveva il suo
fondamento nel contratto, e ne presupponeva la validità, laddove quella
successivamente introdotta si basava sulla nullità del contratto, ed
aveva quindi causa pretendi diversa ed incompatibile con la prima
domanda. La rilevabilità d'Ufficio della nullità del contratto, sulla
duale insiste particolarmente il ricorrente nella memoria depositata, se
consentiva astrattamente al Giudice di merito di respingere la domanda
proposta dalla società convenuta, non consentiva invece una condanna
d'Ufficio a restituzioni fondate sulla nullità del contratto, né valeva
quindi a rendere ammissibile una domanda nuova d'identico contenuto,
proposta dall'attore.
Con il sesto motivo, censurandosi la
pronuncia della Corte d'Appello che ha negato la compensazione del debito
del Ed. To. con il suo credito alla restituzione del fondo di garanzia,
si denunciano vizi di motivazione e violazione della regola dell'onere
della prova. Non v'era in atti alcuna prova che i contratti di sconto
posteriori a quello del 21.0931983 fossero stati conclusi alle medesime
condizioni, e che fosse stato convenuto un fondo di garanzia del 10%:
l'onere della prova sul punto gravava sulla società, ed era stato
illegittimamente trasferito sul Ed. To. dal Giudice d'appello, che non
aveva considerato come gli effetti insoluti non riguardavano il contratto
per cui è causa, le cui clausole non erano invocabili in relazione ad
effetti rilasciati per contratti successivi e diversi.
Il Giudice di merito ha dato, nella
sentenza impugnata, un'interpretazione dell'art. 5 del contratto
stipulato dalle parti, secondo la quale il fondo di garanzia doveva
essere rimborsato dalla società al Ed. To. solo quando fosse cessata ogni
ragione di credito della società stessa per capitale, interessi, spese e
accessori. Quest'interpretazione non è censurate dal ricorrente, il quale
affida invece il mezzo d'impugnazione ad una circostanza di fatto -quale
l'estraneità dei titoli insoluti al contratto per cui è causa- che non
risulta dalla sentenza. Il ricorrente non allega, peraltro, che la
circostanza sarebbe stata posto a fondamento delle difese nel giudizio di
merito, sicché la censura non ha fondamento, non essendo ravvisabile il
vizio d'insufficienza di motivazione in relazione ad un punto di fatto,
sul quale non sia stato sollecitato l'esame del Giudice di merito.
In conclusione il ricorso deve essere
rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e
si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
complessivi € 850,00, di cui € 800,00 per onorari, oltre alle spese
generali e agli accessori come per legge.
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TRIBUNALE
ROMA SEZIONE 4 CIVILE
SENTENZA DEL 6 GIUGNO 2005, N. 9353
CONTRATTI - CONTRATTO DI MUTUO - NORMATIVA ANTIUSURA E
DIVIETO DI ANATOCISMO - LIMITI
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L'inapplicabilità
della normativa in materia di usura introdotta dalla legge n. 108/1996 alle
disposizioni pattizie concluse in epoca antecedente alla sua entrata in
vigore trova oggi fondamento nell'art. 1 del D.L. 29 dicembre 2000, n. 394,
convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24 rubricato
“Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108 concernente
disposizioni in materia di usura”.
Considerato che deve
escludersi la nullità delle clausole relative agli interessi contenute in un
contratto di mutuo concluso nell'anno 1989, poiché esso non è stato stipulato
successivamente all'entrata in vigore della legge n. 108/1996 non si apprezza
alcuna violazione dei principi generali di correttezza e buona fede per non
aver la banca mutuante aderito alla richiesta di rinegoziazione del mutuo
formulata dai mutuatari.
Anche in relazione ai
contratti di mutuo va affermata la nullità della clausola che prevede la
capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca, ragion per
cui sono illegittime sia le pattuizioni sia i comportamenti - ancorché non
tradotti in patti - che si risolvano in un'accettazione reciproca, ovvero in
una unilaterale imposizione, di una disciplina diversa da quella legale.
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TRIBUNALE
ROMA SEZIONE 4 CIVILE
SENTENZA DEL 6 GIUGNO 2005, N. 9353
Con citazione in opposizione ai sensi dell'art. 615, comma
1, cod. proc. civ., ritualmente notificata a controparte, Br. Ma., Br. Ro.,
Bra. Pa. e Le. Ga., premesso:
• che gli istanti avevano avuto notificato atto di precetto
in data ... a istanza di Me. Ce. s.p.a. per il pagamento della somma di lire
292.707.335 (che si affermava dovuta in forza di contratto di mutuo stipulato
in data 31 maggio 1989, con garanzia ipotecaria sugli immobili siti in Roma, V.
An. Em., e Vi. Do. Mi.;
• che il precetto era da ritenersi illegittimo;
• che erano stati infatti richiesti interessi in misura
superiore a quella consentita, in violazione della normativa “antiusura” di cui
alla legge n. 108/1996;
• che era stato illegittimamente praticato l'anatocismo;
• che erano stati violati i principi generali di correttezza
e buona fede (non avendo la banca aderito alla richiesta di rinegoziazione del
mutuo e non avendo concesso una riduzione della garanzia ipotecaria ai sensi
dell'art. 39 comma 5, D.Lgs. n. 385/1993).
Tanto esposto, hanno evocato in giudizio innanzi a questo
Tribunale, il citato Me. Ce. s.p.a., per sentire dichiarare che quest'ultimo
non aveva diritto a procedere in executivis nei loro confronti (per la somma
richiesta) e per vedere accogliere le altre conclusioni meglio precisate in
atti.
L'istituto convenuto si è costituito in giudizio opponendosi
all'avversa domanda e chiedendone il rigetto.
Ha in particolare contestato che le disposizioni di cui alla
legge n. 108/1996 potessero avere applicazione a un contratto di mutuo
stipulato in data anteriore. Ha poi negato di aver fatto ricorso all'anatocismo
e di aver in qualche modo violato i principi generali di correttezza e buona
fede enunciati da controparte.
Alla udienza del 27 giugno 2002, la causa è stata una prima
volta trattenuta a sentenza.
Con sentenza non definitiva emessa in data 24 settembre
1992, il giudice ha rigettato le voci di domanda relative alla pretesa
illegittimità del tasso di interesse applicato al rapporto e alla affermata
violazione dei principi di correttezza e buona fede, rimettendo la causa sul
ruolo per espletare una indagine tecnico-contabile sul denunciato anatocismo.
Disposta ed espletata la consulenza, alla udienza del 9
dicembre 2004, la causa è stata di nuovo trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
Va anzitutto richiamato quanto è stato a suo tempo esposto
nella sentenza non definitiva emessa in data 24 settembre 2002 (di cui peraltro
le parti non sembra tengano conto nelle ultime memorie conclusionali
depositate), in ordine alla pretesa “usurarietà” del tasso di interesse e in
ordine alla violazione dei principi generali di correttezza e buona fede.
Si è osservato nella sede indicata, che «... parte opponente
ha contestato il diritto ad agire in executivis della banca creditrice,
assumendo che quest'ultima ha richiesto con il precetto il pagamento non solo
della sorte capitale ma anche degli interessi, che risultano superiori al tasso
soglia di cui alle rilevazioni trimestrali adottate in attuazione della legge
n. 108/1996.
Nel
caso di specie, tuttavia, a parere del Tribunale, le disposizioni introdotte
dalla legge antiusura e richiamate da parte opponente quale causa di nullità
delle clausole relative agli accessori, non risultano applicabili in quanto il
contratto di mutuo costituente titolo esecutivo è stato stipulato in epoca
anteriore all'entrata in vigore della legge n. 108/1996.
La tesi
circa la inapplicabilità della normativa in materia di usura introdotta dalla
legge n. 108/1996 alle disposizioni pattizie concluse in epoca antecedente alla
sua entrata in vigore, dapprima avallata solo dalla giurisprudenza di merito a
contrastata invece dall'orientamento prevalente della Cassazione, trova oggi
fondamento nel dato normativo. l'art. 1 del decreto legge 29 dicembre 2000, n.
394, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001, n. 24 rubricato
“Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108 concernente
disposizioni in materia di usura”, all'art. 1 testualmente recita: «ai fini
dell'applicazione dell'art. 644 del Codice penale e dell'art. 1815 comma 2, del
Codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite
stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque
convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro
pagamento».
Dall'esame della predetta norma di interpretazione autentica
risulta di tutta evidenza che, sia per quanto concerne la configurabilità del
delitto di usura di cui all'art. 644 cod. pen., sia con riguardo alla non
debenza di alcun interesse nel caso di superamento del tasso concordato
antiusura di cui al comma 2 dell'art. 1815 cod. civ. (nel testo sostituito
dalla predetta legge n. 108/1996), il momento significativo è esclusivamente
quello nel quale gli interessi vennero promessi o comunque convenuti. Ciò sta a
dire che dovrà ritenersi nulla la clausola che prevede la corresponsione di
interessi usurari (e cioè di interessi che superano i tassi soglia via via
determinati) solamente se detta clausola è contenuta in un contratto stipulato
in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 108/1996. Egualmente
assumerà rilevanza penale la condotta di colui che percepisca interessi usurari
in esecuzione di negozi conclusi dopo l'introduzione della normativa antiusura.
Venendo al caso di specie, posto che il contratto di mutuo
azionato è stato concluso nell'anno 1989, e ritenuta la inapplicabilità della
legge n. 108/1996 deve escludersi la nullità delle clausole relative agli
interessi dedotta da parte opponente.
Tale voce di domanda risulta dunque infondata.
Parimenti infondata è la voce di domanda che fa riferimento
a una pretesa violazione dei principi generali di correttezza e buona fede per
non avere la banca mutuante - come si sostiene - aderito alla richiesta di
ri-negoziazione del mutuo formulata dai mutuatari. e invero, considerato quanto
si è detto più sopra sulla piena legittimità delle richieste svolte da parte
opponente, non si apprezza nella specie alcuna lesione ai principi indicati.
Non si ritiene poi che possa venire in questione l'art. 39
comma 5, del D.Lgs. n. 385/1993, posto che non risulta in atti che una
richiesta al riguardo sia mai stata presentata dagli interessati alla banca
mutuante e considerato che una eventuale riduzione della garanzia può essere
sempre richiesta in sede esecutiva».
Sotto i profili già esaminati, nonostante gli ulteriori
rilievi e considerazioni svolti dalle parti nelle (ultime) memorie
conclusionali, non vi può più essere quindi (quanto meno in questo grado di
giudizio) alcuna ulteriore discussione.
Quanto invece alla voce di domanda che fa riferimento al
profilo dell'anatocismo, è noto che l'art. 1283, prevedendo che «in mancanza di
usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno
della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro
scadenza», pone un espresso divieto a riguardo.
La giurisprudenza di legittimità, modificando il proprio
precedente orientamento, ha affermato (inizialmente in relazione ai contratti
di conto corrente bancario e, più di recente, anche in relazione ai contratti
di mutuo) la nullità della clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale
degli interessi da parte della banca, giacché essa si basa su di un mero uso
negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria e interviene
anteriormente alla scadenza degli interessi (cfr. Cass. 16 marzo 1999, n. 2374;
Cass. 30 marzo 1999, n. 3096; Cass. 11 novembre 1999, n. 1257; Cass. 28 marzo
2002, n. 4490; Cass. 13 giugno 2002, n. 8442; Cass. 20 agosto 2003, n. 12222;
Cass. 18 settembre 2003, n. 13739; Cass. S.U. 4 novembre 2004, n. 21095).
In particolare la Suprema Corte ha affermato che, in tema di mutuo
bancario e con riferimento al calcolo degli interessi, devono ritenersi
senz'altro applicabili le limitazioni previste dall'art. 1283 cod. civ. non
rilevando in senso opposto l'esistenza di un uso bancario contrario a quanto
disposto dalla norma predetta. Gli usi normativi contrari, cui espressamente fa
riferimento il citato art. 1283 cod. civ., sono infatti soltanto quelli
formatisi anteriormente all'entrata in vigore del Codice civile (né usi
“contrari” avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere
imperativo della norma de qua - impeditivo, per l'effetto, del riconoscimento
di pattuizioni e comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente
- norma che si poneva come del tutto ostativa alla realizzazione delle
condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le
caratteristiche dell'uso normativo), e, nello specifico campo del mutuo
bancario ordinario, non è dato rinvenire in epoca anteriore al 1942, alcun uso
che consentisse l'anatocismo oltre i limiti poi previsti dall'art. 1283 cod.
civ.
