La successione mortis causa a titolo universale
A seguito della morte di una persona fisica è necessario regolare la
titolarità dei rapporti patrimoniali già facenti capo alla stessa
mediante l'apertura di una successione.
Qualora un soggetto, per testamento o per legge, sia chiamato a succedere nella
totalità delle situazioni di carattere patrimoniale di pertinenza del de
cuius, si parla di successione mortis causa a titolo universale e colui che
subentra nella titolarità di detti rapporti assume la qualità di
erede.
Nel caso in cui, invece, il soggetto sostituisca il defunto esclusivamente con
riferimento a situazioni specifiche e determinate, si apre la c. d. successione
a causa di morte a titolo particolare ed il beneficiario del lascito prende il
nome di legatario.
Peraltro, talvolta risulta difficile distinguere le due forme di successione
suddette; nella prassi, infatti, spesso la linea di demarcazione tra
istituzione di erede e legato appare assai sottile, soprattutto qualora si
tenga conto del fatto che occorre attribuire significato ad un negozio
giuridico, quale è il testamento, senza che l'autore di esso possa
offrire alcun ausilio all'interprete.
L'art. 588 c. c., invero, prevede che si abba successione a titolo universale
sia quando un soggetto subentra nell'universalità dei beni del de cuius,
sia quando vengono attribuiti allo stesso singoli ed individuati beni, intesi,
però, dal defunto come quota parte del suo patrimonio: in quest'ultimo
caso, sussiste la c. d. institutio ex re certa. Ogniqualvolta, invece, il
conferimento al successore di beni determinati non sia accompagnato dalla
volontà del testatore di collocare tale soggetto nella medesima
posizione di diritto propria del de cuius, seppure limitatamente ad una
porzione dell'asse ereditario, si verificherà un'ipotesi di successione
a titolo particolare. Tale distinzione è stata chiaramente definita
anche dalla Corte di Cassazione, da ultimo, con la sentenza n. 3016 del
1°marzo 2002.
Peraltro l'assunzione della qualità di erede anziché di legatario
determina la produzione di effetti ben diversi tra loro, come si avrà
subito modo di chiarire.
L'accettazione dell'eredità
Allorché un soggetto sia chiamato a succedere ad un altro a titolo
universale, egli acquista il diritto di accettare l'eredità entro il
termine ordinario di prescrizione di dieci anni dall'apertura della
successione. Tuttavia, chiunque vi abbia interesse può esercitare
un'actio interrogatoria, domandando all'autorità giudiziaria di fissare
un termine più breve entro il quale i chiamati all'eredità
dovranno dichiarare le proprie intenzioni; in difetto, essi decadranno dal
diritto di accettare.
Nel momento in cui il soggetto chiamato manifesta la propria volontà di
accettare o meno l'eredità, gli effetti di tale dichiarazione si fanno
decorrere, attraverso una finzione giuridica, dal momento stesso della morte
del de cuius, cosicché sia sempre possibile individuare il titolare
delle situazioni patrimoniali già facenti capo al defunto.
Il nostro codice civile, peraltro, prevede due diverse forme di accettazione
dell'eredità, a cui sono ricollegabili effetti ben distinti: si tratta
dell'accettazione pura e semplice (artt. 470 e segg. c. c.) e dell'accettazione
con beneficio d'inventario (artt. 484 e segg. c. c.).
L'accettazione pura e semplice, che può essere tanto espressa quanto
tacita, comporta la confusione del patrimonio del de cuius e di quello
personale dell'erede.
Peraltro l'individuazione di una forma tacita di accettazione nel comportamento
tenuto dal chiamato non può che essere rimessa ad un mero apprezzamento
di fatto del giudice di merito: per esempio, la domanda di voltura catastale in
capo al chiamato di beni immobili già di proprietà del defunto
è stata intesa dalla Suprema Corte come chiara espressione della
volontà del richiedente di succedere al de cuius (cfr. Cass. civ., sez.
