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Domande frequenti

Salve, ho comperato un immobile ad un’asta fallimentare un anno fa. Ho depositato la cauzione e la quota spese richiesta. Vorrei sapere se questa quota viene restituita oppure no e come io debba comportarmi, tenuto conto che ad oggi non mi è stato comunicato nulla dal Tribunale.
Per partecipare ad un'asta, di solito, vengono richiesti due versamenti: uno -generalmente pari al 10%- da imputare al prezzo e l'altro -generalmente pari al 20%- a titolo di acconto per le spese di trasferimento. Ad ogni modo è sufficiente leggere l’avviso d’asta per dipanare il dubbio.
L'aggiudicatario, nel periodo indicato dal Giudice successivo alla data di aggiudicazione (che può essere provvisoria), deve versare il saldo prezzo corrispondente al valore di aggiudicazione meno il 10% già versato. Per la verità, in ipotesi di vendita con incanto, il termine per il versamento del saldo prezzo dovrebbe decorrere dall'undicesimo giorno successivo alla aggiudicazione provvisoria, perché nei dieci giorni potrebbero essere ammessi rilanci, ma questo è un elemento che non dovrebbe interessarLe, tenuto conto che Lei, a quanto pare, ha già provveduto al versamento integrale del prezzo. Il problema va pertanto affrontato sotto altri profili.
Versato il saldo prezzo, il Giudice redige il decreto di trasferimento (che contiene anche l'ordine di cancellare le trascrizioni e le iscrizioni pregiudizievoli); a seconda della prassi dei Tribunali gli adempimenti successivi possono essere svolti dal creditore procedente o da un ausiliario del giudice (o dal Curatore ove si tratti di vendita fallimentare).
Il decreto di trasferimento viene tassato (registro e ipotecarie catastali) e, quindi, trascritto (ed annotate le cancellazioni delle trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli), dopo di che all'aggiudicatario dovrebbe essere resa l'eventuale eccedenza, o richiesta la integrazione.
Non è possibile tuttavia determinare una volta per tutte l'entità della spesa sulla base delle notizie che hai fornito perchè l'importo dipende da diverse variabili, per la maggior parte connesse all'aliquota di registro applicabile (se Lei ha acquistato con i benefici “prima casa” quasi sicuramente Le sarà restituita una parte dell’importo, a meno che il bando d’asta non prevedesse le cancellazioni a carico dell’aggiudicatario) .
A quel punto del procedimento – ove si tratti di vendita a seguito di pignoramento- dovrebbe essere fissata la prima udienza per la distribuzione del ricavato corrispondente al saldo esistente sul deposito a suo tempo istituito, ma questa fase interessa i creditori e non l’aggiudicatario.
I tempi necessari per la redazione e la trascrizione del decreto di trasferimento variano a seconda del soggetto tenuto a compiere gli adempimenti e del carico di lavoro delle Cancellerie, alle quali potrà rivolgersi per informazioni. Innanzitutto Lei dovrà accertare se il decreto di trasferimento dell’immobile sia stato trascritto e quindi se Lei ad oggi risulti proprietario del bene oppure no.
abbiarti o preoccuparti- che il tuo titolo di acquisto non sia ancora stato trascritto (e ciò significa che ancora non risulti proprietaria del bene): potrà agevolmente verificare questa circostanza recandosi presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari della Sua città e chiedendo un’ispezione meccanizzata a Suo nome. Qualora dalla misura emerga la trascrizione del decreto di trasferimento, è sufficiente che Lei si rechi in Tribunale – ufficio esecuzioni immobiliari- e chieda notizie circa il deposito da Lei effettuato un anno fa. Se dalla misura, invece, non dovesse risultare la trascrizione, Lei dovrà rivolgersi alla medesima Cancelleria richiedendo i tempi di massima ancora necessari.
Qualora peraltro Lei continuasse a nutrire dei dubbi, dopo aver verificato in Cancelleria lo stato degli atti, potrebbe sempre scrivere al Giudice Delegato che Le ha aggiudicato il bene, indicando il numero del fallimento, la data della aggiudicazione, la data del saldo prezzo, ed il problema che La riguarda.

A seguito del fallimento del conduttore di un immobile, il Curatore ha provveduto a restituire il bene al proprietario dopo 18 mesi dalla dichiarazione di fallimento, senza peraltro corrispondergli alcunché. Quali obblighi ha il Curatore?