Ne consegue l'illegittimità tanto delle pattuizioni, tanto
dei comportamenti - ancorché non tradotti in patti - che si risolvano in una
accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una
disciplina diversa da quella legale (cfr. Cass. 20 febbraio 2003, n. 2593).
I principi esposti devono essere applicati anche al rapporto
di specie.
Ai fini contabili della presente decisione si può fare
integrale e sicuro riferimento alle risultanze della consulenza tecnica
d'ufficio espletata in sede istruttoria, che appaiono tratte a seguito dei più
opportuni accertamenti e di una accurata disamina dei fatti in contestazione, e
si presentano condotte con retti criteri tecnici e con iter logico ineccepibile.
Esse possono essere quindi tranquillamente condivise e fatte proprie da questo
Tribunale ai fini delle valutazioni da assumere nel presente procedimento,
anche perché non contestate o comunque smentite da alcun altro dato di segno
contrario.
Il C.t.u. ha in particolare accerato che: a) il ricalcolo
degli interessi di mora per quantificare l'effetto dell'anatocismo individua un
importo di lire 53.839.898 contabilizzato in eccesso da Me. Ce. s.p.a.; b) il
ricalcolo degli interessi compesativi di rinegoziazione effettuato sul secondo
finanziamento, concesso al solo fine di un nuovo ammortamento di un debito
scaduto, calcolando il costo complessivo della nuova operazione e ponendolo a
raffronto con i versamenti effettuati dai mutuatari, ha evidenziato un credito
sempre nei confronti delle parti attrici di lire 57.316.527.
Sulla base di tali indicazioni, risulta dunque che occorre
tenere conto della somma complessiva di lire 111.156.425.
Il credito complessivo che Me. Ce. s.p.a. ha diritto di
azionare in questa sede esecutiva ammonta dunque alla somma di lire 178.308.110
(289.464.535 – 111.156.425 = 178.308.110), pari a euro 92.088,45.
L'opposizione merita dunque accoglimento entro i limiti
esposti.
Il parziale accoglimento della domanda costituisce giusto
motivo per compensare per metà le spese di lite.
;TRIBUNALE
ROMA SEZIONE 9 CIVILE
SENTENZA DEL 22
GENNAIO 2004, N. 2120
Massima redazionale
BANCHE - Contratto di conto corrente bancario - Tasso
debitore extra-legale - Violazione del tasso soglia - Interesse usuraio -
Individuazione - Condizioni
In tema di contratto di conto corrente bancario, il
parametro per individuare se gli interessi debitori pattuiti abbiano o meno
carattere usuraio, è rappresentato esclusivamente dal tasso-soglia in vigore al
momento della pattuizione degli interessi da parte del debitore. Occorre quindi
accertare se al momento della pattuizione del tasso di interesse nel contratto
non fosse stato rispettato il cosiddetto tasso-soglia e fosse applicabile la disciplina
prevista dalla legge n. 108/1996, con tutti i criteri ivi previsti in tema di
usurarietà. Con la conseguenza che, qualora al momento della conclusione del
contratto non risulti operante la normativa suddetta, trattandosi - come nella
fattispecie - di contratto stipulato nel 1994, ai fini dell'applicabilità del
tasso di interesse occorrerà fare riferimento alla legge anteriore rispetto
alla legge n. 108/1996, con evidenti maggiori difficoltà per il correntista nel
dimostrare la ricorrenza degli interessi usurari (1) (2). (L.Sca.)
TRIBUNALE
ROMA SEZIONE 9 CIVILE
SENTENZA DEL 22
GENNAIO 2004, N. 2120
Obbligazioni - Contratto di conto corrente bancario -
Anatocismo - Capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi - Illegittimità
- Capitalizzazione annuale - Interessi annuali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE IX CIVILE
In persona del giudice unico
Dr. Giulia Iofrida
ha emesso la seguente:
SENTENZA
nella causa civile di 1° grado iscritta al n. 41128 del
ruolo contenzioso generale dell'anno 2001 posta in deliberazione all'udienza
del 16/10/2003 (con termine per il deposito di comparse conclusionali e di
memorie di replica di gg. 60+20) e vertente
tra
F.lli Ba. S.n.c., in persona del legale rappresentante p.t.,
elettivamente domiciliata in Ro. via CA. Po. 2 presso lo studio dell'avvocato
Al. Ca. che la rappresenta e difende per delega in atti unitamente all'avvocato
Pa. Ca.;
attrice
e
Banca Na. del La. S.p.A., in persona del legale
rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Ro. piazza Co. di Ri. 68
presso lo studio dell'avvocato Fe. Ga. che la rappresenta e difende per delega
in atti;
convenuta
Oggetto: Contratti bancari.
Conclusioni
All'udienza del 16/10/2003 il procuratore della parte
attrice così concludeva:
"Come da atto di citazione".
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 13/6/2001, la F.lli Ba. S.n.c., in
persona del legale rappresentante p.t., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale
di Roma, la Ba. Na.
del La. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., per sentire
accertare, in relazione al contratto di concessione di fido sul conto corrente
di corrispondenza n. (...), intrattenuto da essa attrice con la banca convenuta
a partire dall'ottobre 1994, conto estinto nel 1999 (con pagamento della somma
di £ 70.000.000, corrispondente al saldo negativo risultante, in tre rate da
parte di essa correntista), la nullità delle clausole contrattuali implicanti
l'applicazione di un tasso extralegale dell'interesse passivo, anche in
violazione della L. 108/1996, c. d. legge "antiusura", e la
capitalizzazione bimestrale degli interessi passivi, delle commissioni di
massimo scoperto e delle spese, l'inefficacia delle suddette clausole per loro
vessatorietà ex art. 1469 bis c. p.c., nonché l'illegittimità delle unilaterali
riduzioni del fido apportate dalla banca nel corso del rapporto, con condanna
della convenuta al rimborso ad essa attrice di quanto indebitamente percepito
ed al risarcimento dei danni cagionati.
Si costituiva la convenuta, tardivamente ai sensi degli
artt. 166 e 167 c. p.c., contestando la pretesa attrice e chiedendone il
rigetto, eccependo anche la prescrizione del diritto ex art. 2948 n. 4 c. c. .
All'udienza di prima trattazione, ex art. 183 c. p.c., non
comparivano le parti personalmente e non potevano espletarsi né
l'interrogatorio libero né il tentativo di conciliazione.
La causa veniva istruita con l'acquisizione di documenti e
l'espletamento di consulenza tecnica e, sulle conclusioni di cui in epigrafe,
veniva trattenuta in decisione all'udienza del 16/10/2003 (con termine per il
deposito di comparse conclusionali e repliche di gg. 60+20).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il conto corrente di corrispondenza n. 19003 risulta essere
stato intestato alla attrice F.lli Ba. presso la Banca Na. del La. S.p.A.
in data 6/10/1994, con pattuizione specifica del tasso debitore extra-legale
pari al 19,25, di una commissione di massimo scoperto pari allo 0,75%. Il
suddetto conto è stato chiuso, a seguito di estinzione della posizione
debitoria della correntista, in data 4/11/1999.
Risultano pertanto del tutto infondate le eccezioni
dell'attrice inerenti la non debenza del tasso ultra legale dell'interesse
passivo e della commissione di massimo scoperto, per mancata pattuizione
scritta, in violazione del disposto di cui agli artt. 1284 c. c. L. 117 T.U.
385/1993.
Del pari non è meritevole di accoglimento l'eccezione
inerente la violazione, nel corso del rapporto bancario, del c. d. tasso-soglia
contemplato dalla L. 108/1996 o meglio la nullità della pattuizione di
interessi passivi ad un tasso ritenuto usurario, in violazione quindi del c. d.
tasso-soglia, corrispondente al tasso effettivo globale medio riferito ad
operazioni di uguale natura e rilevato trimestralmente dal Ministero del
Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio Italiano Cambi, introdotto con
detta legge "antiusura".
L' art. 1815 c. c. e l' art. 644 c. p. sono stati in effetti
modificati dalla L. 108/1996. In particolare, è stato definito interesse
usurario, nell'art. 644 c. p., quello che supera la misura del c. d.
tasso-soglia e l' art. 1815 c. c. oggi prevede che "se sono convenuti
interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi".
Ai sensi dell'art. 2 L. 108/1996, perché un tasso di interesse
possa essere qualificato come usurario, occorre aumentare della metà il tasso
effettivo globale medio riferito ad operazioni di uguale natura, come rilevato
trimestralmente da parte del Ministero del Tesoro, con pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale, in relazione alle categorie di contratto specifiche in
esame ed all'entità dei contratti.
La Legge 108/1996 presentava tuttavia una lacuna, in quanto
non indicava espressamente il momento in relazione al quale doveva essere
effettuato il raffronto con il tasso-soglia dell'usura (se quello di
stipulazione del negozio, con conseguente irrilevanza di ogni successiva
eventuale diminuzione dei tassi-soglia, ovvero se quello di riscossione degli
interessi, con conseguente necessità di un continuo raffronto ed adeguamento
degli interessi di volta in volta maturati con le sopraggiunte rilevazioni
periodiche dei tassi).
In alcune pronunce, la Suprema Corte ha
affermato, seguendo peraltro un consolidato orientamento giurisprudenziale
(secondo il quale il principio di irretroattività, di cui all'art. 11 disp.
prel. c. c., non impedisce che una legge nuova si applichi anche ai rapporti
contrattuali che, pur avendo avuto origine sotto il vigore della legge
anteriore, siano destinati a durare ulteriormente, e ne modifichi l'assetto con
effetti ex nunc, in quanto la nuova norma, non interpretativa e non
retroattiva, pur non incidendo sulla validità dei contratti conclusi prima,
perché il giudizio circa la conformità alla legge dell'atto va riferito al
momento in cui esso è stato posto in essere, C.C. 1877/1995, C.C. 11196/1995,
vale ad impedire che producano effetti ulteriori contrastanti con quanto da
essa stabilito, C.C. 2118/1987; C.C. 267/1996; C.C. 831/1998, Corte Cost. 204/1997)
che la Legge n. 108/1996, pur in difetto di previsione di una sua
retroattività, può operare rispetto a precedenti contratti di mutuo,
limitatamente alla regolamentazione degli effetti ancora in corso ed alle
ipotesi di dazione degli interessi posteriore all'entrata in vigore della legge
(C.C. 1126/2000; C.C. 5286/2000; C.C. 14899/2000). La Suprema Corte ha poi
ritenuto che anche agli interessi moratori vada applicata la Legge n. 108/1996,
con conseguente illegittimità della pattuizione di un tasso usurario ai sensi
della suddetta legge e necessità di sua sostituzione con un tasso diverso (C.C.
5286 e 14899 del 2000).
E' stato allora emanato il D.L. 394/2000, convertito con
modifiche nella Legge 28/2/2001 n. 24, entrata in vigore il 1/3/2001, ove, all'art.
1 comma primo, è previsto, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c. p. e
dell'art. 1815, 2° comma, c. c., che si intendono usurari gli interessi che
superano il limite stabilito dalla legge "nel momento in cui essi sono
promessi o comunque convenuti a qualunque titolo", indipendentemente dal
momento del loro pagamento, norma questa che deve ritenersi di interpretazione
autentica (C.C. 13868/2002). Dunque ai fini dell'individuazione del carattere
usurario degli interessi occorre riferirsi in via generale (salve le deroghe
previste dai commi 2° e 3° dell'art. 1 della stessa legge, i quali prevedono
l'automatico inserimento in specifiche categorie di contratti di mutuo di un
tasso di interesse eventualmente in sostituzione di quello maggiore convenuto dalle
parti) esclusivamente al tasso-soglia vigente al momento della pattuizione
degli interessi da parte del debitore, essendo divenuto irrilevante il momento
dell'eventuale corresponsione di interessi ad un tasso divenuto, solo
successivamente alla conclusione dell'accordo, superiore al tasso-soglia.
Tale normativa è passata indenne al vaglio della Corte
costituzionale con la sentenza n. 29 del 2002 (che ha invece dichiarato
incostituzionali i commi 2 e 3 dell'art. 1, in determinate parti). Invero è senz'altro
consentito al legislatore di rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali
divergenti con la linea politica del diritto voluta (C. Cost. 397/1994; 6/1994;
402/1993), imponendo una data interpretazione ad un precedente testo normativo,
a prescindere dall'esattezza dell'interpretazione o della lettura imposta,
anche nell'ipotesi in cui quest'ultima non fosse in alcun modo ricavabile dal
testo interpretato, secondo la comune opinione (C.C. 1435/1998; C.C. 660/1991).