II, n. 5226 del 12 aprile 2002).
Ogniqualvolta l'erede intenda mantenere la massa ereditaria separata dai propri
beni, dovrà accettare con beneficio d'inventario, manifestando tale
volontà mediante dichiarazione resa dinanzi ad un notaio o al
cancelliere del tribunale del luogo in cui è stata aperta la
successione. Detta dichiarazione, inoltre, dovrà essere inserita nel
registro delle successioni del medesimo tribunale; essa dovrà essere
altresì preceduta o seguita dalla redazione di un inventario dei beni
facenti parte del compendio ereditario.
Ai sensi degli artt. 471-473 c. c., peraltro, talune categorie di soggetti, e
precisamente i minori, gli interdetti, gli emancipati, gli inabilitati e le
persone giuridiche, non possono accettare che con beneficio d'inventario, in
quanto l'ordinamento intende assicurare loro una più intensa tutela. In
particolare, statuisce la Cassazione, il rappresentante legale del minore deve
necessariamente accettare, previa autorizzazione del Giudice Tutelare, in forma
beneficiata, dovendosi dichiarare nulla qualsiasi accettazione avente forma
diversa. Il minore, inoltre, è comunque legittimato a rinunciare
all'eredità entro un anno dal compimento della maggiore età, non
potendo essere addossate a suo carico le spese relative alla predisposizione
dell'inventario (si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. II, n. 9648 del 24
luglio 2000).
Tuttavia, nonostante l'accettazione venga effettuata nel rispetto delle
formalità stabilite dalla legge, l'erede può decadere dal
beneficio d'inventario qualora si renda responsabile di talune omissioni e
infedeltà, per esempio alienando alcuni beni ereditari senza previamente
ottenere le prescritte autorizzazioni giudiziarie: in tal caso egli
tornerà ad essere un erede puro e semplice.
Analizziamo ora più precisamente gli effetti del beneficio d'inventario,
così come indicati dall'art. 490 c. c.: tenuto conto della separazione
esistente tra il patrimonio del de cuius e quello personale dell'erede,
quest'ultimo conserverà verso l'eredità tutti i diritti e gli
obblighi che aveva in vita verso il defunto e sarà tenuto al pagamento
dei debiti ereditari e dei legati non oltre il valore dei beni pervenutigli. I
creditori dell'eredità ed i legatari, inoltre, avranno la preferenza
rispetto ai creditori dell'erede per soddisfare le loro ragioni sulla massa
ereditaria.
L'eredità giacente
Quando i chiamati all'eredità non sono in possesso dei beni ereditari e
non hanno ancora esercitato il diritto di accettare, occorre individuare un
soggetto in grado di amministrare adeguatamente le sostanze del de cuius,
provvedendo anche a pagare i debiti ereditari. In tal caso si è dinanzi
ad un'ipotesi di eredità giacente, in attesa, cioè, di essere
acquistata dai successori del defunto.
Il legislatore, dunque, all'art. 528 c. c., prevede che chiunque vi abbia
interesse (chiamato successivo, legatario, creditore della massa, ecc.) possa
proporre istanza al tribunale del circondario ove si è aperta la
successione del de cuius perché venga nominato un curatore
dell'eredità giacente, titolare di ampi poteri volti alla gestione e
alla valorizzazione dei beni ereditari, nonché legittimato a
rappresentare in giudizio l'eredità stessa. Peraltro, fin dal 1987, la
Corte di Cassazione ha precisato che è possibile richiedere la nomina
del curatore dell'eredità giacente anche qualora semplicemente non si
sia a conoscenza dell'esistenza in vita di chiamati alla successione che siano
in possesso di beni ereditari (cfr. Cass., sent. 31 marzo 1987, n. 3087).
La curatela viene a cessare in coincidenza con l'accettazione
dell'eredità da parte di almeno uno dei chiamati; portato a termine
l'incarico, il curatore è tenuto a presentare il rendiconto del proprio
operato.