Il Curatore fallimentare, allorché subentra nel contratto di locazione di un immobile, deve essere qualificato come un conduttore, alla stregua del fallito, e pertanto è tenuto a pagare il canone, pena lo sfratto per morosità; trattasi in questo caso di debito di massa, che va pagato in sede di ripartizione dell’attivo in via prededuttiva, prima di ogni altro credito, senza che occorra neppure peraltro la domanda d'ammissione al passivo. Il proprietario dell’immobile può anche ottenere decreto ingiuntivo per i canoni non pagati ed eseguire pignoramento delle attività fallimentari.
Detto questo, può capitare che un Curatore, dinanzi ad un fallimento senza attivo, non rilasci l'immobile senza motivo o perché deve ancora liberarlo da qualche cespite o dalla documentazione aziendale; in tal caso, se non ci sono denari, nulla potrà pagare il fallimento. Ritengo però, in tal caso, che il danno cagionato dal Curatore al locatore, per propria negligenza e quindi colpa, possa essere allo stesso addebitato a titolo risarcitorio.
Del tutto chiaro a tale riguardo è l'art. 80 della legge fallimentare, secondo il quale il curatore che subentra nella posizione del fallito può solo recedere dal contratto, corrispondendo un'indennità. Ciò significa che deve pagare il canone come il vecchio conduttore e, in caso contrario, può recedere e rilasciare i locali risarcendo il danno che il recesso comporta.

Ho accettato la nomina di Curatore in una procedura fallimentare rivelatasi priva di attivo. Chi provvederà alla liquidazione dei miei compensi?
Con il D.P.R. N° 115 del 30/05/2002: “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” sono state riunite e coordinate tutte le precedenti norme sulle spese di giustizia. In esso sono disciplinate: tutte le voci di spesa; il patrocinio a spese dello Stato; le procedure per il pagamento da parte dell'erario e dei privati; l'annotazione nei registri, e la riscossione, compresa quella delle spese di mantenimento in istituto, delle pene pecuniarie, delle sanzioni amministrative pecuniarie inflitte agli enti, delle sanzioni pecuniarie processuali. La materia è comune al processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario.
Come la Relazione al Testo Unico specifica, l'intento del legislatore è stato quello di ordinare in modo organico un quadro normativo confuso e frammentato, disciplinando qualunque fattispecie verificabile in materia di spese di giustizia.
L’art. 146, intitolato “Prenotazioni a debito, anticipazioni e recupero delle spese”, a differenza dell’abrogato articolo 91 della legge fallimentare, indica tassativamente, secondo uno schema chiuso di previsione, le ipotesi in cui le spese della procedura sono da prenotarsi a debito o da anticiparsi a cura dell’erario, disponendo che nella procedura fallimentare, che e' la procedura dalla sentenza dichiarativa di fallimento alla chiusura, se tra i beni compresi nel fallimento non vi e' denaro per gli atti richiesti dalla legge, alcune spese sono prenotate a debito, altre sono anticipate dall'erario. In particolare sono spese anticipate dall'erario, tra l’altro, le spese ed onorari ad ausiliari del magistrato; le spese prenotate a debito o anticipate sono recuperate, appena vi sono disponibilità liquide, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo.
L'articolo 3 del DPR 115/2002 definisce al punto n) "ausiliario del magistrato": il perito, il consulente tecnico, l'interprete, il traduttore e qualunque altro soggetto competente, in una determinata arte o professione o comunque idoneo al compimento di atti, che il magistrato o il funzionario addetto all'ufficio può nominare a norma di legge”; non cita espressamente la figura del curatore, né la esclude.
Una interpretazione che nega la possibilità di considerare il curatore come “ausiliario del magistrato” condurrebbe “per absurdum” alla conseguenza che, in virtù dell’articolo 146 del Testo Unico, al curatore non competerebbe nemmeno il rimborso di quelle spese da lui anticipate ed autorizzate dal giudice delegato, che erano in precedenza liquidate a norma dell’articolo 91 della legge fallimentare, nonché dell’art. 4 del D.M. del 28/07/1992, N° 570.
Invero, se si dovesse ritenere che l’art. 146 del T.U. non prende in considerazione, né disciplina in alcun modo le spese anticipate dal curatore e l’onorario di lui, non si potrebbero applicare neppure le disposizioni di cui al D.M. 570/92, dato che tali disposizioni, avendo natura regolamentare, hanno bisogno per la loro applicazione del supporto della legge che le giustifichi. Del resto, sarebbe incomprensibile l’affermazione insita nella relazione al Testo unico, innanzi riportata, laddove si richiama l’art. 4 del D.M. 570 del 28/07/1992, che prevede il rimborso al curatore delle spese da lui sostenute ad autorizzate dal giudice delegato.