Né è stato ritenuto superato dalla consulta il limite della ragionevolezza,
considerato che l'interpretazione imposta dalla nuova legge recepisce
un'argomentazione, sostenuta da una parte della giurisprudenza di merito, circa
la necessità di fare riferimento al quadro normativo vigente all'epoca della
stipulazione del contratto bancario.
Bisogna quindi verificare se, al momento della pattuizione
del tasso di interesse nel contratto - momento cui, per effetto della norma di
interpretazione autentica di cui all'art. 1 del D.L. 394/2000, deve aversi
riguardo per valutare l'usurarietà o meno, in base alla nuova legge antiusura,
del tasso di interesse convenuto - fosse stato o meno superato il c. d.
tasso-soglia e fosse o meno pienamente operante la Legge 108/1996, con tutti i
criteri ivi previsti per l'individuazione del tasso usurario.
Deve considerarsi infatti che la prima rilevazione
trimestrale del c. d. tasso soglia, da parte del Ministero del Tesoro, con la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è intervenuta solo a seguito del
completamento di un iter di operazioni previste nella legge per la sua
attuazione (con D.M. 23/9/1996, infatti, veniva creata la prima ripartizione
delle operazioni creditizie per categorie omogenee, ed il 22 marzo 1997, G.U. 2/4/1997, veniva
effettuata la prima rilevazione dei tassi-soglia, con riferimento al periodo
ottobre/dicembre 1996; con D.M. 25/9/1997, G.U. 30/9/1997, entrato in vigore il
1/10/1997 ed applicabile fino al 31/12/1997, venivano rilevati i tassi-soglia
relativamente al trimestre aprile/giugno 1997; con D.M. 23/3/1998, in vigore
dall'aprile 1998, venivano rilevati poi i tassi per il trimestre
ottobre/dicembre 1997, ma il decreto era applicabile solo dall'aprile al giugno
1998).
Così può accadere che anche con riguardo a contratti
stipulati dopo l'entrata in vigore della L. 108/1996, al momento della
pattuizione del tasso di interesse nel contratto di finanziamento, in realtà
non era ancora pienamente operante la Legge 108/1996, con tutti i criteri ivi
previsti per l'individuazione del tasso usurario, non essendo ancora
intervenuta la prima rilevazione trimestrale del c. d. tasso soglia, da parte
del Ministero del Tesoro, con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Pertanto,
se risulta, come nella fattispecie, attesa l'epoca d stipulazione del contratto
(ottobre 1994), non operante la legge 108/1996, al momento della pattuizione
del tasso di interesse convenuto, occorre avere riguardo ancora alla legge
anteriore rispetto alla L. 108/1996, che agganciava il concetto di usura in
sede penale (cui faceva riferimento l' art. 1815 c. c. nella vecchia
formulazione) alla presenza anche di elementi di carattere soggettivo, come
l'approfittamento dello stato di bisogno ed ometteva di fornire criteri
oggettivi per l'individuazione della ricorrenza di interessi usurari, nella
specie del tutto indimostrati e quindi insussistenti.
Tale
interpretazione circa la ormai irrilevanza della c. d. usura sopravvenuta
risulta essere stata condivisa, da ultimo, dalla Suprema Corte nelle sentenze
nn. 8741/2001, 13868 e 17813/2002.
Secondo
invece la Corte d'Appello di Milano (sentenza 10/5/2002, in G.I. 2003, 501 e 93
ed in Il Corriere Giuridico, Giurisprudenza milanese, 2003, 93) la norma di
interpretazione autentica di cui all'art. 1 L. 24/2001 si applica "esclusivamente agli
interessi dovuti in base ad un contratto di mutuo e pertanto la clausola
determinativa degli interessi moratori, pattuita in un contratto di apertura di
credito in conto corrente, qualora gli interessi divengano usurari in seguito
ad una diminuzione del tasso soglia dell'usura, verificatasi successivamente
alla conclusione del contratto stesso, deve ritenersi affetta da nullità
parziale con conseguente riduzione automatica del tasso degli interessi a
quello corrispondente al tasso- soglia di volta in volta rilevato".
Tale
tesi tuttavia non convince in quanto, già nel vigore del vecchio testo
dell'art. 1815 cpv. c. c., si è sempre ritenuto che l'ambito applicativo della
norma non coincidesse con il contratto di mutuo ma riguardasse tutte le forme
di concessione di denaro in godimento e quindi tutti i contratti con funzione
di credito aventi ad oggetto somme di denaro. La sfera applicativa dell'art.
1815 sembra quindi coincidere con l'intera tipologia di contratti richiamata
dall'art. 2 della L. 108/1996 (anche quindi l'apertura di credito in conto
corrente, etc. ...) e quindi anche l' art. 1 L. 24/2001 che ridefinisce detta norma non
può essere inteso come riguardante unicamente il contratto di mutuo.
/p>
Appare invece meritevole di accoglimento l'eccezione
dell'attrice inerente l'illegittimità della clausola implicante l'applicazione
di un meccanismo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, in
violazione del dispositivo cui all'art. 1283 c. c. .
Secondo l' art. 1283 c. c. gli interessi anatocistici (o
composti) sono gli interessi sugli interessi scaduti, che, in mancanza di usi
contrari, possono a loro volta produrre interessi solo dal giorno della domanda
giudiziale o per effetto di una convenzione posteriore alla loro scadenza e
sempre che si tratti di interessi semplici dovuti da almeno sei mesi. Di
conseguenza, in assenza di usi, normativi secondo l'orientamento consolidato
dottrinale e giurisprudenziale, e non meramente negoziali, sono vietate
pattuizioni anteriori alla scadenza degli interessi ed interessi
infrasemestrali. I requisiti fondamentali dell'uso normativo (art. 8 delle
disposizioni sulla legge in generale c. c. ) sono due: l'uno oggettivo,
consistente nell'uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento;
l'altro soggettivo consistente nella consapevolezza di prestare osservanza,
così agendo, ad una norma giuridica.
L'esigenza sottesa all'art. 1283 c. c. è quella di tutelare
la posizione del debitore, consentendogli di potere conoscere con sufficiente
margine di certezza l'ammontare del proprio debito ed impedendo al creditore di
percepire liberamente interessi composti sugli interessi maturati nel corso del
rapporto, con conseguente elusione dell'obbligo della forma scritta per la
convenzione di interessi ultralegali e del divieto di interessi usurari.
La norma si applica a qualsiasi tipo di interesse, compresi
gli interessi moratori, in quanto il debito per interessi, anche quando venga
adempiuta l'obbligazione principale, è sempre soggetto alla disciplina specifica
di cui all'art. 1283 c. c. e non a quella generale prevista per le obbligazioni
pecuniarie dall'art. 1224 c. c., dalla quale deriva il diritto agli ulteriori
interessi ed al risarcimento del maggior danno dalla mora (C.C. S.U.
9653/2001).
Nel settore bancario, a partire dal 1952, nelle Norme
Bancarie Uniformi, predisposte dall'ABI e contenenti le condizioni generali di
contratto relative alle principali operazioni bancarie, è stata sempre inserita
la clausola secondo cui, mentre sugli interessi applicati a favore dei clienti
sui saldi di conto corrente (c.d. interessi attivi) venivano applicati dagli
istituti di credito interessi anatocistici con periodicità annuale, sugli
interessi dovuti dalla clientela (c.d. interessi passivi) venivano applicati
interessi composti al termine di ogni trimestre, secondo la c. d.
capitalizzazione trimestrale, e quindi con periodicità inferiore a quella
semestrale prevista dall'art. 1283 c. c. e comunque al di fuori dei presupposti
richiesti da detta norma (I conti che risultano anche saltuariamente debitori
vanno regolati ogni trimestre ... con la stessa cadenza gli interessi scaduti
producono ulteriori interessi).
Tale clausola di capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi, nei contratti predisposti dalla Banca, deve ritenersi nulla,
in considerazione della natura pattizia e non normativa degli usi in materia,
secondo un recente orientamento della Suprema Corte, conseguente ad un vero e
proprio revirement giurisprudenziale (espresso, in particolare, nelle sentenze
nn. 2374, 3096, 3845 e 12507 del 1999, ribadito nelle sentenze recenti nn. 4490
e 8442/2002 e n. 2593/2003, in ordine alla nullità, per violazione dell'art.
1283 c. c., delle clausole previste nei contratti di conto corrente bancario di
capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente, in difetto
di un uso normativo al riguardo). In precedenza, la Suprema Corte aveva
invece considerato valida la clausola di capitalizzazione trimestrale nei
contratti bancari (C.C. 5/10/1953; C.C. 6631/1981, che generalizzò questo
orientamento all'intero campo dei rapporti bancari; C.C. 4920/1987; C.C.
3804/1988; C.C. 6153/1990; C.C. 9227/1995; C.C. 12675/1998).
Le sentenze del 1999, in particolare, poggiano la loro
decisione su tre ordini di notazioni: 1) non consta che, al momento
dell'entrata in vigore del codice civile del 1942, vi fossero, a livello
nazionale, usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi a
carico del cliente di un istituto di credito né è stato accertato successivamente
dalla Commissione permanente presso il Ministero dell'industria un uso
nazionale di anatocismo trimestrale; 2) gli accertamenti di usi anatocistici
nelle raccolte locali sono tutti posteriori al 1952, data di comparsa della
clausola di capitalizzazione trimestrale nelle Norme Bancarie Uniformi di conto
corrente di corrispondenza, norme pattizie, nel senso che si tratta di proposte
di condizioni generali di contratto indirizzate dalla ABI alle banche
associate, e ciò esclude che possa essere attribuita a tale clausola, in vigore
dal 1952, una funzione probatoria di usi locali preesistenti; 3) nella prassi
bancaria di anatocismo manca "quella spontanea adesione ad un precetto
giuridico in cui sostanzialmente consiste l'opinio iuris ac necessitatis"
(implicante convinzione e consapevolezza di attuare una regola vertente su
materia giuridicamente rilevante), in quanto l'inserimento delle clausole in
oggetto viene acconsentito dai clienti solo perché comprese nei moduli
predisposti dagli istituti di credito, in suscettibili di negoziazione
individuale e "la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso
presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari".
Esclusa quindi l'esistenza di un uso normativo bancario, la
clausola (preventiva) di anatocismo trimestrale prevista nelle condizioni
generali di contratto è nulla, perché in violazione delle prescrizioni
imperative di cui all'art. 1283 c. c. stante la sua contrarietà sia al termine
semestrale minimo di capitalizzazione sia alla prescrizione che subordina la
produzione degli interessi ad una domanda giudiziale ovvero ad una convenzione
posteriore alla scadenza della relativa obbligazione.
A fronte del nuovo orientamento della Suprema Corte è stato
emanato, utilizzando la delega contenuta nell'art. 1 V comma della Legge
comunitaria 24/4/1998 n. 128 (per l'emanazione entro il termine di un anno di
disposizioni integrative e correttive del T.U. bancario, nel rispetto dei
principi e criteri direttivi di cui all'art. 25 L. 142/1992), il D.Lgs.
4/8/1999 n. 342, pubblicato nella G.U. del 4/10/1999 n. 233. All'art. 25
secondo comma di detto decreto e nell'introdotto comma 3° dell'art. 120 del
T.U. in materia bancaria, si leggeva: "le clausole relative alla
produzione degli interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti
stipulati anteriormente all'entrata in vigore della delibera - del CICR, da
emanare entro 120 gg. dall'entrata in vigore del decreto delegato - di cui al
comma 2, sono valide ed efficaci sino a tale data ...", delibera del CICR
poi effettivamente emanata il 9/2/2000 ed entrata in vigore il 22/4/2000, con
previsione di nuove articolate disposizioni, in punto di produzione di
interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere
nell'esercizio dell'attività bancaria, cui avrebbero dovuto adeguarsi, entro il
30/6/2000, secondo le modalità ivi stabilite, i contratti stipulati
anteriormente) per "tamponare" la situazione venutasi a creare con il
revirement della Corte di Cassazione (si è parlato di una "generalizzata
sanatoria" ex lege dei contratti stipulati anteriormente al 30/6/2000). Da
notare che con detta delibera è stato anche circoscritto l'ambito oggettivo di
operatività dell'anatocismo in ambito bancario, disponendo che esso possa
essere previsto, per effetto della contrattazione tra le parti, esclusivamente
nei rapporti di conto corrente, nelle operazioni di raccolta e nelle operazioni
di finanziamento con un piano di rimborso rateale. Con riguardo al conto
corrente in particolare, l'art. 2 della delibera del CICR stabilisce: "1.