La rinuncia all'eredità
Colui che per testamento o per legge viene chiamato all'eredità
può disporre del proprio diritto di accettare l'eredità stessa
dichiarando di rinunciarvi con effetti retroattivi al momento dell'apertura
della successione.
L'atto di rinuncia, peraltro, a differenza dell'accettazione, può anche
essere oggetto di revoca. La revoca, comunque, avrà effetto soltanto
qualora il soggetto chiamato a sostituire il rinunciante non abbia nel
frattempo accettato l'eredità in luogo di questi.
La rinuncia, infatti, escludendo l'autore di essa dal novero degli eredi del de
cuius, consente ad uno o più soggetti di subentrare nella successione.
Innanzitutto, dunque, succederanno, in virtù del meccanismo di
rappresentazione previsto dall'art. 467 c. c., i discendenti del rinunciante, a
meno che il testatore non abbia espressamente designato nel proprio atto di
ultima volontà il sostituto.
Qualora, peraltro, l'istituto della rappresentazione non possa operare e manchi
un'espressa indicazione del de cuius in tal senso, troverà applicazione,
nel caso in cui più chiamati concorrano all'eredità, il
meccanismo dell'accrescimento della quota in favore degli altri chiamati.
Se, infine, nessuno di tali correttivi potrà trovare attuazione, si
ricorrerà alla successiva chiamata ex lege.
La petizione di eredità
L'ordinamento giuridico italiano tutela l'erede la cui qualità venga
contestata da un altro individuo in possesso dei beni ereditari mediante
l'azione giudiziaria della petizione di eredità, disciplinata dagli
artt. 533-535 c. c.
La finalità della petitio hereditatis, come la Corte di Cassazione ha
chiarito fin dalla sentenza n. 5304 del 1984, è prevalentemente
recuperatoria: tale strumento processuale è infatti diretto, previo
accertamento della vocazione ereditaria dell'attore, a recuperare i beni
già appartenenti al de cuius e posseduti da terzi estranei. Sotto il
profilo dello scopo perseguito, dunque, l'azione in commento è stata
qualificata dalla giurisprudenza di legittimità come azione di natura
reale, volta a garantire, in caso di accoglimento della domanda attorea,
l'acquisto della disponibilità dei beni ereditari posseduti da terzi: in
tal senso, recentemente, si è espressa la Suprema Corte con sentenza n.
10557 del 2 agosto 2001.
Qualora, poi, il giudice decida la petitio hereditatis riconoscendo la
qualità di successore universale in capo all'attore, tale riconoscimento
non può più essere oggetto di contestazione se non nei limiti
della revocazione della sentenza, stabiliti dagli artt. 395 e segg. c. p. c.
(Cass. civ., sez. II, n. 5920 del 15 giugno 1999).
Ciò detto, a tal punto è opportuno chiarire che il rimedio della
petizione di eredità può presentare alcune affinità con
l'azione di rivendica, posta dal nostro legislatore a tutela delle ragioni del
proprietario i cui beni siano stati sottratti da terzi.
Tuttavia, una differenza fondamentale dev'essere ricordata: laddove la petitio
hereditatis ha ad oggetto l'accertamento della qualità di erede di un
soggetto e l'appartenenza di uno o più beni all'asse ereditario, nella
rei vindicatio viene dedotto in giudizio il diritto di proprietà su una
cosa vantato da una parte nei confronti dell'altra. Tale distinzione,
già affermata in giurisprudenza, ha trovato una definitiva consacrazione
nella sentenza della Cassazione civile, sezione II, del 26 maggio 1998, n.
5225.
La petizione di eredità, peraltro, può essere esercitata
esclusivamente dall'erede, e non anche dal semplice chiamato, contro il
possessore di beni ereditari, con o senza titolo, il quale comunque contesti la
qualità ereditaria dell'attore.
Detta azione, inoltre, è imprescrittibile, salvi gli effetti
dell'usucapione sui singoli beni del patrimonio del defunto.