Ricorre, quindi, la necessità di esporre delle riflessioni come contributo alla tesi della qualifica del “curatore fallimentare”, quale “ausiliario” del Giudice, attesa la discussione sul punto, in relazione alla interpretazione dell’art. 3 del D.P.R. N° 115 del 30/05/2002, lett. n), collegata a quella del 2° comma, lett. c), dell’art. 146 della stessa legge.
Ed invero, la dottrina e la giurisprudenza, anche della Suprema Corte di Cassazione, hanno attribuito risalto all’attività del curatore fallimentare per la delicatezza dei compiti amministrativi, giudiziari e tributari, tale da qualificarlo “organo” dell’Amministrazione fallimentare. Ma tale denominazione non esclude, anzi, rafforza il concetto che il curatore sia da considerarsi un amministratore di beni altrui e perciò “ausiliario” del Tribunale prima, e del Giudice Delegato poi.
Infatti, ad eccezione dell’attività di amministrazione ordinaria, sulla quale egli è tenuto a dare comunque contezza nella relazione mensile prevista dall’art. 33, ultimo comma, della legge fallimentare, ogni altra attività di natura patrimoniale non gli è consentita senza l’autorizzazione preventiva del Tribunale o del Giudice Delegato. Ciò induce a ritenere (per quasi unanime dottrina) che l’ Ufficio fallimentare, nelle sue essenziali funzioni di natura amministrativa, comprende 4 distinti “organi”: il Tribunale ( nella sua composizione collegiale); il Giudice Delegato (membro del Collegio e da questo delegato); il Curatore; il Comitato dei creditori.
Il Tribunale è l’effettivo “titolare” della procedura esecutiva concorsuale, mentre il Giudice Delegato soprintende a tutte le concrete operazioni patrimoniali, avvalendosi dell’opera del Curatore, la cui attività “di amministrazione” dirige e controlla. Il Comitato dei creditori va sentito in ogni caso previsto dalla legge processuale, costituendo la sua funzione di controllo una più diretta e palmare tutela degli interessi della “massa”.
E’ evidente, quindi, che, per la legge civile, il curatore fallimentare, che è amministratore giudiziario per eccellenza, è un importante ”ausiliario” del Giudice, nel conservare, gestire e liquidare il patrimonio mobiliare ed immobiliare del fallito.

Ho ottenuto una sentenza che condanna il mio ex datore di lavoro a corrispondermi un rilevante importo a seguito del demansionamento da me subito. Egli, nel frattempo, è fallito. Il credito da me vantato è assistito da qualche privilegio?
Ai sensi della recente sentenza n. 113/2004 della Corte Costituzionale, deve concludersi che il credito da mobbing oggi è un credito privilegiato, cosicché il lavoratore dipendente - al quale sia stato riconosciuto, con una decisione giudiziale, un credito per demansionamento - può farlo valere nel giudizio di esecuzione nei confronti del datore di lavoro come credito privilegiato e non più come credito chirografario. Infatti, le somme dovute a titolo di risarcimento dei danni per demansionamento subito a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro rientrano oggi, infatti, tra i crediti muniti del privilegio generale sui mobili, a seguito dell’estensione in tal senso dell’art. 2751-bis c. c.
Va premesso che l’articolo 2103 cod. civ., nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, stabilisce nella prima parte del primo comma che il prestatore di Ilavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Nell’elaborazione dei giudici ordinari, peraltro, è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest’ultimo danni di vario genere: danni alla professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda; danni alla persona ed alla dignità, particolarmente gravi nell’ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica. L’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione – situazioni in cui si risolve la violazione dell’articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) – può comportare pertanto anche la violazione dell’art. 2087 cod. civ.
La Corte Costituzionale ha pertanto riconosciuto che tra il credito da demansionamento e quelli già muniti del privilegio in questione sussiste l’omogeneità richiesta per ritenere che la mancata inclusione del primo nel novero dei crediti muniti del privilegio generale sui mobili costituisca violazione dell’articolo 3 della Costituzione.
Alla luce di questo, Lei pertanto potrà chiedere di essere ammesso al passivo del fallimento del Suo datore di lavoro per l’importo liquidatoLe dall’Autorità Giudiziaria in via privilegiata, ai sensi dell’art. 2751-bis n. 1 c. c., così come modificato dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.

La risoluzione e/o l’annullamento del concordato preventivo fanno venire meno le garanzie prestate da terzi ai fini dell’esecuzione del concordato?