Nel conto corrente l'accredito e l'addebito degli interessi avviene sulla base
dei tassi con la periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico
produce interessi secondo le medesime modalità. 2. Nell'ambito di ogni singolo
conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli
interessi creditori e debitori. 3. Il saldo risultante a seguito della chiusura
definitiva del conto corrente può, se contrattualmente stabilito, produrre
interessi. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione
periodica".
Detta disposizione (art. 25 comma 3° D.Lgs. 342/1999
contenente la generica validazione delle clausole anatocistiche) è stata però
dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 425 del 9.17/10/2000 della Corte
Costituzionale, sotto il profilo dell'eccesso di delega rispetto alla L.
128/1998, essendo stata ritenuta non riconducibile ad alcuno dei principi e
criteri posti a base del testo unico bancario, e conseguente violazione
dell'art. 76 Cost..
Peraltro il D.Lgs. 342/1999 ha anche sancito, all'art. 25
comma 2, a
modifica dell'art. 120 T.U. 385/1993, che nelle operazioni di conto corrente
deve essere "assicurata nei confronti della clientela la stessa
periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori".
Sempre la
Suprema Corte in altra recente pronuncia (C.C. 2593/2003, I
Contratti, 2003, 545 e F.I. 2003, 1774) ha affermato che "in tema di mutuo
bancario e con riferimento al calcolo degli interessi devono ritenersi
senz'altro applicabili le limitazioni previste dall'art. 1283 c. c., non
rilevando, in senso opposto, l'esistenza di un uso bancario contrario a quanto
disposto dalla norma predetta" ed ha poi precisato, attraverso una attenta
disamina della nascita dell'art. 1283 c. c. ed il raffronto tra detto calcolo e
gli altri articoli del codice civile che rinviano agli usi contrari in funzione
integrativa-derogatoria della disciplina legale (artt. 1457, 1510, 1528, 1665,
1739, 1756, 2148), che gli usi normativi contrari cui fa riferimento l' art.
1283 c. c. sono soltanto quelli formatisi anteriormente all'entrata in vigore
del codice civile (1942), in quanto "usi contrari non avrebbero potuto
formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo della norma in
oggetto - impeditivo, per l'effetto, del riconoscimento di pattuizioni e
comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente -, norma che si
poneva come del tutto ostativa alla realizzazione delle condizioni di fatto
idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell'uso
normativo" (in tale sentenza si legge anche: "E' infatti vero che
l'uso contrario, se richiamato dalle norme di legge, non è contra legem ma
secundum legem, ma è anche vero che l'uso formatosi contro la legge esistente,
in quanto frutto di patti posti in essere contro il divieto in essa contenuto,
non può mai divenire secundum legem").
In adesione a tale orientamento consolidato va quindi
dichiarata la nullità della suddetta clausola di capitalizzazione bimestrale
degli interessi passivi ed occorre quindi verificare il credito effettivamente
spettante alla Banca (prima dell'estinzione del conto) o senza alcuna
capitalizzazione degli interessi (ove ritenuti del tutto insussistenti usi
normativi derogatori al disposto dell'art. 1283 c. c., prima della entrata in
vigore del Codice Civile) o secondo un meccanismo di capitalizzazione
semestrale (vedasi C.C. 2374/1999 ove si legge: "la dottrina formatasi nel
vigore della disciplina anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice, anche
sulla base della giurisprudenza dell'epoca, affermava che gli usi normativi in
materia commerciale, fatti salvi dall'art. 1232 del codice civile del 1865,
erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ogni semestre e che al
momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi
scaduti") ovvero con una capitalizzazione annuale.
Secondo C. App. Torino e C. App. Milano (sentenze nn. 64 del
21/1/2002 e 1142/2003) e secondo T. Brindisi (sentenza 13/5/2002 in G. Me.
2003, 242), va negato ogni diritto della banca anche all'anatocismo annuale (e
gli interessi dovuti sugli importi capitali a debito potranno quindi produrre
interessi solo a far tempo dalla domanda giudiziale), in quanto non vi sarebbe
possibilità alcuna di sostituzione legale o di inserzione automatica di
clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità e "non essendo
l'anatocismo previsto ma soltanto permesso dalla legge a determinate condizioni
ed in mancanza di valida pattuizione tra le parti, esso rimane non pattuito tra
le stesse" (C. App. Milano 1142/2003).
La soluzione della capitalizzazione annuale appare tuttavia,
secondo un orientamento giurisprudenziale di merito, allo stato, prevalente (T.
Milano 4/7/2002, T. Roma 8/11/2002 e T. Torino 14/11/2002, in G. Me., 2003,
242; T. Roma 28/11/2002 e T. Reggio Calabria 28/6/2002, in G. Me. 1003, 901; T.
Torino 16/12/2002, G.I. 2003, 501), quella preferibile sia perché corrisponde
al criterio di capitalizzazione applicato dalla banca a favore della clientela
sia perché tale cadenza di capitalizzazione degli interessi appare conforme,
secondo una certa dottrina, alla cadenza temporale "ex lege" degli
interessi, ricavabile dal disposto dell'art. 1284 c. c. 1° comma ("il
saggio degli interessi legali è determinato ... in ragione di anno") sia
perché, ritenuta la nullità della clausola di capitalizzazione bimestrale per i
conti anche saltuariamente a debito, resta comunque operante la clausola
uniforme generale, riportata nei contratti bancari, di chiusura al 31 dicembre
di ogni anno sia perché l'anatocismo annuale è contemplato anche dalla delibera
del CICR (che peraltro rappresenta pur sempre un atto amministrativo, seppure
di c. d. alta amministrazione).
Per il ricorso a detta soluzione occorre ritenere, da un
lato, ammissibile nella specie il meccanismo di integrazione ex lege della
clausola nulla di cui all'art. 1374 c. c. ("Il contratto obbliga le parti
non solo a quanto è nel medesimo espresso ma anche a tutte le conseguenze che
ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e
l'equità"), in base al quale (vedasi anche artt. 1339 e 1419 2° comma c.
c. ) le clausole contrattuali contrarie a norme imperative sono colpite da
nullità e vengono di diritto automaticamente sostituite da queste, e,
dall'altro, rinvenire nella disciplina generale detta fonte normativa idonea a
supportare il meccanismo della suddetta capitalizzazione annuale.
L'orientamento della Suprema Corte non è tuttavia condiviso
da una parte della giurisprudenza di merito. Secondo alcuni giudici del Tribunale
di Roma (T. Roma 26/5/1999, T. Roma 14/4/1999, in F.I. 1999; v. anche T.
Vercelli 9/2/2001, G.I.m 2001, 760) la capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi nei conti correnti bancari prescinde dall'art. 1283 c. c. :
1) essa è la naturale conseguenza delle periodiche chiusure del conto corrente
convenute nei contratti o negli usi; 2) l'art. 1823 2° comma c. c. prevede che
il saldo del conto è esigibile alla scadenza pattuita e che se non ne è
richiesto il pagamento, il saldo finale si pone come prima rimessa di un nuovo
rapporto ed il contratto si intende rinnovato; 3) l' art. 1831 c. c.,
nell'ambito del conto corrente ordinario (che detta il meccanismo della
chiusura del conto, con la liquidazione del saldo, alle scadenze previste dal
contratto o dagli usi o in mancanza ogni sei mesi), è applicabile pur in
assenza di specifico richiamo ad opera dell'art. 1957 c. c. al conto corrente
bancario; 4) la capitalizzazione è stata già riconosciuta dal legislatore, in
quanto se ne parla all'art. 8 della L. 154/1992 (tra le comunicazioni
periodiche alla clientela, ivi contemplate, vi era anche l'informazione sui
"tassi di interesse applicati ... sulla capitalizzazione degli
interessi"); 5) il differente regime tra conti debitori e conti creditori
trova giustificazione sulla base del rischio assunto dalla banca per i primi.
A detto orientamento sono state mosse le seguenti obiezioni:
1) essendo il conto corrente bancario (o conto corrente di corrispondenza, come
denominato negli schemi predisposti dall'ABI) un contratto attraverso il quale
la banca si obbliga in favore del cliente ad effettuare riscossioni e
pagamenti, questi ultimi nei limiti della disponibilità del conto, svolgendo
quindi una funzione di gestione delle somme ed anche un servizio di cassa, non
possono trasporsi le norme sul conto corrente ordinario al conto corrente
bancario, al di fuori delle norme espressamente richiamate dall'art. 1857 c.
c., per le differenze strutturali dei due contratti (nel c/c bancario le
rimesse sono effettuate solo dal cliente, le partite di dare/avere si
compensano progressivamente, il correntista può disporre in ogni momento delle
somme risultanti a suo credito, ogni parte può recedere in ogni momento se il
contratto è a tempo indeterminato; nel c/c ordinario le emesse sono bilaterali
e reciproche, il saldo attivo è inesigibile dal creditore sino alla scadenza
del termine e la chiusura periodica del conto è necessaria per rendere
esigibile detto saldo e consentire il recesso unilaterale); 2) l'effetto della
pattuizione relativa alla chiusura del conto ogni tre mesi è comunque quello di
eludere (almeno per il divieto di capitalizzazione infrasemestrale)
l'applicazione della norma imperativa di cui all'art. 1283 c. c. ; 3) l' art. 8 L. 154/1992, nella parte
sopra richiamata, non è stato riprodotto integralmente nel T.U. 385/1993 e
comunque esso non conteneva alcuno specifico richiamo alla capitalizzazione
trimestrale; 4) la previsione di cui all'art. 1823 2° comma c. c., nel conto
corrente ordinario ("Il saldo del conto è esigibile alla scadenza
stabilita. Se non è richiesto il pagamento il saldo si considera quale prima
rimessa di un nuovo conto ed il contratto s'intende rinnovato a tempo
indeterminato"), implica che il saldo costituisce la prima rimessa di un
nuovo conto non già dello stesso e presuppone sempre l'inesigibilità delle
somme a saldo sino alla chiusura del conto, mentre per il conto corrente
bancario anche i saldi passivi sono immediatamente esigibili, salvo siano
ricollegati ad operazioni bancarie che ne blocchino temporaneamente la
disponibilità (C.C. 4022/1985); 5) l' art. 1853 c. c., in tema di conto
corrente bancario, consente, salvo patto contrario, la compensazione tra banca
e correntista dei saldi attivi e passivi, anche di più conti correnti di corrispondenza
allo stesso cliente intestati ed anche quando i rapporti siano ancora in corso,
proprio perché non si applica, alle operazioni bancarie in conto corrente, l'
art. 1823 c. c. sulla inesigibilità dei crediti sino alla chiusura del conto
(C.C. 6558/1997, G.C. 1998, I, 1128); 6) negli affidamenti in conto corrente,
il costo del mantenimento di una disponibilità di somma di denaro e del
conseguente rischio di non restituzione è assolto dalla commissione di massimo
scoperto.
Secondo altri giudici di merito (T. Firenze 8/1/2001; T.
Bari 28/2/2001; T. Monza 2/10/2000, tutte in F.I. 2001, 2361), pure contrari al
revirement della Cassazione, la prassi di procedere alla capitalizzazione
trimestrale degli interessi nei rapporti bancari costituisce un uso normativo
idoneo ad introdurre una regola consuetudinaria contraria all'art. 1283 c. c.,
ciò in quanto essa risulta essere stata prevista prima del 1942 (essendo stata
inserita nelle condizioni generali di contratto predisposte dall'associazione
di categoria delle Banche, la Confederazione
Generale Bancaria Fascista, del 1929) ed in quanto per la
sussistenza di un uso normativo è ritenuta sufficiente la sola convinzione
delle parti di porre in essere comportamenti conformi ai precetti
dell'ordinamento giuridico. Si può tuttavia obiettare che difettassero usi
generali normativi prima del 1942 (data di entrata in vigore del codice civile,
introduttivo del divieto di anatocismo), dovendo ritenersi anche le condizioni
generali predisposte dalla C.G.B.F. nel 1929 comunque mere proposte alle banche
di condizioni contrattuali, di natura pattizia.
Viene peraltro ribadito, anche da tali giudici di merito,
che, dopo la revoca del fido e la chiusura del rapporto di conto corrente, non
sono più dovuti interessi anatocistici (C.C. 3845/1999; T. Roma 17/12/1999).
Ora, dalla C.T.U. espletata dalla Dott.ssa Ma. Pa., con
motivazione congrua e soddisfacente, sulla base della documentazione prodotta
dalla banca convenuta, emerge che, applicando al rapporto bancario in oggetto,
nel periodo in contestazione (dalla date di apertura del conto, 6/10/1994, al
4/11/1999), i tassi convenzionali debitori e sostituendo al meccanismo di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi quello della loro
capitalizzazione annuale, un saldo, a credito dell'attrice, pari ad € 4.615,09.
Deve rammentarsi che, in ipotesi di azione di accertamento
negativo del credito di interessi e di azione di ripetizione delle somme
versate a tale titolo e non dovute, l'onus probandi ex art. 2697 c. c. ricade sull'attore
(a meno che la Banca non avanzi domanda riconvenzionale). Quest'ultimo deve
quindi fornire la prova, positiva, dell'avvenuto pagamento e del collegamento
causale, e la prova dell'inesistenza della causa debendi, prova questa da
fornire mediante fatti positivi contrari o anche presuntivi (C.C. 1557/1998;
C.C. 11029/2000). Più precisamente è stato affermato dalla Suprema Corte che
"il pagamento dell'indebito oggettivo, quale trasmissione di un bene o di
un valore patrimoniale che il solvens non aveva l'obbligo di effettuare né
l'accipiens il diritto di ricevere, costituisce il presupposto per l'esercizio
dell'azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 c. c. (configurabile come
azione di nullità per difetto di causa)" (C.C. 1250/1987) e che "l'attore
in ripetizione che assuma di avere pagato un importo superiore al proprio
debito è tenuto a dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla
ripetizione, e cioè l'eccedenza di pagamento" (C.C. 9604/2000).
L'attrice nel presente giudizio ha fornito detta prova,
attesa la pacifica estinzione del rapporto bancario sin dal novembre 1999 a seguito
dell'estinzione del debito all'epoca risultante quale saldo negativo.
Non merita poi accoglimento l'eccezione di prescrizione
sollevata dalla convenuta: l'azione tendente a far valere la nullità della
clausola di mero rinvio agli usi, senza pattuizione scritta, in ordine alla
misura dell'interesse passivo e della commissione di massimo scoperto,
applicabili al rapporto bancario, e della clausola che prevede l'anatocismo in
relazione alle suddette voci, è infatti imprescrittibile ai sensi dell'art.
1422 c. c., mentre l'azione di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c. c., è
soggetta a prescrizione decennale ex art. 2946 c. c. (non quella breve
quinquennale ex art. 2948 n. 4 c. c., applicabile solo allorché sia pattuita
una corresponsione periodica degli interessi a scadenza annuale o inferiore
autonomamente rispetto alla somma capitale, C.C. 802/1999, e non quando la
relativa obbligazione sia accessoria all'obbligazione principale, C.C.
4939/1997), decorrente tuttavia dalla chiusura definitiva del conto (C.C.
2262/1984) e nella specie quindi dal novembre 1999, con conseguente
tempestività dell'azione di ripetizione promossa nel giugno 2001.
Neppure può invocarsi l'approvazione tacita ex art. 1832 c.
c. degli estratti-conto, in quanto "la mancata contestazione dell'estratto
conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli addebiti e gli
accrediti solo sotto il profilo meramente contabile ma non sotto quello della
validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite
nei conti derivino" (C.C. 1978/1996; C.C. 5876/1991; C.C. 4735/1986), con
la conseguenza che la sopravvenuta incontestabilità delle risultanze
dell'estratto di conto corrente, derivante dall'art. 1832 c. c., riguarda le
partite a debito ed a credito annotate in conto solamente sul piano della loro
realtà materiale e non anche sul piano giuridico sostanziale, in relazione alla
validità dell'atto e del contratto da cui esse derivano.
In definitiva in accoglimento parziale della domanda
attrice, la convenuta va condannata alla restituzione alla prima della somma di
€ 4.615,09, oltre interessi convenzionali dalla domanda (dovendosi presumere la
buona fede dell'accipiens ex art. 2033 c. c. ) al saldo.
Le spese, liquidate come in dispositivo, forfetariamente in
difetto di notula, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando, in
persona del giudice unico Dr. Gi. Io., sulle domande promosse da F.lli Ba.
S.n.c., in persona del legale rappresentante p.t., con atto di citazione
notificato il 13/6/2001, nei confronti della Banca Na. del La. S.p.A., in
persona del legale rappresentante p.t., nel contraddittorio delle parti, così
provvede, ogni altra domanda ed eccezione respinta:
I) accertata la nullità della clausola convenuta all'art. 7
del contratto di conto corrente di corrispondenza n. (...), intrattenuto tra la F.lli Ba. S.n.c. e la Banca Na. del La.
S.p.A., tra il 6/10/1994 ed il 4/11/1999, condanna la banca convenuta alla
restituzione all'attrice dell'importo, indebitamente percepito, di € 4.615,09,
oltre interessi convenzionali dalla domanda al saldo;
II) condanna altresì la convenuta al rimborso delle spese
processuali in favore dell'attrice, liquidate € 3.954,00, di cui € 3.150,00,
per onorari, € 654,00, per diritti, € 150,00 per esborsi, oltre rimborso
forfetario spese generali, IVA e CAP come per legge e spese di C.T.U., come
liquidate con decreto del 6/2/2003.
Riferimenti:
Legge Giurisprudenza
TRIB.
MONZA, 22/04/2003
Non è applicabile l'art. 1815, secondo comma, Codice civile
ai ratei del mutuo "inter partes" scaduti successivamente all'entrata
in vigore della legge n. 108 del 1996; sono esigibili gli interessi scaduti
successivamente all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 nei limiti
del tasso soglia effettivamente rilevato (nel caso di specie il Tribunale di
Monza, in funzione di Giudice Unico, si è occupato della specifica questione se
al contratto di mutuo "inter partes" si applichi la legge anti-usura
n. 108 del 1996, con applicazione del tasso soglia rilevato trimestralmente dal
2 aprile 1997 previsto per la categoria di operazioni in cui l'operazione
creditizia è ricompresa; e, in caso positivo, se gli interessi usurari
richiesti debbano essere applicati nei limiti del tasso soglia ovvero, in
applicazione dell'art. 1815, comma 2, c.c. deve rilevarsi la nullità della
clausola contrattuale e non deve attribuirsi alcun interesse, né moratorie, né
corrispettivo).
TRIB.
NAPOLI, 11/10/2002
Nel definire la natura usuraria o meno dei tassi di
interesse applicati ad un contratto di conto corrente si deve fare riferimento
alla data in cui il contratto é stato stipulato. Dopo l'entrata in vigore della
legge n. 24 del 2001, infatti, non ha più rilevanza il caso di "usurarietà
sopravvenuta" a seguito del ribasso del tasso di soglia.
APP.
MILANO, 06/03/2002
La norma di interpretazione autentica di cui all'art. 1 L. 28 febbraio 2001, n. 24 -
la quale stabilisce che la natura usuraria degli interessi deve essere valutata
avuto riguardo unicamente al limite di legge fissato al momento della
conclusione del contratto - si applica esclusivamente agli interessi dovuti in
base ad un contratto di mutuo, pertanto, la clausola determinativa degli
interessi moratori, pattuita in un contratto di apertura di credito in conto
corrente, qualora gli interessi divengano usurari in seguito ad una diminuzione
del tasso soglia dell'usura, verificatasi successivamente alla conclusione del
contratto stesso deve ritenersi affetta da nullità parziale, con conseguente
riduzione automatica del tasso degli interessi a quello corrispondente al
tasso-soglia di volta in volta rilevato.
CORTE COST., 25/02/2002, N.29
E' inammissibile la q.l.c., in riferimento agli art. 3, 24,
35, 41, 47 e 77 cost., dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394,
conv., con modificazioni, in l. 28 febbraio 2001 n. 24, il quale, disponendo
che devono intendersi usurari gli interessi che eccedono il limite fissato
dalla legge al momento in cui vengono convenuti, indipendentemente dal momento
del loro pagamento, avrebbe introdotto, sotto l'apparenza di una norma
interpretativa, una irragionevole sanatoria in favore degli istituti di credito
ed in danno dei debitori mutuatari, in quanto si tratta di questione priva di
rilevanza poichè la disposizione censurata, con riferimento ad interessi
originariamente usurari, pattuiti dopo l'entrata in vigore della l. n. 108 del
1996, non preclude la possibilità di far valere la nullità della relativa
clausola ai sensi dell'art. 1815 comma 2 c.c., nel testo novellato dalla
medesima l. n. 108 del 1996.
E' inammissibile, in riferimento agli art. 3, 24, 35, 41 e
47 cost. la q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394,
convertito, con modificazioni, in l. 28 febbraio 2001 n. 24, nella parte in
cui, nel caso di interessi originariamente usurari pattuiti dopo l'entrata in
vigore della l. n. 108/1996; la nullità della relativa clausola ai sensi
dell'art. 1815, comma 2 c.c., come novellato dalla suddetta l. del 1996, non è
preclusa dall'applicazione della norma impugnata.
Sono infondate le q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 394/00,
conv., con modificazioni, in l. 24/01, secondo il quale, ai fini
dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 20, c.c., si
intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge
nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo,
indipendentemente dal momento del loro pagamento, in riferimento agli art. 3,
24, 47 e 77 cost.
Non è fondata, in riferimento all'art. 77 cost., la q.l.c.
dell'art. 1, comma 1, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394, conv., con modificazioni,
in l. 28 febbraio 2001 n. 24 - secondo il quale "ai fini dell'applicazione
dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli
interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi
sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal
momento del loro pagamento" -, in quanto eventuali vizi attinenti ai
presupposti della decretazione d'urgenza devono ritenersi sanati in linea di
principio dalla conversione in legge e deve escludersi che nella specie si
versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione
d'urgenza.
Non è fondata la q.l.c. dell'art. 1, comma 1, d.l. 29
dicembre 2000 n. 394, conv., con modif., in l. 28 febbraio 2001 n. 24 - secondo
il quale "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815,
comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite
stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque
convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro
pagamento" - sollevata, con riferimento agli art. 3, 24, 35, 41 e 47
cost., sull'assunto che la norma censurata avrebbe un'efficacia irrazionalmente
sanante della natura usuraria di rapporti contrattuali intercorrenti con
istituti di credito, da riconnettersi all'ipotesi in cui, nel corso del
rapporto, il tasso soglia scenda al di sotto del tasso di interessi
convenzionale originariamente pattuito, in quanto la disposizione censurata
impone - tra le tante astrattamente possibili - un'interpretazione chiara e
lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla l. n. 108 del
1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la
"ratio" della suddetta legge - dettata dall'esclusivo e dichiarato
intento di reprimere il fenomeno usurario - ma è altresì del tutto coerente con
il generale principio di ragionevolezza.
APP.
ROMA, 13/09/2001
L'art. 1 comma 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 (il quale ha
stabilito che, ai fini di cui all'art. 1815 c.c., devono intendersi "usurari"
gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento della
pattuizione, e non al momento del pagamento) ha natura interpretativa, in
quanto ha sanato contrasti giurisprudenziali e, quindi, retroattiva; nè tale
retroattività viola alcun precetto costituzionale, ivi compreso quello della
ragionevolezza. Il patto di interessi ultralegali soddisfa il requisito della
forma scritta anche quando sia redatto su un modulo predisposto dalla banca,
formalmente qualificato "richiesta di fido", e sottoscritto dal solo
cliente, a condizione che l'accettazione della banca risulti inequivocabilmente
da altro atto scritto, indirizzato al proponente e da questi ricevuto. Sia la
pattuizione di interessi, sia la pattuizione di una commissione di massimo scoperto,
la cui misura sia determinata mediante rinvio agli "usi su piazza",
se anteriori all'entrata in vigore della l. n. 154 del 1992, sono valide, a
condizione che tali usi, in concreto, possano essere oggettivamente conoscibili
dal cliente. Per effetto della sentenza n. 425 del 2000 della Corte
costituzionale, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 25
d.lg. 342 del 1999, deve ritenersi nullo per violazione dell'art. 1283 c.c. il
patto di capitalizzazione trimestrale degli interessi in favore della banca.
TRIB.
BOLOGNA 19/6/2001
Nell’ipotesi in cui gli interessi (nel caso di specie,
moratori) originariamente pattuiti al di sotto del tasso-soglia dell’usura,
superino tale limite nel corso del rapporto, gli stessi devono essere ridotti
al tasso-soglia, per effetto del meccanismo di integrazione legale del
contratto, di cui all’art. 1339 c.c.. A tale conclusione, si perviene offrendo
una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 1 legge n. 24 del 2001, la quale, se da un lato esclude la
possibilità di irrogare la sanzione civilistica di cui al secondo comma
dell’art. 1815 c.c. in caso di usurarietà sopravvenuta, dall’altro non
impedisce di applicare in quei casi il meccanismo di integrazione legale del
tasso negoziale mediante l’inserzione automatica del tasso soglia.