La questione in esame è da tempo dibattuta in dottrina e giurisprudenza, anche se su di essa si è ormai formato un orientamento consolidato della Cassazione. Prima dell'entrata in vigore dell'attuale legge fallimentare, la dottrina si era orientata per la conservazione delle garanzie, in base al rilievo che non appariva ragionevole il venir meno delle garanzie in conseguenza della risoluzione di un concordato per il cui adempimento esse erano state costituite.
La tesi contraria al permanere delle garanzie si fonda in primo luogo sul rilievo che l'art. 140, terzo comma, legge fallimentare,il quale stabilisce che in caso di riapertura del fallimento a seguito di risoluzione o annullamento del concordato fallimentare “i creditori anteriori conservano le garanzie per le somme tuttora ad essi dovute in base al concordato risolto o annullato", non è richiamato dall'art. 186 legge fallimentare che disciplina la risoluzione e l'annullamento del concordato preventivo.
Ne deriverebbe che l'art. 140 legge fallimentare non solo non sarebbe applicabile direttamente, in quanto non richiamato dall'art. 186, ma non sarebbe neppure suscettibile d'applicazione analogica, non potendosi riscontrare l'identità dei presupposti tra l'ipotesi di risoluzione o annullamento del concordato fallimentare e gli omologhi casi ricorrenti nel concordato preventivo.
In giurisprudenza la Suprema Corte con decisioni non recenti prima ha negato (Cass. 17 ottobre 1977, n. 4438) e poi ha riconosciuto il permanere delle garanzie (Cass. 3 aprile 1978, n. 1500). Nella sostanza gli argomenti posti a fondamento della tesi negativa da Cass. 4438/77 si riducevano all'impossibilità di far luogo ad interpretazione analogica dell'art. 140 legge fallimentare in nome della diversità di situazioni tra concordato fallimentare e preventivo, diversità che veniva più postulata che concretamente dimostrata. Cass. 1500/78 argomentava invece essenzialmente dall'accessorietà della garanzia all'obbligazione del debitore, che non è novata dall'omologazione del concordato, e dalla irragionevolezza di ammettere la liberazione del garante proprio quando la risoluzione è conseguenza anche del suo inadempimento. Quest'ultimo orientamento era stato poi confermato da Cass. 22 febbraio 1993, n. 2174.
Il contrasto di giurisprudenza è stato composto dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. 18 febbraio 1997, n. 1482), le quali riassumono i termini del dibattito dottrinale e giurisprudenziale e concludono per la conservazione della garanzia anche in caso di risoluzione del concordato preventivo, precisando peraltro che il garante è tenuto nei limiti della percentuale concordataria e che legittimato a far valere la garanzia è il curatore del fallimento dichiarato in conseguenza della risoluzione.
Si osserva in tale pronuncia che l'obbligazione del garante non sorge in relazione ad uno specifico rapporto obbligatorio, ma va ricollegata alla funzione del concordato di assicurare l'adempimento nell'ambito dell'effetto esdebitatorio suo proprio. Nel contempo però la sentenza osserva che proprio perché la garanzia è offerta per assicurare l'adempimento del concordato, non può non scattare in caso d'inadempimento dell'imprenditore. Sostenere il contrario significherebbe negare lo stesso scopo, la stessa funzione della garanzia.
Tuttavia per le Sezioni Unite rimane immutato, come s'è detto, in entrambi i concordati, preventivo e fallimentare, il principio secondo cui la risoluzione non fa venir meno l'obbligo assunto dal garante. Questa considerazione, unita alle argomentazioni fondate sulla ratio legis per cui sarebbe assurdo che il garante fosse liberato dall'obbligo assunto proprio nel momento in cui si è verificato l'inadempimento anche per fatto proprio, fonda la conclusione del permanere dell'obbligazione di garanzia.
Legittimati ad escutere il garante dopo la risoluzione del concordato non sono comunque i singoli creditori, ma il curatore del fallimento, e l'obbligazione del garante è limitata alla percentuale concordataria, non investendo l'intera garanzia.
Si conclude pertanto che la questione della sopravvivenza delle garanzie in caso di risoluzione del concordato, obiettivamente di incerta soluzione, va risolta nel senso della conservazione delle garanzie, sia pur nei limiti della percentuale concordataria per cui sono state offerte. Sembra infatti risolutivo il rilievo che, diversamente ragionando, il garante verrebbe a trarre vantaggio proprio dall'inadempimento a cui egli stesso ha dato causa.