CASS. CIV., SEZ. III, 26/06/2001, N.8742
In tema di interessi usurari, l'art. 1, comma 1, d.l. 29
dicembre 2000 n. 394, per il quale ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p.
e dell'art. 1815, comma 2, c.c. si intendono tali quelli che superano il limite
stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a
qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento, ha natura
di interpretazione autentica, e pertanto si applica retroattivamente alle
controversie pendenti, con la conseguenza che le disposizioni contenute nella
l. 7 marzo 1996 n. 108, contenente disposizioni in materia di usura, non sono
applicabili ai contratti stipulati anteriormente alla sua emanazione.
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
TERZA
SEZIONE CIVILE
riunita in camera di consiglio
nelle persone dei
signori magistrati:
dott.
Gaetano NICASTRO, Presidente;
dott.
Francesco SABATINI, relatore Consigliere;
dott.
Renato PERCONTE LICATESE, "
dott.
Giuliano LUCENTINI, "
dott.
Giovanni Battista PETTI, "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
PUGLIA SALI s.r.l. in persona del
legale rappresentante ing. Claudio Vaccaro, elett. dom. in Roma, via di Porta
Pinciana n. 6, presso lo studio del prof. avv. Michele Giorgianni che la
rappresenta e difende in virtù di procura a margine del ricorso
ricorrente
contro
FIME Leasing s.p.a. in
liquidazione DALOISO Michele, RUSSO Martino, SPERA Beniamino, LOPEZ Ruggiero
Antonio, RESTANI Renzo, EREDI di Restani Giuseppe
intimati
avverso
la sentenza n. 1949 in data 25.5. -
17.6.1999 della Corte di Appello di Roma (r.g. n. 593/97).
Udita nella pubblica udienza del
7 marzo 2001 la relazione del consigliere dott.
Francesco Sabatini.
É comparso per la ricorrente
l'avv. prof. Michele Giorgianni, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
Sentito il P.M. in persona del
sost. procuratore generale Dott. Raffaele Ceniccola, che ha chiesto il rigetto
del ricorso.
Svolgimento
del processo
Su ricorso della società Fime
Leasing con decreto del 22 ottobre 1991 il Presidente del Tribunale di Roma
ingiunse alla società Puglia Sali, quale debitrice principale, e ad altri,
quali fideiussori, il pagamento della somma di lire 1.644.375.450, oltre
interessi convenzionali e spese, a titolo di canoni arretrati di tre diverse
locazioni finanziarie.
Proposero opposizione, tra gli
altri, la debitrice principale ed i fideiussori Giuseppe e Renzo Restani, i
quali dedussero: la nullità di tutti i contratti stipulati con la Fime Leasing,
riguardanti beni già di proprietà di essa utlilizzatrice, (*) perché
configuranti operazioni di lease back nulle per il divieto del patto
commissorio; la nullità della pattuizione relativa alla maggior somma da
restituire, rispetto al finanziamento erogato, per mancata determinazione per
iscritto ed illiceità del saggio d'interesse applicato; l'inapplicabilità, come
tasso degli interessi di mora, del saggio d'interesse previsto dai contratti.
La Fime Leasing chiese
il rigetto delle opposizioni e la condanna degli opponenti al pagamento dei
canoni ed accessori, successivi al 31.3.1991, maturati e maturandi in corso di
giudizio.
Con sentenza del 30 novembre 1995
il Tribunale di Roma respinse le opposizioni, escludendo in particolare che le
pattuizioni intercorse tra le parti configurassero un patto commissorio, nonché
la domanda riconvenzionale.
Tale decisione fu impugnata in
via principale dalla Puglia Sali e da Giuseppe e Renzo Restani, e, in via
incidentale dalla Fime Leasing.
Con sentenza del 17 giugno 1999
la Corte di Appello ha respinto l'appello principale ed ha disposto
accertamenti istruttori quanto a quello incidentale, riservando alla pronuncia
definitiva il regolamento delle spese.
La Corte territoriale ha
affermato che il contratto di lease back, di per sé lecito, viola nondimeno
l'art. 2744 c.c. solo in presenza di "circostanze obiettive e sintomatiche
(sussistenza di una situazione credito - debitoria preesistente; sproporzione
tra entità del prezzo e valore del bene alienato) ovvero allorché le parti
abbiano voluto costituire, attraverso la vendita, una garanzia reale a favore
della società di leasing, subordinando al mancato pagamento dei canoni della
locazione il definitivo trasferimento in proprietà del bene oggetto della
vendita, senza consentire al venditore - utilizzatore di riacquistarne la
proprietà con il pagamento del prezzo di opzione, al termine del contratto di
lease back". Nella specie non erano ravvisabili concreti elementi di
coartazione della volontà della venditrice, tenuto conto in particolare della
circostanza che la Fime
Leasing non aveva acquistato definitivamente l'immobile,
essendosi la venditrice riservata di riacquistarlo al prezzo d'opzione dell'un
per cento del valore dei beni. Non era provata la doglianza concernente la
mancata detrazione - dall'intero importo dovuto di lire 3.535.000.000 - delle
somme di lire 1.655.000.000 e 520.000.000, che sarebbero state rispettivamente
erogate dall'Agenzia del Mezzogiorno ed anticipate dalla Puglia Sali all'atto
della stipula della convenzione, e, d'altronde, il credito della Fime Lesing
era provato dalle fatture e dagli estratti notarili del libro giornale, mentre
non era condivisibile la perizia stragiudiziale. Il tasso d'interesse - nella
misura del 20% per il contratto del 28.11.1986 e del 17% per quello del
21.12.1987 - era stato così stabilito dall'art. 5 del contratto, né era
applicabile l meno elevato tasso di riferimento di cui all'art. 20 d.p.r. 9.11.1976
n. 902, riferendosi esso esclusivamente alle operazioni di mutuo agevolato.
Nessuna responsabilità poteva infine addebitarsi alla Fime Lesing quanto
all'entità dei contributi concessi stante il disposto dell'art. 2 delle
clausole aggiuntive del contratto di locazione finanziaria - in forza del quale
la mancata concessione o erogazione dei contributi in conto canoni, a qualunque
causa dovuti, non poteva determinare alcun effetto sul contratto di locazione
finanziaria - ed il carattere discrezionale della misura del contributo,
rimesso all'Agenzia per il Mezzogiorno.
Per la cassazione di tale
decisione la sola società Puglia Sali ha proposto ricorso immediato, affidato a
sei motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. La ricorrente ha
depositato memoria.
Motivi
della decisione
1. Con il primo motivo del
ricorso la società ricorrente deduce con riferimento all'art. 360 nn. 3 e 5
c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. e degli
artt. 1322 e 2744 c.c., nonché vizio di motivazione su punto decisivo, e -
richiamate l'elaborazione giurisprudenziale in tema di lease back e l'affermata
astratta validità di tale contratto - osserva che i giudici del merito erano
chiamati a decidere se nella fattispecie sottoposta al loro esame fosse
ravvisabile "uno sviamento rispetto allo schema socialmente tipico del
contratto" tale da comportarne l'invalidità, ed in particolare se essa
ricorrente "avesse ottenuto, con immediatezza, liquidità, e cioé il
finanziamento, mediante l'alienazione di un bene strumentale di cui conservava
l'uso, o se esso fosse invece rivolto ad una finalità diversa da quella di
finanziamento, e segnatamente alla costituzione di una garanzia"; addebita
quindi alla sentenza impugnata di aver limitato la sua indagine alla verifica
astratta della validità del contratto trascurando invece di esaminare il caso
concreto ed afferma che la circostanza che "i beni non esistevano ma erano
da realizzare a cura della Fime Leasing, costituiva già, da sola, una
ineliminabile deviazione dallo schema tipico del contratto", il quale
pertanto non aveva ad oggetto, come invece era necessario un bene strumentale;
giudica irrilevante la delibera del proprio consiglio d'amministrazione,
richiamata dalla stessa sentenza a sostegno della validità del contratto, e
rileva che l'opzione di riacquisto costituisce elemento normale dello schema
negoziale; osserva quindi che essa ricorrente nel 1986 aveva acquistato un
terreno sul quale aveva iniziato la costruzione degli edifici ed installato le
prime macchine, terreno che aveva poi venduto alla Fime Leasing per il prezzo
di lire 403.644.067
in mancanza della liquidità necessaria per la piena
attuazione del proprio progetto di costruzione di uno stabilimento industriale,
progetto che comportava una spesa di oltre tre miliardi di lire; l'acquirente
assunse l'impegno di detta attuazione e non versò il prezzo d'acquisto, che
avrebbe dovuto essere conteggiato con la prima rata del canone mensile; il
corrispettivo della locazione finanziaria venne determinato in lire
5.156.765.075, poi elevate a lire 5.922.794.390 a
seguito di investimento integrativo eseguito dalla Fime Leasing il divieto del
patto commissorio emergeva dalla circostanza che, in tale complessiva
operazione, la vendita immobiliare non rispondeva ad alcuna esigenza
finanziaria e ad essa la ricorrente aveva dato il proprio assenso perché la Fime Leasing si
accreditava quale mandataria dell'Agenzia per il Mezzogiorno.
Il motivo è in parte
inammissibile, perché rivolto al riesame delle risultanze processuali, ed in
parte infondato.
Come questa C.S. ha affermato con
sentenza del 16 ottobre 1995 n. 10805 (seguita dalle successive nn. 6663/97 e
4095/98), il contratto atipico di sale and lease back - valido in via di
principio perché diretto a realizzare, ai sensi dell'art. 1322 cpv. c.c.,
interessi meritevoli di tutela - è invece nullo per violazione del divieto di
patto commissorio allorquando scopo effettivo dell'operazione è piuttosto
quello di dotare il venditore di una provvista finanziaria assistita da
garanzia reale.
La ricorrente non pone in
discussione tale indirizzo - che, al contrario, mostra di condividere
incondizionatamente - ma, come accennato, addebita alla sentenza impugnata di
aver trascurato di esaminare il caso concreto: addebito privo di ogni
fondamento attese le argomentazioni al riguardo da essa svolte (pag. 11 - 12).
Insussistente, pertanto, è la
dedotta violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. così, come manifestamente, lo è
quella dell'art. 1322 c.c.
La violazione dell'art. 2744 c.c.
viene denunciata quale effetto della costituzione di una garanzia reale a
favore dell'acquirente, che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici del
merito, sarebbe stata lo scopo effettivo della complessiva operazione.
Orbene, come questa C.S. ha già
avuto occasione di affermare (sent.
n. 6663/97 già citata), stabilire
se lo schema negoziale del lease back sia stato o non in concreto impiegato per
eludere il divieto di patto commissorio involge accertamenti di fatto da compiere
in base ad elementi sintomatici sia soggettivi che oggettivi: come nella specie
ha fatto la Corte territoriale la quale ha attribuito rilievo decisivo, così
disattendendo la tesi dell'appellante, al prezzo convenzionale d'opzione,
stabilito nella misura minima dell'un per cento del valore di acquisto dei
beni, e compiendo in tal modo un accertamento motivato e logico, come tale
insindacabile in questa sede di legittimità.
Non vale opporre, come fa la
ricorrente, che tale opzione costituisce elemento normale dello schema
negoziale, non essendo affatto precluso al giudice del merito nondimeno
sindacare, ai fini in esame, le relative condizioni.
Non vizia la motivazione la
circostanza che il progetto di costruzione dello stabilimento industriale sul terreno
compravenduto fosse, a tale data, in fase attuativa soltanto iniziale, e che
l'attuazione venne poi condotta a termine dalla società acquirente - con
rilevante impegno finanziario, come la stessa ricorrente sottolinea, l'impegno
di gran lunga eccedente il valore del bene compravenduto -, perché ciò
nondimeno non può negarsi valore potenzialmente strumentale al bene stesso.
Deve, infine, rilevarsi che il
patto commissorio, vietato dall'art. 2744 c.c., è configurabile solo quando il
debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione di
un'obbligazione e non anche nel caso in cui tale trasferimento sia frutto di
una scelta (Cass. 3.2.1999 n. 893): scelta che nella specie la Corte
territoriale con il richiamo alla delibera consiliare della società venditrice,
ha motivatamente ritenuto essersi verificata.
2. Con il secondo motivo la
ricorrente si duole della mancata detrazione, dal calcolo dei canoni di
leasing, delle somme di lire 1.655.000.000 e 520.000.000 (che sarebbe state
rispettivamente erogate dall'Agenzia per il Mezzogiorno ed anticipate dalla
stessa Puglia Sali all'atto della stipula delle convenzioni), dell'omesso
approfondito esame della perizia stragiudiziale da essa prodotta, e
dell'erroneo convincimento della mancata contestazione delle fatture prodotte
dalla Fime Leasing: censure sulla base delle quali la stessa ricorrente allega
la violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. nonché vizio di motivazione.
Osserva la Corte che il motivo
involge accertamenti di fatto motivatamente compiuti dai giudici del merito ed
insindacabili in questa sede: la Corte territoriale ha infatti disatteso la
tesi dell'appellante sulla base di una pluralità di argomentazioni basate su
altrettante risultanze processuali mancata prova delle asserite detrazioni,
criterio di calcolo dei canoni indicato dall'art. 5 del contratto, fatture ed
estratti autentici notarili, non condivisibilità della perizia perché basata
sui maggiori importi dei contributi che solo ipoteticamente la Puglia Sali avrebbe
potuto incassare), risultanze alle quali la stessa Corte ha
inteso attribuire un significato probatorio complessivo, e che solo in parte, e
non in tale complessivo significato, vengono censurate dalla ricorrente, la
quale pone essa stessa in evidenza che il proprio perito aveva formulato
"varie ipotesi alternative" ed in questa sede di legittimità
inammissibilmente si duole del fatto che il giudice del merito abbia esercitato
il proprio doveroso potere valutativo in senso difforme dalle sue attese.
3. La Corte territoriale ha
ritenuto legittima la determinazione convenzionale degli interessi nella misura
del 20% e del 17%, rispettivamente per i contratti del 28.11.1986 e del
21.12.1987: punto della decisione che è investito dal terzo e dal quarto motivo
del ricorso - strettamente connessi e, pertanto, da esaminare congiuntamente -
con i quali si deduce, con riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione
degli artt. 1815 c.c., 20 d.p.r. 9.11.1976 n. 902, 2 e 3 legge 7.3.1996 n. 108,
della legge 2.5.1976 n. 183 e dei decreti ministeriali 30.10.1986, 27.10.1987,
23.9.1996, 22.3.1997, 20.12.1999 nonché - limitatamente al terzo motivo - vizio
di motivazione.
A sostegno di essi la ricorrente
allega che la Fime
Leasing, tenuta a compiere operazioni alternative al mutuo agevolato,
era tenuta ad osservare il saggio di riferimento di cui ai primi due decreti
ministeriali sopra citati, rispettivamente fissato nella misura del 13,90% e
del 13,65%, e che il tasso convenzionale viola inoltre le sopravvenute norme
imperative in tema di usura.
a) Rileva preliminarmente la
Corte che nessuno dei decreti ministeriali sopra citati risulta acquisito agli
atti del giudizio di merito (né a quello di legittimità nel quale essi non
potevano del resto essere per la prima volta prodotti stante il divieto posto
dal primo comma dell'art. 372 c.p.c.), e che l'ultimo è perfino successivo alla
pubblicazione della sentenza impugnata.
Orbene, trattandosi di atti
amministrativi, non può riguardo ad essi trovare applicazione il principio jura
novit curia (art. 113 primo comma c.p.c.), dovendo tale norma essere letta ed
applicata con riferimento all'art. 1 delle disposizioni preliminari al codice
civile, il quale contiene l'indicazione delle fonti del diritto, le quali non
comprendono gli atti suddetti (vedansi al riguardo Cass. nn. 5483/98 e
6933/99), con la conseguente inammissibilità delle censure basate sulla
asserita violazione di tali decreti.
b) La Corte territoriale ha
escluso la vincolatività del "tasso di riferimento" con il rilievo
che esso riguarda esclusivamente le operazioni di mutuo agevolato e non incide
pertanto sul rapporto contrattuale in questione.
Avverso tale affermazione la
ricorrente, pur implicitamente riconoscendo che la controversia non concerne
operazioni di mutuo agevolato, adduce che la Fime Leasing era
tenuta a compiere operazioni "alternative" e fungibili, anch'esse
pertanto soggette al tasso di riferimento, ed al riguardo richiama l'art. 17
legge 2.5.1976 n. 183 e l'art. 20 d.p.r. 9.11.1976 n. 902, nonché,
genericamente, l'uno e l'altro testo normativo.
Osserva la Corte che, anche a non
voler ritenere assorbenti le ragioni di inammissibilità di cui al precedente
punto a), la doglianza è inammissibile laddove - a sostegno della tesi della
equipollenza, agli effetti in esame, delle operazioni di mutuo agevolato e di
quelle ad esse alternative - genericamente richiama la legge n. 183/76 ed il
d.p.r. n. 902/76, sulla disciplina, rispettivamente, dell'intervento
straordinario nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976 - 80 e del credito
agevolato al settore industriale, ed è infondata anche nel merito quanto alla
dedotta e specifica violazione, rispettivamente, degli artt. 17 e 20 dei
predetti testi normativi, poiché la prima disposizione detta norme concernenti
la locazione finanziaria di attività industriali ma non anche il c.d. tasso di
riferimento mentre la seconda, pur riferendosi a detto tasso, non specifica
però che esso concerne anche le operazioni di cui è causa.
c) La violazione della legge n. 108/96 (non
dedotta in sede di appello sebbene questo sia stato proposto successivamente
alla sua entrata in vigore, né d'ufficio esaminata dalla Corte territoriale)
non sussiste atteso che l'art. 1 primo comma d.l. 29 dicembre 2000 n. 394,
recante interpretazione autentica della legge suddetta, convertito con
modificazioni dalla legge 28 febbraio 2001 n. 24, dispone che, ai fini
dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815 secondo comma c.c., si
intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge
nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo,
indipendentemente dal momento del loro pagamento.
Trattasi di norma dichiaratamente interpretativa e
pertanto retroattiva la quale come tale disciplina anche la controversia in
esame, con la conseguenza che, trattandosi di interessi convenuti in epoca ben
antecedente all'entrata in vigore delle norme antiusura, queste non possono
trovare applicazione
Non può, pertanto, essere confermato l'indirizzo
affermativo della - parziale - retroattività della legge n. 108/96, di cui alle
sentenze di questa C.S. (nn. 1126, 5286 e 14899 del 2000), tutte precedenti
l'intervento normativo sopra richiamato.
4. Il motivo di appello
concernente la pretesa negligenza della Fime Leasing nella cura della pratica
per l'ottenimento dei contributi dell'Agenzia per il Mezzogiorno è stato
disatteso dalla Corte territoriale con il rilievo che, a norma dell'art. 2 del
contratto, la mancata concessione dei contributi, a qualunque causa dovuti, non
poteva determinare effetti di sorta.
In senso contrario la ricorrente
afferma invece con il quinto motivo che la Fime Leasing, avendo
assunto l'obbligo di eseguire determinate attività in vista dell'erogazione dei
contributi, doveva rispondere del relativo inadempimento, rispetto al quale non
rilevava la clausola contrattuale sopra citata, e denuncia pertanto la
violazione degli artt. 1176, 1218, 1362 e ss. 2043 e ss. c.c. nonché vizio di
motivazione.
Osserva la Corte che la mancata
assunzione di un'obbligazione di risultato - nella specie accertata dai giudici
del merito con decisione che, sul punto, non forma oggetto di doglianze - non
esonera di per sé il debitore dalla responsabilità per l'obbligazione di mezzi,
che egli abbia nondimeno assunto.
Se, pertanto, l'affermazione di
principio della Corte territoriale è di per sé erronea, essa non può tuttavia
comportare effetti di sorta sulla validità della sentenza sia per la genericità
della doglianza sul punto - di fatto - della asserita negligenza, sia per non
avere la ricorrente riportato in ricorso, come doveva in osservanza dell'onere
di autosufficienza, la diversa clausola contrattuale, cui essa fa riferimento.
5. Il sesto motivo, con il quale
la ricorrente si duole dell'accoglimento dell'appello incidentale della Fime
Leasing, è inammissibile giacché la Corte territoriale, pur mostrandosi
orientata per l'accoglimento, non ha affatto pronunciato in tal senso ma si è
limitata invece a disporre ulteriori accertamenti istruttori, di guisa che, sul
punto, la decisione ha veste sostanziale di ordinanza e potrà essere
separatamente impugnata se ed in quanto essa sarà confermata dalla emananda
sentenza definitiva.
6. Il ricorso deve, pertanto,
essere respinto, senza provvedimenti sulle spese non avendo gli intimati
vittoriosi svolto attività difensiva.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla
per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera
di consiglio della Corte, il 7 marzo 2001.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA
26 GIU. 2001.
(*) n.d.r. così nel testo.
CASS. CIV., SEZ. I, 17/11/2000, N.14899
Nel mutuo, ove il rapporto negoziale non sia ancora esaurito
in quanto perduri l'obbligazione di corrispondere, oltre ai ratei di somma
capitale, anche gli interessi, la rilevabilità d'ufficio della nullità della
clausola relativa agli interessi, che si assumano essere usurari in
applicazione dei criteri dettati dalla l. n. 108 del 1996 non può ritenersi
preclusa per il solo fatto che il contratto sia stato stipulato anteriormente
all'entrata in vigore della nuova disciplina.
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE
PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. Pasquale REALE - Presidente
-
Dott. Giovanni LOSAVIO -
Consigliere -
Dott. Vincenzo FERRO -
Consigliere -
Dott. Giovanni VERUCCI - Rel.
Consigliere -
Dott. Giuseppe Maria BERRUTI -
Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MALMESI GLAUCO, elettivamente
domiciliato in ROMA PIAZZALE CLODIO 12, presso l'avvocato AGOSTA G.,
rappresentato e difeso dall'avvocato GUGNONI PIER PAOLO, giusta procura in
calce al ricorso;
-
ricorrente -
contro
BANCA UCB SpA, già UCB CREDICASA
SpA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA VIA OSLAVIA 40, presso l'avvocato BEVERE MASSIMO, che la
rappresenta e difende unitamente all'avvocato Rossi MATTEO, giusta mandato in
calce al ricorso notificato;
-
controricorrente -
avverso la sentenza n. 746/98
della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 25/06/98;
udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 13/07/2000 dal Consigliere Dott. Giovanni
VERUCCI;
udito per il resistente,
l'Avvocato Rossi, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAJUTO che ha concluso per il rigetto del
ricorso.
Svolgimento
del processo
Glauco Malmesi conveniva in
giudizio, dinanzi al Tribunale di Forlì, la s.p.a. UCB -Credicasa, esponendo di
aver stipulato con la convenuta, in data 29 maggio 1993, un contratto di mutuo
ipotecario di lire 55.000.000, da destinare all'acquisto di un immobile,
obbligandosi al rimborso mediante rate mensili al tasso annuo del 15/55%
costante per i primi cinque anni e con un prospetto di ammortamento che
prevedeva rate crescenti: poiché alla fine del 1994, a fronte di
versamenti per lire 10.324.709, il debito capitale si era ridotto a sole lire
52.020.997, era evidente che non esisteva un equilibrio sinallagmatico.
L'attore chiedeva, quindi, che fosse dichiarata la risoluzione del contratto
per eccessiva onerosità sopravvenuta e che la banca fosse condannata al
risarcimento dei danni.
Costituitasi, la convenuta
resisteva alla domanda, eccependo pregiudizialmente l'incompetenza per
territorio del giudice adito.
Con sentenza non definitiva del
14 maggio 1996, il Tribunale dichiarava la propria competenza e, con ordinanza
in pari data, fissava per la prosecuzione del giudizio l'udienza del 27 giugno
1996 (poi rinviata d'ufficio al 6 novembre '96): con sentenza definitiva del 19
marzo 1997, rigettava la domanda. L'impugnazione proposta dal Melmesi
veniva respinta dalla Corte d'Appello di Bologna con sentenza 25 giugno 1998.
Osservava la Corte, per quanto in
questa sede rileva, che i primi giudici avevano correttamente dichiarato
inammissibile la domanda subordinata di nullità della clausola contrattuale
relativa agli interessi, formulata per la prima volta in sede di precisazione
delle conclusioni, con riferimento all'entrata in vigore della legge n. 108 del
1996: la tesi dell'appellante, secondo cui la domanda sarebbe stata tempestiva,
perché proposta nel primo atto difensivo successivo a detta legge e perché
controparte non ne aveva comunque eccepito la preclusione, non poteva essere
condivisa, atteso che, sotto il primo profilo, già anteriormente alla riforma
del 1996 il secondo comma dell'art. 1815 c.c. prevedeva la nullità della
clausola con la quale fossero stati convenuti interessi usurari, con la
conseguenza che il Malmesi avrebbe potuto dedurne la nullità sin dall'atto di
citazione, a nulla rilevando lo "ius superveniens", tanto più che la
legge n. 108 è entrata in vigore il 9 marzo 1996 e nessuna domanda era stata
avanzata all'udienza del 6 novembre successivo, sotto il secondo profilo, la
novità della domanda è rilevabile d'ufficio e, in ogni caso, non è sufficiente
il mero silenzio della controparte per ritenere che abbia accettato il
contraddittorio.
Quanto alla doglianza del Malmesi
circa la rilevabilità d'ufficio della nullità della clausola con la quale erano
stati pattuiti gli interessi, la Corte falsinea osservava che il Tribunale
aveva esattamente applicato il principio secondo cui la rilevabilità d'ufficio
ex art. 1421 c.c. va coordinata con i principi della domanda e della
disponibilità delle prove, il giudice non potendo prospettarsi questioni che
implichino indagini per le quali manchino gli elementi necessari, come nel caso
di specie, in cui il carattere usurario degli interessi non risultava dal
contratto di mutuo, dal quale emergeva soltanto il saggio convenuto. Secondo la
Corte territoriale, infatti, il riferimento normativo non era l'art. 1 della
legge n. 108/96, trattandosi di contratto stipulato nel 1993, sebbene l'art.
644 c.p. nel testo anteriormente vigente: ne derivava la necessità di accertare
la sussistenza dello stato di bisogno dell'obbligato e dell'approfittamento da
parte dell'altro contraente, elementi che non risultavano direttamente dagli
atti: né valeva richiamare l'art. 185 disp.att. cod.civ., dal cui tenore emerge
che si riferisce all'art. 1815 c.c. nella formulazione anteriore alla novella
del 1996.
Per la cassazione di tale
sentenza il Malmesi ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, illustrati
anche con memoria. Resiste la
Banca UCB s.p.a. (già UCB Credicasa s.p.a.) con
controricorso.
Motivi
della decisione
Con il primo motivo, denunciando
violazione e falsa applicazione dell'art. 189 cpc, in relazione all'art. 360 n.
3 dello stesso codice, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia
confermato la statuizione dei primi giudici circa l'inammissibilità della
domanda subordinata di nullità della clausola relativa agli interessi del
contratto di mutuo, perché formulata per la prima volta in sede di precisazione
delle conclusioni.
Secondo il ricorrente, si sarebbe
dovuto considerare che la questione, derivante da "ius superveniens",
era stata proposta nel primo atto difensivo successivo all'entrata in vigore
della legge 7 marzo 1996 n. 108 ("Disposizioni in materia di usura")
e dei decreti di attuazione: inoltre, v'era stata implicita accettazione del
contraddittorio, atteso che la banca non ne aveva eccepito la preclusione.
Occorre rilevare, anzitutto, che
il ricorrente non censura l'affermazione della Corte felsinea secondo cui la
questione avrebbe potuto essere dedotta già con l'atto di citazione, dal
momento che l'art. 1815 c.c. prevedeva comunque - prima della modifica
apportata con l'art. 4 della legge 7 marzo 1996 n. 108 - la nullità della
clausola con la quale fossero stati pattuiti interessi usurari (un breve cenno
al riguardo è contenuto solo nella memoria presentata ai sensi dell'art. 378
c.p.c., peraltro in replica ad argomentazione della controparte): trattandosi
di ragione concorrente idonea a sorreggere anche da sola la decisione, sotto
tale profilo il motivo é inammissibile per difetto di interesse (cfr. Cass.
11902/98, 9866/98, 13117/97), con conseguente irrilevanza della questione
relativa allo "ius superveniens" ed alla proposizione della domanda
nel primo atto difensivo immediatamente successivo all'entrata in vigore della
l. 108/96 e dei relativi decreti di attuazione.
Sotto altro profilo, la censura è
infondata: nel ritenere, infatti, che il mero silenzio della banca non
costituisse accettazione dal contraddittorio sulla domanda intempestivamente
proposta, il giudice di merito si è attenuto al principio - riferibile alla
normativa previgente alla novella del 1990 - secondo cui il divieto di
introdurre nuove domande nel corso del giudizio di primo grado non è
sanzionabile esclusivamente in presenza di un atteggiamento della parte
interessata consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio, ovvero
in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione, tenendo
presente che, ai fini dell'apprezzamento di tale concludenza, non assume
rilievo il semplice protrarsi del difetto di reazione e non può essere
attribuito valore indicativo al mero silenzio della controparte in sede di
precisazione delle conclusioni, ove la domanda nuova sia proposta in tale sede
(SS.UU. 4712/96 e, più di recente, Cass. 11508/98).
Con il secondo motivo,
denunciando violazione dell'art. 1421 c.c., il ricorrente censura la sentenza
impugnata per non aver considerato che dagli atti emergevano gli elementi da
cui poter rilevare d'ufficio la nullità della clausola relativa agli interessi.
Con il terzo mezzo, infine,
denuncia violazioni degli artt. 1
L.108/96 e 185 disp.att. cod.civ., rilevando, per un
verso, che sull'applicabilità della normativa in tema di usura non incide la
circostanza che il contratto di mutuo sia stato stipulato nel 1993, e per altro
verso, che il ragionamento svolto dalla Corte territoriale circa l'art. 185
disp.att. cod.civ. porta alla sua abrogazione.
Le censure, che possono essere
esaminate congiuntamente per l'evidente connessione, sono fondate nei limiti di
seguito precisati.
É fuor di dubbio che il potere
del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità di un contratto o di una
clausola di esso, ai sensi dell'art. 1421 c.c., vada coordinato con il
principio della domanda ex artt. 99 e 112 c.p.c. (tra le ultime, Cass. 123/2000
e 1811/99): nel caso di specie, tuttavia, la Corte falsinea non ha fatto buon
governo di tale principio, essendo evidente che, per il tramite della domanda
principale di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta,
era stata contestata l'esecuzione del contratto, soprattutto con riferimento
alla pattuizione degli interessi, tant'é che la stessa Corte
territoriale non ha posto in discussione tale aspetto, limitandosi a rilevare
che occorrevano indagini sul carattere usuraio degli interessi (in partico1are,
sullo stato di bisogno dell'obbligato e sul consapevole approfittamento di
detto stato da parte della banca), perché non poteva trovare applicazione la
novella del 1996 in
tema di usura, il contratto essendo del 1993.
Si tratta, allora, di verificare
la conformità a diritto di quest'ultima affermazione, costituente la vera
"ratio decidendi" della sentenza impugnata per quanto attiene alla
rilevabilità d'ufficio della nullità.
Va subito precisato che,
contrariamene all'assunto del ricorrente, a tali fini non rileva l'art. 185
disp.att. e trans. del codice civile, dal cui tenore si evince chiaramente che
si riferisce alla formulazione dell'art. 1815 c.c. anteriore alla modifica
apportata dall'art. 4 della l. 108/96: in altri termini, la norma in questione
é, ora, sostanzialmente inefficace, dovendosi ritenere che la sua vigenza
formale sia frutto di un difetto di coordinamento legislativo.
La soluzione è altrove e va
individuata nei principi enunciati da questa Corte con le recenti sentenze nn.
5286/2000 e 1126/2000.
Con la prima (in tema di interessi moratori per
scoperto di conto corrente, ma con argomenti di carattere generale) è stato
affermato che la pattuizione di interessi a tasso divenuto usuraio a seguito
della legge 108/96 è nulla anche se compiuta in epoca antecedente all'entrata
in vigore di detta legge. Giova ripercorrere, sia pure sinteticamente,
l'"iter" logico - giuridico di tale decisione.
Premesso che una pattuizione di interessi intervenuta
prima dell'entrata in vigore della legge 108/96 non può, stante il principio
dell'art. 25, 2^ comma, Cost., essere ritenuta penalmente rilevante sol perché
detti interessi risultino superiori alla soglia fissata, questa Corte ha
osservato che, pur dovendosi ritenere in via di principio che il giudizio di
validità vada condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della
conclusione del contratto, tuttavia, verificandosi un concorso tra
autoregolamentazione pattizia ed autoregolamentazione normativa, diviene
insostenibile la tesi che subordina l'applicabilità dell'art. 1419, 2^ comma,
c.c. all'anteriorità della legge rispetto al contratto, perché l'inserimento ex
art. 1339 cc. del nuovo tasso incontra l'unico limite che si tratti di
prestazioni non ancora eseguite, in tutto od in parte.
Va ora precisato, con riferimento allo specifico tema del
contratto di mutuo, che merita di essere condiviso l'orientamento dottrinario
secondo cui l'ampia dizione degli artt. 1339 e 1419, 2^ comma, cod.civ.
consente non solo la sostituzione automatica di clausole con altre valute
dall'ordinamento, ma anche la semplice eliminazione di clausole nulle senza
alcuna sostituzione, dovendosi tener conto del maggior spessore della
eteroregolamentazione nell'ambito della contrapposizione tra autonomia
contrattuale ed imperatività della norma.
La citata sentenza n. 5286/2000 ha precisato, altresì,
che: a) la tesi ha trovato l'autorevole avallo della Corte Costituzionale nella
sentenza n. 204 del 1997, che ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 1938 c.c. proprio sulla base della
considerazione che, pur avendo carattere innovativo la legge n. 154/92 e non
applicandosi retroattivamente, tuttavia ciò non implica che la disciplina
precedente acquisiti caratteri ultrattivo; b) l'obbligazione degli interessi
non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di
prestazioni successive; c) ai fini della qualificazione usuraria degli
interessi, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto,
come si evince anche dall'art. 644 - ter cod.pen. (introdotto dall'art. 11 l. 108/96); d) in tal senso
è la giurisprudenza penale di questa Corte, secondo cui la dazione degli
interessi non costituisce "post factum" non punibile, ma fa parte a
pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante; e) anche a non voler
aderire alla configurabilità della nullità parziale sopravvenuta, comunque non
si può continuare a dare effetto alla pattuizione di interessi eventualmente
divenuti usurari, a fronte di un principio introdotto nell'ordinamento con
valore generale ed assoluto e di un rapporto non ancora esaurito.
Quest'ultimo profilo, in particolare, è stato oggetto di
esame da parte della sentenza n. 1126/2000, secondo cui "si può ben
ritenere che la sopravvenuta legge 106/96, di per sé evidentemente non
retroattiva e dunque insuscettibile d'operare rispetto agli anteriori contratti
di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente
alla regolamentazione di effetti ancora in corso", quindi, per l'appunto,
la corresponsione degli interessi.
Ne deriva che, sulla base del contratto di mutuo
acquisito agli atti ed in presenza di un rapporto non ancora esaurito
all'entrata in vigore della legge n. 108/96, per il perdurare dell'obbligazione
di corrispondere, oltre ai ratei di somma capitale, anche gli interessi
(quantomeno, per il periodo di vigenza del rapporto, fino alla sua eventuale
risoluzione), la Corte di merito non poteva escludere radicalmente la
rilevabilità d'ufficio della dedotta nullità della clausola relativa agli
interessi, sol perché la pattuizione era intervenuta in epoca antecedente
all'entrata in vigore della legge n. 108 del 1996: al contrario, avrebbe dovuto
verificare se detta nullità sussistesse o meno, correlando il convenuto tasso
degli interessi alla nuova normativa in tema di mora. Ciò
non ha fatto, di talché, in accoglimento del ricorso nei limiti precisati, la
sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice, designato in diversa
sezione della Corte d'Appello di Bologna, che si atterrà a quanto enunciato in
tema di rilevabilità d'ufficio della nullità (eventuale) della clausola
relativa agli interessi del contratto di mutuo.
É appena il caso di osservare che
le considerazioni svolte dalla banca controricorrente circa i tassi massimi
consentiti all'epoca della stipulazione del contratto ed alla stregua dei
decreti attuativi della legge n. 108/96, ai fini della, qualificabilità o meno
come usurari degli interessi medesimi, attengono al merito della controversia e
non possono trovare ingresso nella presente sede di legittimità.
Allo
stesso giudice di invio è demandato di provvedere anche sulle spese del
giudizio di cassazione. /STRONG>
La Corte accoglie il ricorso per
quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad
altra Sezione della Corte d'appello di Bologna.
Così deciso in Roma, il 13 luglio
2000.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17
NOV. 2000.